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Lo scetticismo interpretativo

Critica dei processi di individuazione delle norme generali. Il problema dell’interpretazione nel pensiero dei realisti

Secondo i giusrealisti americani la soluzione giuridica di un caso non si risolve nella mera comparazione della descrizione della fattispecie tipica contenuta nella regola, e della (descrizione della) fattispecie concreta, costituendo un problema a sé già la scelta della norma regolatrice del caso. Inoltre, la formulazione della norma regolatrice, nel caso del diritto giudiziale, varia a seconda degli elementi che vengono assunti come principali nei casi già decisi, tanto da lasciare il ”sospetto di circolarità nell’argomentazione giuridica (…) nulla vietando (anzi essendo probabile) che la natura del caso da decidere induca ad una formulazione piuttosto che ad un’altra”. Quest’ultimo punto non riguarda tuttavia direttamente quei casi in cui la regola generale non viene trovata e formulata nel processo di decisione, e sulla scorta di decisioni precedenti, trovandosi già bell’e pronta in una formulazione legislativa. In questi casi, ai quali generalmente si pensa quando, giusta la tradizione dottrinale, si parla dell’argomentazione giuridica come ricalcante una deduzione logica da premesse note a conclusioni certe, si propone il problema dell’ “interpretazione”, cioè il problema della “scoperta” del “significato” della disposizione legislativa da applicare.
I realisti, tentando di accreditare un‘ argomentazione giuridica di tipo nuovo ( tale da corrispondere al “fatto” che i giudici ed in genere gli operatori giuridici sono proclivi in quanto uomini ad agire tenendo conto delle conseguenze dei loro atti), si propongono di mostrare come sia logicamente fallace la pretesa che una conseguenza giuridica in un caso particolare proceda logicamente dalla congiunzione della descrizione degli aspetti fattizi del caso con delle premesse normative. Ne consegue perciò che un’argomentazione basata su questo presupposto non è dotata di necessità logica, talchè “se persuade, persuade o perché chi si fa persuadere è indotto in errore oppure perché serve a mascherare un argomento persuasivo occulto, consistente nella desiderabilità degli effetti che l’accoglimento della tesi argomentata produrrebbe”.
I realisti che più si occuparono dei problemi interpretativi sono senza dubbio Max Radin e Walter W. Cook. La critica dell’argomentazione giuridica prodotta da questi autori si focalizza prevalentemente, se non esclusivamente, sull’argomentazione applicata al diritto giudiziario, cioè a quei processi argomentativi in cui la norma regolatrice viene formulata nell’atto stesso in cui la si “scopre” .
Il problema dell’interpretazione è, per il Radin, il problema della determinazione dell’estensione delle formule. A questo proposito, viene esclusa fin dal principio la possibilità di concepire la “interpretazione” come una rubrica generale comprendente, assieme all’interpretazione giuridica, anche altri tipi di interpretazione. L’esclusione di ogni problematica dell’interpretazione in generale permette al Radin di studiare l’interpretazione come “processo logico”: e non invece come “fenomeno dell’intendere”.
Per analoghe ragioni, il Radin non si sofferma a considerare l’intento del legislatore, il quale non ha alcun significato; infatti, “la locuzione designa qualcosa di inesistente e comunque qualcosa che, anche se esistesse e fosse determinabile, non potrebbe vincolarci”. L’unico modo per comprendere il meccanismo dell’interpretazione, perciò, consiste nel determinare le caratteristiche logiche delle formulazioni legislative, e nell’esaminare come le parole della legge “una volta espresse, verbalizzate, trascritte, registrate, proclamate, incise nel bronzo, diventino strumenti (instrumentalities) che organi esecutivi e tribunali debbono usare nell’espletare le funzioni loro proprie” .
Secondo Max Radin, da un punto di vista logico, il problema dell’interpretazione di una norma (e, più in genere, di una proposizione linguistica) si risolve nel problema dell’ambiguità dei nomi comuni, cioè dell’ambiguità che si verifica allorquando una o più situazioni o uno o più eventi vengono descritti come membri di una classe. “Una legge – scrive il Radin – contiene (…) la descrizione di una situazione (a statement of a situation) o meglio di un gruppo di eventi possibili in una situazione, e perciò è essenzialmente ambigua”: usando però il termine “ambiguo” non in senso peggiorativo, bensì solo in senso descrittivo. Egli inoltre precisa che, qualunque possa essere l’uso di “ambiguo” nel linguaggio corrente, il termine viene usato esclusivamente nel senso di “polisignificativo”; quantunque un’asserzione dotata di due possibili significati contraddittori tra loro sia “ambigua”, “affinchè un’asserzione venga detta ambigua non è necessario che i suoi significati possibili siano mutuamente contraddittori. Essa infatti è ambigua se ha due possibili significati – due qualunque – e non fa differenza se questi si contraddicono parzialmente o no”.
Peraltro, da un punto di vista logico, vi è per il Radin un parallelismo tra la situazione che si presenta al giurista che argomenta sul diritto giudiziario e quella che si presenta al giurista che argomenta sul diritto legislativamernte formulato; “come un evento può essere sussunto a diverse formulazioni di principi emersi nel corso di decisioni precedenti, così un evento può essere sussunto a diversi significati presenti in una stessa formula legislativa”. Ad ogni modo, la presenza nel diritto legislativo di formulazioni altamente particolareggiate, impedisce di spingere troppo oltre il parallelismo col diritto giudiziario. Per lo meno in un caso limite, la formulazione legislativa chiude la strada ad una scelta compiuta dall’interprete: si tratta delle formulazioni legislative che predicano conseguenze giuridiche di qualcosa che viene designata mediante nome proprio: tale è il caso di “una legge che ratifica un particolare atto passato di una persona nominata”. Solo formulazioni di questo tipo possono dirsi determinate.
La maggioranza delle formulazioni legislative però non rientrano nel tipo suddetto. Alcune di esse, pur non rientrando nel tipo precedente perché al posto di un nome proprio vi è una variabile, sono tuttavia “chiare” (plain). Ovunque nella formulazione vi sia un elemento variabile, tale elemento conferisce alla formulazione il carattere dell’ambiguità; in questo caso ci troviamo perciò di fronte a norme ambigue; tuttavia “l’ambiguità può venire facilmente superata attraverso considerazioni di luogo e di tempo”.

Esaminando questo secondo tipo di formulazioni, il Radin giunge a concludere che il processo di interpretazione di una norma giuridica non differisce apprezzabilmente dal processo interpretativo di un’espressione simbolica contenente una o più variabili. Interpretare una norma legislativamente formulata significa in sostanza dare un valore alle variabili contenute nella formulazione legislativa. Cioè “rendere determinata una determinabile”, ove “la determinata è costituita”, a fini pratici, “dall’oggetto della controversia”. Un’operazione del genere presenta un alto grado di arbitrio, anzi dal punto di vista logico è meramente arbitraria.
Quando la formulazione comprende un maggior numero di variabili, o la formulazione è tale che un senso può esserle attribuito sostituendo alla variabile un gran numero di determinazioni, i processi di interpretazione consistono in sostituzioni successive, volte a “ridurre” il numero delle determinate possibili al fine di rendere la norma “chiara”. A questo punto si dice che la norma ha bisogno di ulteriore interpretazione, ma “occorre però notare – osserva il Radin - che tutto il processo è arbitrario e che, esclusi i casi di formulazioni determinate, quando i tribunali affermano che una legge è chiara e perciò non richiede interpretazione, essi procedono a quella inversione che caratterizza tanta parte del giudizio (judicial process). Essi hanno in realtà già interpretato e dichiarato che, così interpretata, la legge non richiede interpretazione ulteriore”.
Dopo aver ribadito che l’individuazione di una formula normativa generale non può avvenire per il tramite di una deduzione logica, il Radin propone tre tesi circa l’individuazione di formulazioni generali da parte dei giudici: 1) ricorso ai cosiddetti canoni ermeneutici; 2) ricorso alla volontà o intento della legge; 3) ricorso alla determinazione e valutazione degli effetti rispettivi delle diverse decisioni possibili in un caso.
La prima delle suddette tesi non funziona di per sé come criterio d’individuazione delle norme generali, perché i canoni sono espressi da coppie di regole configgenti, e tra le quali la scelta è arbitraria, che hanno la tendenza a condurre rispettivamente un operatore verso decisioni opposte di uno stesso caso. I canoni ermeneutici cui il Radin si riferisce sono i due canoni expressio unius est exclusio alterius ed eiusdem generis. Il ricorso ai canoni ermeneutica, senza specificazione di quale canone si tratti, non significa nulla, essendo difficile ipotizzare una decisione che non possa essere presentata come “applicazione” di una regola e “violazione” dell’altra. Per Radin, a causa della elasticità del linguaggio ordinario, ci troviamo nella situazione seguente: “quando abbiamo una lunga lista di categorie di oggetti che si conclude con le parole < ed altri >, possiamo tranquillamente omettere queste parole, oppure omettere la lista precedente”. Così stando le cose, la scelta di una delle alternative è una scelta di carattere metagiuridico, e l’impiego della stessa regola ejusdem generis viene condizionata da tale scelta. L’impiego di questa regola dipende dalla stessa scelta per cui si decide per una interpretazione “stretta” o “larga”, ma la regola non può darci il criterio in base al quale la scelta viene compiuta.
Dato che il ricorso ai canoni ermeneutici non vale come criterio di decisione, il Radin passa all’esame degli altri due canoni interpretativi cui spesso la dottrina moderna si è riferita: 1) nell’interpretare una formulazione legislativa si deve tener conto dei “fini della legge”; 2) nell’interpretare una formulazione legislativa si deve tener conto delle “conseguenze” che derivano dalle interpretazioni possibili.
Orbene, dal punto di vista del “criterio dei fini” i realisti in generale non ritengono affatto si tratti di un vero “criterio”, non potendo determinarsi in alcun modo quale tra due decisioni diverse, entrambe tali da poter essere intese come compatibili, sia conforme ai “fini” della norma. A tal punto che, secondo i realisti, non ha senso chiedersi se un giudice s’è attenuto o meno, nel decidere in un certo modo, ai fini della norma: oppure discutere se a tali fini i giudici debbano o non debbano attenersi.
Il criterio dei fini, in altre parole, non è un criterio, non funziona come criterio, perché secondo i realisti non è possibile attribuire un senso specifico all’espressione “i fini della norma”. E questo per due motivi: storico-critico e analitico-strumentale. L’argomento storico-critico punta sulla perdita di significato dei termini contenuti in formule normative con il passare del tempo. Le parole tendono a perdere significato, allorquando si pongono dei problemi non previsti direttamente da chi formula una proposizione normativa, dacchè in tal caso non è possibile un riferimento all’intenzione, bensì solo “al linguaggio ed alla situazione, cioè all’intenzione ovvia, anziché reale”. Questo processo viene, secondo Llewellyn, a privare la formulazione normativa di un “significato proprio”, e perciò anche di un fine proprio. L’Yntema voleva dire la stessa cosa quando osservava che “il significato (meaning) di un precetto non è dato dalla sua emissione (enactment) bensì dalla sua applicazione amministrativa”. Non appena inizia questo processo, ciò che si chiama “fine della norma” viene ad essere null’altro che quel fine dell’operatore che l’operatore stesso vuole perseguire avvalendosi della formula legislativa.
I fini della norma ai quali l’operatore si dovrebbe attenere s’identificano così con i suoi propri fini: di conseguenza, la norma cessa di essere un criterio di decisione. Proprio su questa base tutti i realisti, ed il Llewellyn in specie, daranno un giudizio politico negativo su quella parte della dottrina giuridica che si attesta sulla concezione “austiniana” del diritto come comando e dell’argomentazione giuridica come deduzione logica. Tale dottrina, infatti, occultando il “senso politico delle azioni degli operatori giuridici”, preclude l’aperta discussione pubblica circa quale azione degli operatori giuridici a livello autoritativo sia politicamente opportuna in date circostanze e rispetto a dati problemi. Questo atteggiamento dei realisti, per Llewellyn, si fonderebbe non sulla opinione secondo cui i giudici “debbono” agire come politici, bensì sulla credenza che “i giudici non possono fare altrimenti”. Secondo il Llewellyn, finchè il codice è giovane, l’intento serve alla stabilità; ma “a mano a mano che il codice invecchia, l’utilità di un simile trattamento diviene minore”, anzi, “a mano a mano che ci si allontana dal momento storico in cui l’esperimento venne fatto, un simile trattamento diviene dannoso, cioè pseudo-interpretazione”. Quando si arriva a questo punto, una proposizione normativa non adempie più alla funzione di influenzare i comportamenti, e non ha più un significato proprio; a questo punto, uno studio del diritto che parta dalle proposizioni normative anziché dalla pratica, sarebbe non solo inutile ma dannoso nel senso in cui “è dannoso ogni studio che trascuri quanto di fatto avviene”.
Per Radin, “interpretare tenendo conto del fine” non costituisce affatto per sé un criterio di scelta tale da funzionare in modo univoco. Infatti, se prendiamo in considerazione una qualsiasi formulazione legislativa, ci troviamo di fronte non già ad un fine unico, bensì ad una “catena di fini”, dai più prossimi ai più remoti. Orbene, secondo il Radin, allorquando si vuole proporre genericamente il criterio finalistico come canone di interpretazione del diritto scritto, si dimentica che – a meno non s’intenda alludere all’inesistente volontà di un ente immaginario – tutta una serie di fini (più lontani di quello immediato) è implicita in una formulazione legislativa, ove questa venga presa in considerazione come strumento “per fare” qualcosa. Così stando le cose, l’interpretazione di una formulazione legislativa dal punto di vista finalistico “si risolve in null’altro che nel riconoscimento di un fine remoto e (…) in un giudizio tecnico sull’idoneità di una determinazione delle variabili contenute nella formula a renderne l’applicazione uno strumento utile al raggiungimento di quel fine”. Perciò, “il criterio del fine si risolve nel criterio dei risultati, ove i risultati vengono giudicati in base ad uno tra i più o meno remoti fini che, secondo l’operatore, la legge in questione serve a promuovere”. In conclusione, dice il Radin, “interpretare una legge secondo i suoi fini (by its purposes) implica che il tribunale scelga uno tra i suoi fini che stanno nella sequenza o catena di fini che la legge serve a promuovere, e questa scelta è determinata da motivi che di solito sono occulti”.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Lo scetticismo interpretativo

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Informazioni tesi

  Autore: Riccardo Zeggio
  Tipo: Laurea vecchio ordinamento (pre riforma del 1999)
  Anno: 2002-03
  Università: Università degli Studi di Ferrara
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Baldassarre Pastore
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 137

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