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I Canti Orfici di Dino Campana nella Voce di Carmelo Bene

Il depensamento e il linguaggio

Il termine depensamento, semplificando, rappresenta l'opposto del pensare, il non riconoscersi. Costituisce l'annullamento della propria coscienza, della percezione di sé. Può essere considerato come forma di meditazione, oppure può essere visto come un lavorio interno, che conduce ad una non scelta tra gli infiniti doppi. Questo prodursi può paragonarsi al flusso di coscienza (stream of consciousness), ad una sorta di soliloquio interiore. Il depensamento, comunque, non appartiene categoricamente a un metodo colto e aristocratico di sperimentazione e conoscenza, ma fa parte anche e soprattutto della tipica indolenza del Sud, della classe per così dire ignorante, patria di Santi come San Giuseppe da Copertino, verso il quale Carmelo Bene nutre un'empatia e una profonda attrazione.

Nell'opera San Giuseppe Desa da Copertino, ad esempio, c'è la concretizzazione all'interno di un personaggio degli studi di Bene in merito a questo particolare argomento. Di questo santo si racconta che, durante i suoi momenti di estasi, levitasse, si sollevasse da terra, abbandonando i pesi che tengono legato l'essere umano alla terra: questi pesi rappresentano le intelaiature concettuali entro cui si inserisce il ragionamento stesso, il percorso intellettivo. Attraverso questa figura, il genio salentino riproduce uno stato di grazia o di beatitudine, scevro da qualsiasi costruzione mentale ( che viene così paragonata allo stato ideale del depensamento). Si legge, inoltre: "Il piatto fatalismo o l'incolore apatia con cui svogliatamente l'immagine della plebe meridionale, passano dal piano degli stereotipi generici la dignità di atteggiamenti eletti […] non per questo il depensamento raccoglie e nobilita ogni stupita boccaperta, né l'inazione cataloga e giustifica ogni gratuita frenesia, ma l'una e l'altra assorbono e assolvono in sé i comportamenti di chi davvero apprezza le beatitudini, ovvero di chi è sul serio preda di un'entusiastica insoddisfazione".

Quindi Bene anela l'abbandono immaginifico del mistico, ma lo rivisita in chiave del tutto inconsueta. Le visioni che hanno luogo sono illusorie, ma hanno valore nella misura in cui ci si può identificare con esse (si possono attraversare), perché l'oggetto della visione è il soggetto stesso, coincidono, come ritiene anche Deleuze. Qui subentra ovviamente anche il discorso dell'interferenza del potere del linguaggio, a cui si è assoggettati. Così come non si è nati per propria volontà, similmente si è succubi del linguaggio che dispone di noi, e di cui non disponiamo attivamente. Infatti Carmelo Bene dice, facendo proprio quanto già ribadito da Lacan: "quando crediamo di essere noi a dire, siamo detti".

Il linguaggio così istituito e sedimentato, come un coacervo tirannico di luoghi comuni, è visto come una costante ed implicita minaccia, che va debellata a tutti i costi. Bene non ha fatto altro che dedicarsi ad una pratica certosina di destrutturazione del linguaggio, alla ricerca dei suoi buchi neri, scardinando così la sua istituzionalizzazione e normalizzazione. Per quanto riguarda il lato artistico, lo scopo di tutto ciò è dare adito alla possibilità della realizzazione del Grande Teatro, o, in altri termini, del già citato teatro senza spettacolo. Ciò rende chiara l'idea di come, sia il depensamento che questo lavoro di decostruzione del linguaggio, procedano di pari passo.

Al di là della volontà del soggetto, ci si rende perfettamente conto che non si può evitare l'arroganza del potere del teatro, istituzionalizzato, il cui referente è sempre il teatro del potere, quello che Bene definisce di Stato, della rappresentazione. Il linguaggio, perciò, non si possiede, non se ne può disporre. Se ne deve, piuttosto, essere posseduti: "Ebbene, negli spettacoli sconcerti ho discritto la voce dell'inorganico, dell'inanimato, dell'amorfo, del non resuscitato alla smorfia dell'arte lasciandomi possedere dal linguaggio, e non disponendone". Deleuze lo vuole straniero della propria lingua, proprio perché egli ha come scopo ultimo quello di balbettare il linguaggio, nel senso di imporre allo stesso una linea di variazione che lo rende sconosciuto, estraneo.

Questo brano è tratto dalla tesi:

I Canti Orfici di Dino Campana nella Voce di Carmelo Bene

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Informazioni tesi

  Autore: Marcella Calascibetta
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2015-16
  Università: Università degli Studi di Napoli - Federico II
  Facoltà: Beni culturali
  Corso: Management dei Beni Culturali
  Relatore: Ettore Massarese
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 127

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