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Procreazione Medicalmente Assistita

Divieto della maternità surrogata: ovodonazione e “utero in affitto”

Con l’espressione ‘maternità surrogata’, si intende la pratica con la quale una donna partorisce un figlio per conto di terzi. La fattispecie può realizzarsi o attraverso la c.d. , dando alla luce un bambino il cui materiale genetico le è completamente estraneo o attraverso la maternità surrogata vera e propria, che si verifica quando una donna non soltanto porta a termine una gravidanza "per conto terzi" ma presta anche il proprio materiale genetico, che potrà essere fecondato con il seme del marito o convivente della donna ‘committente’ o di un donatore terzo.

La questioni più delicata riguarda la determinazione dello status filiationis, ci si chiede infatti se la maternità debba essere attribuita alla madre ‘uterina’ o a colei per conto della quale sono stati posti in essere la gravidanza e il parto, tenuto
conto dell’eventualità che nessuna delle due donne sia anche madre genetica. A monte del rapporto giuridico di filiazione tra madre e nascituro, si colloca la questione più importante inerente alla liceità delle pratiche, infatti la legge attualmente in vigore sancisce che "chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza e pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro" . Il medico ê punito con l’interdizione perpetua dell’esercizio della professione e si prevede inoltre "la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale nei confronti dell’esercente una professione sanitaria condannata per uno degli illeciti di cui al presente articolo".

L’eventuale ricorso a queste metodiche pone molti problemi, legati in particolare, alla individuazione della figura materna e della validità, o meno, degli eventuali accordi interconnessi tra le parti. Ci si chiede in particolare, quale sia da considerare la vera genitrice del bambino procreato mediante tali tecniche, comportando esse una inevitabile moltiplicazione della figura materna e mettendo, dunque in crisi, uno dei principi cardine in materia di accertamento del rapporto generazionale, quello cioè, secondo il quale mater sempre certa est. L’ovodonazione, infatti, pur comportando una scissione tra madre genetica e madre partoriente, non determina il rischio che il nato resti senza una sua genitrice naturale, sia la titolare delle cellule germinali, sia la gestante risultano, infatti, biologicamente legate al procreato. Si tratterà quindi, in presenza di tale lacuna normativa, di stabilire, ove si verifichi un ipotesi di donazione dell’ovulo, quale delle due donne che hanno contribuito alla nascita del figlio debba essere considerata anche madre da un punto di vista giuridico, se cioè, la fornitrice dell’ovulo, che ha dato inizio al processo generativo, o colei che ‘appropriandosi’ del gamete, ha consentito la trasformazione in essere umano del germe di vita in esso contenuto. Escludendo, ovviamente, se non altro per motivi di certezza la potenziale maternità di entrambe le donne.

Il legislatore, in assenza di un consolidato atteggiamento giurisprudenziale, non ha fornito alcuna indicazione al riguardo, essendosi limitato a vietare e punire il ricorso alla maternità surrogata (artt. 4, comma 3°, e 12, comma 6°). Nel silenzio della legge si è ritenuto risolvere il problema dell’individuazione della maternità mediante il ricorso alle norme già esistenti nel nostro ordinamento, in particolare l’art.269, comma 3, c.c., secondo cui il nato è il figlio della donna che lo ha partorito. Il ruolo di madre spetterà quindi a colei che ha messo al mondo il neonato e nessun diritto potrà essere riconosciuto (almeno nell’ipotesi della c.d. ‘locazione d’utero’) alla madre "committente". Si osserva che è grazie al contributo della gestante che la vita della persona sorge e si sviluppa un legame simbiotico con la madre fino al momento del parto, che la partoriente non è una macchina per produrre figli, né un animale il cui ventre può essere utilizzato per un puro servizio materiale, ma soprattutto che è la gestante a restare ‘arbitra’ della prosecuzione della gravidanza.

Pare opportuno valutare come, con riguardo alla situazione vigente negli altri paesi europei, questi, sia pure attraverso processi graduali, si siano preoccupati di affrontare legislativamente sia la questione concernente la liceità della donazione di ovuli, sia quella sicuramente più delicata, relativa allo status giuridico del bambino in tal modo procreato. Si pensi ad esempio, alla Francia, che mentre da un lato ammette l’uso del materiale genetico altrui, sia esso maschile che femminile (purché uno dei gameti appartenga ad un membro della coppia), dall’altro esclude la presenza di un rapporto di filiazione tra nascituro e donatore, sia quest’ultimo l’uomo che fornisce il proprio seme o la donna che apposta l’ovulo. Il bambino sarà figlio della ‘nutrice’ e del marito di lei. Anche la Gran Bretagna, la Spagna e la Germania risultano orientate nel medesimo senso.

Anche prima dell’intervento legislativo, le tecniche di maternità surrogata venivano ritenute quasi sempre inammissibili e spesso è stata prospettata pure la comminazione di severe sanzioni penali, dirette a colpire soprattutto lo sfruttamento economico delle stesse. In particolare, il contratto di maternità surrogata avente ad oggetto non già la disposizione del solo gamete, bensì del bambino stesso era da considerarsi nullo, per contrarietà del suo oggetto a norme costituzionali e ordinarie, all’ordine pubblico e al buon costume, quindi, già alla luce del diritto vigente prima della legge n°40 si tendeva a ritenere senz’altro preclusa, ai committenti, la possibilità di agire per ottenere la consegna del nato e, alla madre portatrice, la riscossione delle somme eventuali pattuite.

In Italia una pronuncia giurisprudenziale in materia molto interessante sotto questo profilo, si è orientata in decisione in senso contrario all’ammissibilità delle pratiche di surrogazione materna, ci riferiamo alla nota sentenza del tribunale di Monza, chiamato ad affrontare il caso sollevato da una coppia di coniugi che avevano stipulato con una donna nubile un contratto di maternità per conto di terzi, con la quale quest’ultima s’impegnava a farsi inseminare artificialmente con il seme del marito della coppia, a portare a termine la gravidanza e a consegnare il nato ai committenti, mentre i coniugi si accollavano, a loro volta, l’obbligo di pagare una somma di danaro. I coniugi avevano, in un secondo momento agito in giudizio per ottenere la condanna della madre surrogata ad onorare gli obblighi contrattuali assunti, visto che quest’ultima si era rifiutata, alla nascita, di consegnare la bambina, preservando nelle sue pretese prestazioni pecuniarie sempre più cospicue. Il Tribunale ha respinto la domanda, ritenendo il contratto nullo per contrarietà alla legge, all’ordine pubblico e, ove a titolo oneroso, al buon costume, affermando, inoltre, l’applicabilità dell’art. 2035 c.c. a quanto eventualmente già corrisposto.

Decisione opposta invece, riguarda il Tribunale di Roma, con ordinanza del 17 febbraio 2000, di cui, due coniugi affetti da problemi di sterilità, concludono un contratto di prestazione medica finalizzato alla fecondazione di ovociti in provetta. In attesa di una donna che acconsenta a portare a termine la gravidanza, gli embrioni vengono crioconservati. Quattro anni più tardi, una donna resasi disponibile fa si che la coppia si rivolga al medico per procedere all’impianto degli embrioni, ottenendo un rifiuto dallo stesso medico, il quale pur non essendo obiettore di coscienza, dichiara di essere vincolato al codice di deontologia medica, che vieta espressamente l’accesso, a pratiche di maternità surrogata.

I coniugi ricorrono, allora all’autorità giudiziaria, mostrando in primis la validità del contratto stipulato con il medico e in secondo il rischio di deterioramento degli embrioni. Il Tribunale accoglie la domanda dei coniugi, affermando che il contratto di maternità surrogata, con cui una donna si assume l’obbligazione di portare a termine una gravidanza per conto di una coppia che riceverà e terrà il neonato, persegue un interesse meritevole di tutela della coppia stessa all’autorevolezza genitoriale, ed è valido anche perché la madre surrogata non è spinta da motivi di lucro, ma solo all’intento solidale di soddisfare il bisogno di maternità all’altra donna e purchê essa non si astenga completamente dai rapporti col bambino, continuando a vederlo e tenerlo con sé per periodi più o meno lunghi. Introducendo così il nuovo concetto di "maternità responsabile", il Collegio ha precisato che la genitorialità della donna committente non deve portare ad escludere il diritto della madre surrogata di continuare a vedere il bambino, di seguirlo, di compartecipare nelle sue manifestazioni di vita e di tenerlo con sé per alcune ore del giorno.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Procreazione Medicalmente Assistita

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Informazioni tesi

  Autore: Silvia Gatti
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2012-13
  Università: Università degli Studi di Napoli
  Facoltà: Lettere, Filosofia e Giurisprudenza
  Corso: Scienze del servizio sociale
  Relatore: Riccardo Sgobbo
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 93

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