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Il registro notarile di Manfredo Bonacorso

Il Gaito

Per la conoscenza delle funzioni esercitate da questo magistrato e per la sua importanza nel sec XIV è particolarmente notevole il contributo fornitici dal Registro Bonacorso.
Qual fosse la derivazione araba di questo titolo e a quale altra antica carica musulmana corrispondesse non è facile dire, anche perché la graduale evoluzione del diritto musulmano, che in origine non comporta in Sicilia una netta divisione di poteri civili e militari, costituisce da sola una notevole difficoltà.
Diversi studiosi hanno pensato che il titolo di Gaito derivi da quello originario di qaîd che invece, come dice l’Amari, significa propriamente « condottiero » e risponde talvolta al grado di nobilità.
Il qaîd, com’è noto, al tempo della conquista, fu un capitano d’armi, un condottiere musulmano, con autorità militare minore dell’emir che è « comandante », e con poteri civili su un distretto o su una provincia.
Risiedeva spesso in una fortezza e quando cessavano le sue attività militari assumeva il titolo di « c-amil », divenendo ufficiale di governo con soli poteri civili. Le funzione del qaîd, in definitiva, corrisponderebbe a quella attuale di comandante o colonnello.

Nei secoli che seguirono, questo titolo militare e onorifico subì una evoluzione e, per quanto traslato in campo civile e nobiliare, non perdette mai completamente il suo valore originario. Se troviamo infatti, nel secolo XI° numerosi « qaîd » « citati e sottoscritti come testimoni in atti pubblici » o come pubblici ufficiali, oppure come camerari o familiari del re, sappiamo anche che sino alla prima metà del secolo XIII° il « qaîd » mantiene le attribuzioni sue proprie e tradizionali, organizzando e dirigendo la resistenza di ribelli musulmani. Il Genuardi però, rifacendosi alle notizie date dall’Amari e citando il Garufi e il La Lumia, erroneamente crede che già « « nella seconda metà del secolo XII tal titolo » si ridusse a nient’altro che a semplice titolo onorifico di arabi eminenti.
Tale assunto non può essere verosimile, non solo per « «  le consuetudini immobili (dei musulmani) e per i cenni (relativi ai qa^id) che veggiamo nelle memorie del tempo » » ma anche perché questo, come risulta dall’Amari e dagli studi recenti del Nallino e di altri, si mantiene sino al secolo XIV e non semplicemente come titolo onorifico ma come carica effettiva di condottiere.
Il Genuardi, inoltre, a pag. 84 e ss. Riferisce che il qaîd,nel 1239,era baiulo dei musulmani, mentre invece l’Amari, pur asserendo che il titolo di qaîd indicasse « nella prima mettà del secolo XIII » certamente « uffizio d’azienda » o, come detto in nota « amministratore diretto di beni demaniali nella città e territorio di Palermo », conclude che « i gaiti (cioé i qaîd) di quel tempo erano capi politici e militari.
Da quanto premesso noi riteniamo che il titolo di gaîto dato al giudice nel secolo XIV° debba derivare piuttosto da quello di « qâdî », che è dato sempre ai giudici musulmani, quantunque il Genuari, come già aveva fatto l’Amari, avverta che i gaiti « preposti alle università arabe avevano le funzioni più svariata, come traduttori, notai, preposti alla riscossione della milizia (e anche) giudici nelle liti civili ».

Il « qâdî », a differenza del « qa^id », fin dal secolo nono, è giudice per le cause civili e penali, pur essendo qualche volta nominato dall’Amari come condottiero . I qâdî – egli dice-- erano « ministri di stato, ordinari e permanenti », magistrati di grande importanza ed anche « assessori del santo uffizio e consiglieri di stato ». Venivano eletti dall’emiro della provincia « che veramente esrcitavano tutta l’autorità sovrana musulmana » e con lui i qâdî « formavano un tribunale straordinario per i reati criminali, amministrativi e civili.

Nelle grandi città (i qâdî) esrcitavano la tutela delle persone incapaci e le altre mansioni oggi attribuite al pubblico ministero. Giudicavano tutte le cause civili e criminali che richiedessero interpretazione di legge «  e quelle per le quali venivano espressamente autorizzati dall’emiro. Al qâdî inoltre si attribuiva un’ autorità giudiziaria che l’emiro stesso non aveva e, per quanto l’Amari indichi costantemente il giudice musulmano con la voce « qâdî » e la contrapponga al corrispondente magistrato cristiano avvertendo, onde evitare confusione di poteri, che : i qâdî, preposti all’esecuzione della legge, non devono essere considerati come « magistrati correzionali o uffiziali di polizia giudiziaria come oggi li chiameremmo » e « che i qaîd entravano nella faccende municipali come ogni notabile ma …….. non come ufficiali esecutivi, come sarebbero potestà, sindaci, giurati, giunte municipali » », pur tuttavia egli ci lascia alquanto dubbiosi per il raffronto di tutte le sue diverse asserzioni in proposito.
Ad eliminare ogni incertezza che potrebbe derivare dalla consultazione dell’Amari, e contrariamente a quanto ritenne il Genuardi e il Taina, concludiamo che i gaiti, indipendentemente dalle cariche di diversa natura che potevano avere, furono sempre dei giudici musulmani e il Loro titolo deriva da quello originario di qâdî , come pensano anche il Calligaris, il Dozy, e il Keiner.

D’altra parte, il gaito che è presente a Palermo nella prima metà del secolo XIV, per le sue prerogative di magistrato ben si ricollega all’originario qâdî delle popolazioni musulmane di Sicilia. Sembra anzi che le sue attribuzioni non siano molto diverse da quello del qâdî enunciate nelle pagine precedenti.
Egli, infatti, come risulta dal documento VII° del Registro Bonacorso, regola i rapporti giuridici tra le università dei cristiani ; tutela i diritti del fisco ed ha facoltà di imporre delle sanzioni penali contro tutti coloro che violano questi diritti. Egli ha anche la facoltà di imporre ai cittadini la vendita dei loro servi musulmani e ne stabilisce anche il prezzo di vendita quando questi cittadini sono comunque debitori verso la università palermitana.
Pensiamo che molto probabilmente in quel tempo il gaito tenesse udienza nel Palazzo Pretorio e che venisse eletto di anno in anno dalla università. Il titolo di « regius » poi ci fa supporre che la sua elezione, come quella del pretore, doveva essere condizionata all’approvazione regia.
Non sappiamo però se disponeva di funzionari subalterni indispensabili per l’esercizio delle sue funzioni giuridiche, e se uomini di legge lo assistessero nei giudizi, come si potrebbe argomentare dal contenuto e dalla sottoscrizione dei testi dell’atto stipulato alla sua presenza e nella sua « curia » (VII-50).
Per quanto la nostra supposizione non trovi esplicito riscontro nelle carte del Bonacorso, avanziamo l’ipotesi che gli atti della sua Curia molto probalbimente venivano conservati nello stesso ufficio che a pag. LXXXV abiamo chiamato Ufficio di Cancelleria della Corte Pretoriana.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il registro notarile di Manfredo Bonacorso

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Informazioni tesi

  Autore: Paolo Arena
  Tipo: Tesi di Laurea
  Anno: 1950-51
  Università: Università degli Studi di Palermo
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Lettere moderne
  Relatore: Antonino De Stefano
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 302

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