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Lo scetticismo interpretativo

La nozione di interpretazione, al pari della nozione di norma, si configura come centrale nello studio del diritto. Non ci si può, infatti, assolutamente esimere dall’affrontare in via generale, almeno implicitamente, il problema ermeneutico, perché esso è il punto di passaggio obbligato tanto per il teorico quanto per il giurista pratico. Del resto, tutti i giuristi interpretano, moltissime delle loro attività potendo venir qualificate come attività latu sensu “interpretative”. D’altro canto, non c’è tesi di diritto positivo che non venga presentata come una ”interpretazione”, ossia come il risultato o il prodotto di un’attività interpretativa. Attraverso l’interpretazione vengono – secondo le diverse concezioni – accertati o costituiti o in parte accertati e in parte costituiti i precetti che rappresentano l’oggetto della conoscenza giuridica. Non c’è allora da stupirsi se giuristi, filosofi e sociologi del diritto si sono spesso soffermati a riflettere su questo tema, sia elaborando teorie che mirano a descrivere le prassi effettive degli interpreti, sia elaborando dottrine che prescrivono come si debba interpretare.
Il termine “legge”, oltre la norma o regola di condotta, finisce per indicare anche il momento creativo della regola, cioè la fonte della norma e, storicamente, la fonte per antonomasia delle norme o regole di condotta: vale a dire la legge del Parlamento, suprema espressione della sovranità popolare. La legge, intesa nella seconda delle accezioni appena considerate, consta di proposizioni, di uno o più enunciati linguistici eventualmente raggruppati in articoli. Da questi enunciati l’interprete ricava, secondo alcuni, o costruisce, secondo altri, le norme. È dunque attraverso l’interpretazione che si determina il significato del testo e cioè la norma giuridica, ricavata secondo alcuni all’interno del testo (e quindi semplicemente conosciuta dall’interprete) ovvero, secondo altri, costruita dall’interprete stesso.
Le principali teorie dell’interpretazione che si contendono il campo nel pensiero giuridico moderno sono sostanzialmente tre: una teoria cognitiva (o formalistica), una teoria scettica (o realista), ed una teoria mista (o intermedia), che tenta di conciliare le due precedenti.

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4 INTRODUZIONE La nozione di interpretazione, al pari della nozione di norma, si configura come centrale nello studio del diritto. Non ci si può, infatti, assolutamente esimere dall’affrontare in via generale, almeno implicitamente, il problema ermeneutico, perché esso è il punto di passaggio obbligato tanto per il teorico quanto per il giurista pratico. Del resto, tutti i giuristi interpretano, moltissime delle loro attività potendo venir qualificate come attività latu sensu “interpretative”. D’altro canto, non c’è tesi di diritto positivo che non venga presentata come una ”interpretazione”, ossia come il risultato o il prodotto di un’attività interpretativa. Attraverso l’interpretazione vengono – secondo le diverse concezioni – accertati o costituiti o in parte accertati e in parte costituiti i precetti che rappresentano l’oggetto della conoscenza giuridica. Non c’è allora da stupirsi se giuristi, filosofi e sociologi del diritto si sono spesso soffermati a riflettere su questo tema, sia elaborando teorie che mirano a descrivere le prassi effettive degli interpreti, sia elaborando dottrine che prescrivono come si debba interpretare. Il termine “legge”, oltre la norma o regola di condotta, finisce per indicare anche il momento creativo della regola, cioè la fonte della norma e, storicamente, la fonte per antonomasia delle norme o regole di condotta: vale a dire la legge del Parlamento, suprema espressione della sovranità popolare. La legge, intesa nella seconda delle accezioni appena considerate, consta di proposizioni, di uno o più enunciati linguistici eventualmente raggruppati in articoli. Da questi enunciati l’interprete ricava, secondo alcuni, o costruisce, secondo altri, le norme. È dunque attraverso l’interpretazione che si determina il significato del testo e cioè la norma giuridica, ricavata secondo alcuni all’interno del testo (e quindi semplicemente conosciuta dall’interprete) ovvero, secondo altri, costruita dall’interprete stesso. Le principali teorie dell’interpretazione che si contendono il campo nel pensiero giuridico moderno sono sostanzialmente tre: una teoria cognitiva (o formalistica), una teoria scettica (o realista), ed una teoria mista (o intermedia), che tenta di conciliare le due precedenti. La teoria cognitiva sostiene che l’interpretazione è “scoperta”, conoscenza empirica o del significato “proprio”, oggettivo, dei testi normativi (ad es.: le leggi) o della soggettiva intenzione delle autorità normative (ad es.: il Parlamento). “The discovery of the law – scrive a tal riguardo J. Austin - which the lawgiver intended to establish, is the object of genuine interpretation: or (…) its object is the discovery of the intention with which he constructed the statute, or of the sense which he attached to the words wherein the statute is expressed” 1 . Tale concezione (teoria “conoscitiva” dell’interpretazione), che vede nell’interpretazione un’attività di mera conoscenza, non di volontà, di carattere puramente tecnico, deriva dal considerare la normazione una sfera nettamente distinta da quella dell’interpretazione: l’interprete viene a configurarsi come soggetto istituzionalmente distinto e contrapposto al legislatore; esso conosce norme già prodotte da quest’ultimo, norme che, dunque, preesistono all’attività interpretativa. Tale visione dell’impresa ermeneutica soggiace alla credenza che le parole abbiano un significato “proprio”, “intrinseco”, dipendente dalla relazione oggettiva tra parole e cose; o alla credenza che le autorità legislative abbiano una volontà come gli individui oppure un’intenzione univoca e riconoscibile. Ragionando in tal guisa, scopo dell’interpretazione diventa semplicemente scoprire questo significato e questa intenzione preesistenti, già incorporati nelle leggi e in genere nei testi normativi. Per ogni enunciato normativo dovrebbe esservi dunque sempre una, ed una sola, interpretazione “vera”. La direttiva metodologica formalistica postula di conseguenza che ci si debba attenere, nell’interpretazione di un documento legislativo, ove la lettera della legge non sia oscura, ad un’interpretazione cosiddetta “dichiarativa”, attribuendo all’enunciato il senso più immediato ed intuitivo. Essa può sintetizzarsi nel brocardo in claris non fit interpretatio. La teoria cognitiva ritiene, infine, che i sistemi giuridici siano necessariamente “completi” (ossia privi di lacune) e coerenti (ossia privi di antinomie), in modo tale che ogni controversia ricada nell’ambito applicativo di una sola norma giuridica preesistente. Non vi sarebbe allora spazio per la discrezionalità giudiziale: le decisioni dei giudici essendo determinate esclusivamente da norme giuridiche preesistenti. Quindi, ogni questione di diritto sarebbe suscettibile di una sola risposta giusta o corretta. A conclusioni radicalmente antitetiche pervengono invece le teorie realiste (o scettiche) dell’interpretazione giuridica, le quali costituiscono oggetto precipuo della presente tesi. Esse considerano elementi costitutivi del diritto non le statuizioni, bensì formulazioni linguistiche di significato indeterminato. Prima dell’interpretazione 1 J. AUSTIN, Lectures on Jurisprudence or The Philosophy of Positive Law, London, Murray, 1911, pp. 1023-1024.

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Informazioni tesi

  Autore: Riccardo Zeggio
  Tipo: Laurea vecchio ordinamento (pre riforma del 1999)
  Anno: 2002-03
  Università: Università degli Studi di Ferrara
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Baldassarre Pastore
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 137

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