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La Comunicazione Interculturale: le difficoltà dell’interprete di trattativa tra prossemica e cinesica

Il dialogo interculturale

Secondo Carla Bazzanella il dialogo fra i partecipanti ad una trattativa può essere di due tipi: simmetrico e asimmetrico. Parliamo di dialogo simmetrico quando i partecipanti, se pur di lingua e cultura diverse, appartengono allo stesso status sociale. Come nel caso di una trattativa commerciale dove i due interlocutori hanno in comune le conoscenze relative alla microlingua dell’argomento di cui vanno a trattare. Nel caso invece del dialogo asimmetrico vi è uno squilibrio fra gli interlocutori, ad esempio uno dei due potrebbe presentare un grado di istruzione maggiore, una posizione sociale più alta, ecc. Potrebbe trattarsi qui di una trattiva in campo medico e/o giudiziario.

Il dialogo è l’elemento fondamentale della trattiva. È il momento in cui il ruolo dell’interprete diventa fondamentale. Infatti, quest’ultimo deve avere la capacità non solo di trasferire il messaggio in modo corretto e quasi con lo stesso tono di voce dall’interlocutore A all’interlocutore B ma, deve essere anche in grado di cogliere il meta-messaggio, cioè quella parte implicita del discorso che riguarda il modo in cui il messaggio deve essere interpretato. È attraverso il meta-messaggio che capiamo il tono dell’interlocutore, il tipo di dialogo che si vuole instaurare, se in alcuni casi si tratta di una battuta umoristica, se invece si tratta di un discorso serio e così via. I problemi interculturali che potrebbero insorgere devono essere gestiti dall’interprete, che, appunto, deve essere non solo un conoscitore della lingua (sintassi e lessico) ma anche della cultura dei suoi interlocutori o meglio del suo interlocutore perché, in generale, l’interprete proviene dallo stesso paese di uno dei due interlocutori.

Vi sono diversi fattori che potrebbero causare dei problemi, equivoci, errori:
- Il passaggio dal linguaggio formale a quello informale. Cioè il passaggio dal “lei” al “tu”. Nel caso di un dialogo simmetrico entrambi gli interlocutori possono decidere se passare ad un tipo di linguaggio informale, se invece parliamo di un dialogo asimmetrico, chi è più in alto nella gerarchia sociale può decidere se effettuare questo tipo di passaggio. Anche se in genere, soprattutto nell’ambito delle trattative di affari, non si passa ad un vero e proprio linguaggio informale, bensì si “addolcisce” il grado di formalità, evitando la forma del “lei” o “mr.”, e usando ad esempio il nome di battesimo dell’interlocutore.

- Ci sono culture, come quella turca, quelle asiatiche e nord-africane nelle quali prima di iniziare un discorso relativo al tema per il quale ci si è incontrati, come un affare lavorativo, ad esempio, è necessario discutere in generale sui convenevoli senza che questi vengano interrotti per passare al discorso professionale. Questo invece non è accettato in altre culture, dove c’è l’abitudine di essere pragmatici e quindi, si cerca di saltare i convenevoli per concentrarsi sul tema al centro dell’incontro. Inoltre, nei paesi di cultura anglosassone si accetta di parlare di affari durante i pasti, mentre in Giappone è considerato come maleducazione; in Germania si preferisce parlare d’affari prima dei pasti, mentre in Francia dopo. Ecco perché la competenza interculturale deve essere parte integrante della formazione e, successivamente, della professione dell’interprete.

- Alto elemento cruciale sono i turni di parola. Spesso l’interprete si trova a dover “gestire” in un certo senso gli interlocutori, per far sì che riesca a dare ad entrambi un’ottima traduzione di ciò che si dice.

Ogni cultura, come già sappiamo, ha le proprie regole. Gli italiani, ad esempio, hanno una maggiore flessibilità riguardo i turni di parola, spesso se il concetto che si vuole esprimere è già chiaro mentre la frase viene pronunciata, si interrompe l’interlocutore e si completa la frase; i nord-europei e gli americani non tollerano le interruzioni da parte dell’interlocutore fin quando non indicano attraverso il tono di voce che la loro frase o il loro discorso si è concluso; gli asiatici, se parlano in inglese con uno straniero, usano intervallare le frasi da pause lunghe di silenzio, che potrebbero far capire all’interlocutore che la loro frase è stata conclusa e che quindi è il proprio turno per parlare, producendo nell’asiatico un senso di frustrazione.

- Esistono inoltre le interruzioni vere e proprie. Si interrompe per collaborare e quindi accorciare il discorso se già si è a conoscenza di ciò che l’oratore vuole esprimere; si interrompe, o meglio, si usa la pausa di silenzio per inserirsi col proprio discorso. Anche se è considerata come un’aggressione orale, in quanto per le culture nord-europee, ma anche quella italiana, è un segno di maleducazione; si interrompe per comunicare un dato nuovo che gli altri non conoscevano. Ma ciò non è concesso nelle culture formali, dove è opportuno chiedere prima di interrompe attraverso gesti di comunicazione non – verbale, come alzare la mano, e aspettare che l’oratore dia il permesso di parlare. E, infine, si interrompe in maniera maleducata perché non si è d’accordo con ciò che gli altri stanno dicendo. Un atto considerato come mancanza di rispetto in ogni cultura.

- I latini odiano le pause di silenzio, e se si trovano in tale situazione, siano essi in macchina, a tavola, in qualsiasi circostanza, formale o informale, prendono subito la parola, spesso facendo battute autoironiche. Mentre gli scandinavi e i baltici apprezzano molto il silenzio e invece tendono ad irritarsi se ci si inserisce con delle battute che non siano attinenti al discorso centrale.

- La conclusione di un incontro è altrettanto importante. Spesso avviene che chi ha “guidato” il discorso conclude ricapitolando i punti essenziali affrontati; gli europei e gli americani per far capire che il discorso è terminato passano a brevi convenevoli come ad esempio “complimenti per il lavoro svolto”, mentre gli orientali, come abbiamo già detto, si soffermano di più sui convenevoli, e gli arabi ricordano che il loro futuro è “nelle mani di Allah”.

Durante un dialogo tra persone della stessa cultura avviene una sorta di meccanismo automatico, per cui automaticamente si sceglie la distanza da mantenere in basa alla relazione che si intrattiene con il proprio interlocutore. Quando invece si entra in contatto con una cultura diversa non è più così. Ciò che diamo per scontato potrebbe condurre ad un fraintendimento e quindi ostacolare la conversazione. Sin dall’infanzia, attraverso l’educazione familiare prima, e quella scolastica dopo, si innescano in noi dei meccanismi culturali che consideriamo “giusti”. Per ciò, nel confrontarsi con le altre culture, entrano in gioco i sentimenti come l’etnocentrismo, il pregiudizio e lo stereotipo.
L’etnocentrismo fa porre la nostra cultura al centro considerando le altre di minor valore; ma in caso di un dialogo interculturale questo è uno dei primi motivi di “scontro”.

È fondamentale mettere da parte le proprie credenze e lasciare spazio per accogliere quelle nuove, senza necessariamente accettarle. Il pregiudizio si basa su delle credenze che acquisiamo già da bambini, per cui tendiamo a valutare in modo negativo le persone che appartengono ad un determinato gruppo sociale. Lo stereotipo invece si fonda su delle credenze negative che si hanno verso un determinato popolo o una determinata cultura.

Questo brano è tratto dalla tesi:

La Comunicazione Interculturale: le difficoltà dell’interprete di trattativa tra prossemica e cinesica

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Informazioni tesi

  Autore: Federica Giacondino
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2016-17
  Università: Scuola Superiore per Mediatori Linguistici di Reggio Calabria
  Facoltà: Scuola sup. di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori
  Corso: Scienze della mediazione linguistica
  Relatore: Sara Di Marco
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 166

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