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Le riforme di Bettino Craxi

Dal mercato comune al mercato unico

Nella seconda metà del 1983 la Comunità Economica Europea si trovava in una fase di stallo, causata dalle lotte con la delegazione britannica e gli strascichi delle crisi petrolifere: la maggior parte delle sedute del Consiglio europeo era occupata dalle consultazioni sulla Politica Agricola Comune, che spesso terminavano con un nulla di fatto oppure venivano aggirate dalle norme interne (come fece il governo Craxi nei confronti dei produttori lattario-caseari, a cui permise di produrre oltre 11 milioni di tonnellate, superando il 20 % del tetto stabilito della CEE). Il 14 febbraio 1984, mentre in Italia governo e sindacati discutevano del taglio della scala mobile, il Parlamento europeo approvava la cosiddetta “risoluzione del coccodrillo”: una proposta, creata da un gruppo formato dall’europarlamentare Altiero Spinelli, che s’impegnava nella stesura di “un progetto realistico, capace di coagulare la maggioranza dei consensi e nello stesso tempo in grado di rilanciare l’unificazione, superare le disfunzioni e avvicinare l’obiettivo finale, la federazione europea”. La proposta di Spinelli, tuttavia, giungeva nel momento sbagliato: mentre in Italia l’idea di Europa unita non era affatto consolidata, il Regno Unito contestava la visione centralista della CEE e l’euroscetticismo della Thatcher, che sollecitava il ritorno ai valori della tradizione e alle fonti nazionali, aveva un forte consenso. Questo impulso era espresso anche in altri Stati pur favorevoli all’unificazione, tra cui Francia e Germania. Infatti, al Consiglio di Fontainebleau del giugno 1984, le iniziative del progetto vennero rinviata a data da destinarsi.
Il governo Craxi si trovò così ad affrontare una situazione di crisi in cui era poco probabile che qualsiasi iniziativa di peso inerente all’integrazione politica potesse mai avere luogo, mentre invece c’era interesse nei confronti dell’integrazione militare. Eppure, Craxi credeva che quest’unificazione non avrebbe fatto altro che portare benefici all’intera Comunità e anche al suo popolo: aveva compreso che, nonostante tutti i timori, tutti gli Stati che avevano aderito al Mercato Comune avevano finito per rafforzarsi e allo stesso tempo avevano esercitato i propri diritti sovrani ottenendone addirittura un rendimento più elevato. E ciò era ancora più evidente se si faceva il paragone con gli Stati europei del COMECON (il mercato comune degli Stati satellite dell’URSS): si stava assistendo ad un allentamento dei vincoli collettivistici a favore di una rivalorizzazione dell’interesse nazionale; per esempio le riforme economiche in Ungheria avevano conferito al paese un pronunciato carattere autonomista e nel 1983 il responsabile della politica estera del Partito Operaio Ungherese ammise pubblicamente la possibilità di divergenze tra obblighi di solidarietà di gruppo e l’interesse nazionale. Nel corso della presidenza del Consiglio europeo dell’Italia, che si svolse nel primo semestre del 1985, il governo puntò subito a chiudere positivamente i negoziati per l’ingresso di Spagna e Portogallo: Craxi riteneva che, con l’adesione portata avanti da due partiti membri dell’Internazionale Socialista, si sarebbe potuto fondare un’area socialista mediterranea per farne un nuovo motore per iniziative politiche volte al rafforzamento dell’unificazione europea. Per ottenere questo risultato Andreotti avviò numerosi incontri bilaterali, ritenuti più efficaci per dosare concessioni e rinunce da parte di tutti i governi; al Consiglio europeo del marzo 1985 Craxi ottenne anche un accordo di principio sui programmi integrati per le regioni mediterranee, ultimo ostacolo alla conclusione delle trattative. Così, il 12 giugno 1985, Spagna e Portogallo firmavano il trattato di adesione alla CEE; per l’Italia l’allargamento avrebbe dovuto essere un trionfo e invece divenne un boomerang: Antonio Varsori ha spiegato come la modernizzazione del Pentapartito ha mostrato tutti i suoi limiti nel non comprendere che la CEE stava ampliando le proprie competenze e che “stavano per avere contenuto concreto quelle politiche sociali e regionali che l’Italia aveva sempre auspicato, ma che ora sembravano andare a vantaggio soprattutto dei paesi dell’Europa meridionale da poco inseriti […], per i quali l’Italia era forse più un «concorrente» che un «alleato»”.
Raggiunto il primo obiettivo, al vertice di Milano del 29 giugno il governo era intenzionato a completare il secondo: la riforma istituzionale della CEE. L’intenzione della Thatcher era di uscire da quella riunione con la conclamata volontà dei Dieci di completare il mercato interno tracciato nel 1956 a Messina, rendendo la CEE un colosso commerciale senz’anima politica o identità europea, anche perché secondo il primo ministro britannico bastava quell’atlantica; per poter concretizzare quest’obiettivo scelse una strategia flessibile e attendista. Tuttavia, la Lady di Ferro non aveva previsto l’intervento del primo ministro greco, Papandreu, che dichiarò ad un attonito Craxi che il rafforzamento della CEE andava contro i principi dell’Internazionale Socialista (dichiarazione che tra l’altro metteva a disagio il leader britannico, non avvezza alle idee socialiste) provocando la rinuncia alla parola del primo ministro danese, l’altro partner del Regno Unito. A quel punto Craxi aveva vinto: approfittò della situazione venutasi a creare e mise a votazione il documento presentato all’inizio della riunione dal ministro degli Esteri tedesco, che era stato minuziosamente concepito da Andreotti e dall’omologo francese Roland Dumas durante la notte e che sostanzialmente proponeva una conferenza intergovernativa per la revisione dei trattati. Il mandato ottenuto fu ampio: questa maggioranza rivelò che era possibile una costruzione europea senza far perdere agli Stati membri la propria individualità statale. Infatti, come riconobbe anche Kohl, si potevano tutelare meglio gli interessi nazionali anche cedendo quote di sovranità ad un’entità più grande.
La Presidenza del Consiglio passa alcuni giorni dopo al Lussemburgo, che tra il 2 ed il 3 dicembre 1985 conclude un accordo che fissava il termine del processo riformativo al 31 dicembre 1992 e creava l’articolo 100. Quest’articolo adottava la votazione a maggioranza per l’omogeneizzazione delle legislazioni nazionali tra loro e con la legislazione comunitaria, ma manteneva l’unanimità sulle questioni inerenti la fiscalità, le persone, la politica estera, la politica sociale e la ricerca: era un accordo di compromesso per soddisfare la Thatcher, che in questo modo otteneva di rinviare le riforme più significative. Quella di Craxi divenne così una vittoria incompleta: certamente con la decisione di Milano l’Italia aveva rivitalizzato il processo riformista europeo che porterà, successivamente, al trattato di Maastricht; aveva rafforzato il ruolo della Commissione, ampliato le competenze della CEE e, con l’ingresso dei paesi dell’Europa meridionale, cambiato l’indirizzo del bilancio comunitario verso obiettivi di coesione sociale ed economica. Tuttavia, quando l’evoluzione del Mercato europeo arrivò ad una complessa produzione normativa, tutte le debolezze strutturali dell’Italia presero forma: s’infrangevano costantemente le norme e si era incapaci di utilizzare a pieno i fondi messi a disposizione.

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Le riforme di Bettino Craxi

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Informazioni tesi

  Autore: Cristiano Terranova
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2021-22
  Università: Università degli Studi di Roma La Sapienza
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Scienze Storiche
  Relatore: Emanuele Bernardi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 68

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italia
politica
partito socialista italiano
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