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La didattica antica della musica: una risorsa per la formazione musicale contemporanea

Johann Joachim Quantz e la didattica del buon gusto in musica

Il Saggio su di un metodo per suonare il flauto traverso di Johann Joachim Quantz rappresentò uno dei primi esempi di trattato completo per chi volesse apprendere uno strumento quale il flauto e fu scritto da Quantz con l’intento specifico di fornire indicazioni utili non solo al flautista in erba, bensì a qualsiasi strumentista che da esso può ancora oggi attingere preziose informazioni sulla prassi esecutiva coeva e sul modo corretto d’interpretare la partitura. Tali istruzioni ebbero lo scopo di convogliare la tecnica strumentale nella prassi esecutiva, diventando esse stesse parte integrante del percorso formativo dello strumentista.
Secondo Quantz la musica era una sorta di discorso all’interno del quale il musicista svolgeva la funzione di oratore che doveva saper emozionare il pubblico e trascinarlo nello stato emotivo descritto dal brano musicale. Per ottenere questo effetto l’esecuzione doveva essere intellegibile, quindi doveva presentare le note ben intonate e con la giusta durata, sempre però con una corretta articolazione che, come da prassi dell’ ‘ineguaglianza’, teneva conto della differenza tra nota in battere e nota in levare, dette anche nota ‘buona’ e nota ‘cattiva’, corrispondenti di solito rispettivamente all’arcata in giù e a quella in su negli strumenti ad arco, e
da eseguirsi leggermente più lunga ed accentata quella in battere e più corta quella in levare.

Generalmente le note per grado congiunto andavano legate, mentre quelle per salto separate, facendo attenzione a mettere in evidenza la nota più grave che costituiva la base armonica per quella più acuta.
Era inoltre essenziale che la frase musicale non fosse interrotta prima che fosse finita, quindi cantanti e strumentisti a fiato dovevano prestare particolare attenzione a dove prendevano fiato, allo stesso modo gli strumenti ad arco dovevano gestire le arcate in modo da ottenere un effetto simile. Per questo motivo il settimo capitolo del Saggio fu dedicato interamente all’esemplificazione di come e dove articolare la frase in caso di necessità, senza interrompere una frase in corso d’esecuzione o legarne due distinte.
L’esecuzione doveva sempre apparire fluente ed il più naturale possibile, quindi anche in presenza di difficoltà tecniche elevate, lo strumentista doveva comunque apparire il più tranquillo e naturale possibile.
Il cantante doveva «cercare di ottenere l’ardore di un buon strumentista [...] in ragione di ciò che la voce umana consente»; al contrario lo strumentista doveva eseguire le parti cantabili «proprio come lo [leggi le] esprimerebbe un cantante».

Inoltre l’esecuzione non doveva assolutamente mancare di varietà e di alternanza tra forti e piano, mantenendo un costante effetto di contrasto al fine di meglio riuscire a trasmettere l’affetto del brano eseguito.
Proprio l’affetto costituì la regola principale su cui si basava la corretta interpretazione del brano, ed in funzione di questo l’esecutore doveva comprendere quale esso fosse ed adeguarvisi ponendovi i giusti ornamenti che a loro volta andavano eseguiti in modo tale da enfatizzare lo spirito del brano. Tra questi vi sono ornamenti semplici quali le appoggiature ed i trilli, e quelli più complessi quali le diminuzioni.
Le appoggiature, e gli abbellimenti in generale, vennero definite da Quantz come «parte essenziale dell’esecuzione» senza le quali «una melodia può facilmente risultare scarna e piatta», ed ebbero la funzione di arricchire la struttura melodica di dissonanze senza le quali l’orecchio avrebbe potuto «facilmente venire affaticato».

Essendo il senso stesso della musica quello di «eccitare le passioni, per poi sopirle nuovamente», gli abbellimenti erano considerati parte essenziale di quell’equilibrio tra tensione e distensione che creava il piacere musicale e destava l’attenzione e la curiosità del pubblico. Tale alternanza era in buona parte di competenza dell’esecutore, che era tenuto ad inserire abbellimenti nelle parti in cui la partitura glielo consentisse. Tuttavia l’eccesso nell’uso di questi abbellimenti, da parte di alcuni cattivi esecutori, venne descritto da Quantz come fenomeno che opprimeva l’orecchio e contravveniva all’intenzione del compositore modificando l’affetto del brano. Da ciò scaturì la necessità di un’educazione al corretto uso di questi mezzi espressivi.

Le appoggiature potevano essere di due tipi, quelle accentate in battere e quelle di passaggio in levare. Le seconde in sostanza costituirono il ritmo puntato ‘alla francese’, mentre le prime ebbero la funzione di ritardare la consonanza creando una dissonanza con il basso. Esse acquisivano buona parte della durata della nota reale e dovevano essere eseguite in diminuendo, creando un accento sul battere in corrispondenza della dissonanza ed una risoluzione sfumata. In tal modo costituivano un’ottima soluzione alla risoluzione del problema citato dell’alternanza tra elementi di tensione e di distensione in musica.
I trilli, che potevano essere di moltissimi tipi, erano generalmente preceduti da un’appoggiatura e seguiti da una risoluzione ed avevano la funzione di fornire lustro e brillantezza all’esecuzione. A seconda del contesto dovevano essere eseguiti più lentamente o più velocemente. L’esecutore quindi doveva considerare, tra le altre cose, l’acustica del luogo in cui stava suonando onde evitare sovrapposizioni tra le note del trillo, nel caso di una sala con molto riverbero, oppure di eseguire un trillo troppo lento, quindi poco brillante, nel caso di una sala con poco riverbero. La velocità del trillo andava moderata anche a seconda del carattere o della velocità del brano, ma in ogni caso doveva essere eseguito con regolarità ritmica.

L’appoggiatura che precedeva il trillo andava eseguita con un’intensità sonora robusta, mentre il trillo andava eseguito con un’intensità più moderata. In altre parole, e come regola generale, le dissonanze costituivano l’elemento di tensione da evidenziare con una maggiore enfasi sonora, mentre le consonanze costituivano l’elemento di distensione ed andavano attenuate per enfatizzare il loro senso di riposo.
Nel capitolo tredicesimo intitolato Delle Variazioni Arbitrarie sugli Intervalli Semplici, Quantz trattò la diminuzione attraverso alcuni esempi strutturati su alcuni intervalli semplici e cercò di fornire le basi di composizione e contrappunto necessarie allo scopo. Essendo infatti la diminuzione un’improvvisazione estemporanea su una melodia, non poteva essere svolta in modo adeguato senza una minima conoscenza dell’armonia e specialmente del contrappunto. Per supplire a questa carenza di conoscenze di alcuni esecutori e del principiante, Quantz si propose di fornire al lettore alcuni esempi attraverso la cui pratica, supportata dall’esperienza, avrebbe consentito in seguito al musicista di apprendere le regole per una corretta pratica della variazione.

Le variazioni estemporanee dovevano essere costruite sulle note dell’accordo, non dovevano in alcun modo oscurare troppo le note principali su cui erano costruite e dovevano essere eseguite solamente dopo della melodia originale.
Anche in questo caso però Quantz mise in guardia il suo lettore da un abuso spropositato di questi abbellimenti che avrebbe compromesso il risultato e non sarebbe stato adeguato allo scopo della musica: trasmettere gli affetti.
Altra forma d’improvvisazione su cui Quantz si soffermò era la realizzazione delle cadenze, pratica che nacque nel concerto italiano e che venne presto imitata dai tedeschi.
La cadenza era quel’«abbellimento estemporaneo, eseguito dalla parte concertante secondo la volontà e la fantasia dell’esecutore, che si trova alla fine del brano, sulla penultima nota del basso, vale a dire sulla quinta [dominante] della sua tonalità d’impianto» e poteva essere realizzata da uno o due esecutori simultaneamente.

Scopo della cadenza era quello di «sorprendere una volta di più l’ascoltatore alla fine del pezzo, lasciando un’impressione particolare nella sua anima», quindi erano considerate un ornamento di pregio, ma solamente nel caso in cui fossero eseguite correttamente e con buon gusto, cosa che purtroppo non sempre avveniva.
Una buona cadenza doveva essere innanzitutto coerente con l’affetto del brano, non doveva essere troppo estesa e doveva apparire come un’invenzione estemporanea.
Un buon metodo per realizzare la cadenza era quello di riprendere o imitare brevemente le parti più interessanti della melodia del brano e su quelle basare la propria invenzione. In tal modo era possibile affermare nuovamente l’affetto del brano e supplire ad un’eventuale carenza di spirito inventivo.

Onde evitare che più cadenze all’interno della stessa esecuzione si somigliassero, era opportuno essere concisi nella scelta del materiale: una o due idee riprese da uno o più incisi potevano essere sufficienti alla realizzazione di una cadenza e potevano essere dilatati attraverso l’uso di progressioni melodiche e/o armoniche, variate con l’inserimento di abbellimenti e attraverso variazioni ritmiche. Lo stesso materiale poi, opportunamente epurato dai passaggi veloci e condensato alla sola struttura armonica, poteva essere riutilizzato per un movimento più lento.
Riguardo al tempo, invece, l’esecutore doveva sentirsi libero di modularlo in funzione dell’espressività e del suo gusto.
Accorgimenti principali nella realizzazione delle cadenze erano: risolvere correttamente gli intervalli, specialmente quelli dissonanti; evitare passaggi modulanti all’infuori della sottodominante e dominante che avrebbero potuto rendere prolissa la cadenza; evitare di ripetere troppo spesso le stesse idee senza variarle; mantenere l’affetto del brano e cercare di ideare una cadenza che potesse essere eseguita con un’unica presa di fiato16.
Le cadenze a due voci, per loro natura, erano meno arbitrarie di quelle ad una voce sola ed erano più delicate dal punto di vista armonico, richiedendo maggiore consapevolezza tra gli esecutori delle regole del contrappunto. Tuttavia, essendo più contrappuntistiche, potevano essere più lunghe risultando meno noiose all’ascolto. Esse potevano servirsi di ritardi su intervalli semplici, di imitazioni oppure addirittura di canoni tra le voci purché gli intervalli dissonanti fossero risolti correttamente.

Trattandosi comunque di cadenze, quindi di sezioni improvvisate, la prima voce doveva essere molto cauta nell’esprimere chiaramente le idee che la seconda voce avrebbe dovuto imitare, nell’aspettare che quest’ultima completasse l’imitazione e anche nella scelta di un registro che consentisse alla seconda voce l’estensione vocale o strumentale necessaria per realizzarla.
Un esempio particolare di abbellimento cadenzato era la fermata ad libitum, che si poteva trovare ad esempio in un Adagio da concerto ed era costituita da due note formanti un intervallo di quinta discendente sulla prima delle quali era posta una corona. La fermata era concepita perché l’esecutore potesse fare un abbellimento che doveva essere breve, di carattere incalzante attraverso figurazioni ritmiche sempre più brevi, e costruito sulle note dell’accordo. Per un buon risultato la nota sotto la corona poteva essere tenuta come ‘messa di voce’, cioè aumentando e diminuendo l’intensità del suono, facendo però attenzione a non esaurire il fiato disponibile prima della fine dell’abbellimento.
Affinché il principiante potesse raggiungere il livello tecnico necessario a mettere in pratica le disposizioni sin qui elencate, Quantz elencò una serie di istruzioni su come un principiante avrebbe dovuto comportarsi nel suo percorso formativo.

Prima di tutto Quantz sconsigliò al principiante di esibirsi in pubblico prima di aver acquisito la necessaria sicurezza tecnica «perché il risultato del timore nato dall’incertezza forma una quantità di cattive abitudini di cui egli avrà in seguito un gran penare nel disfarsi».
In secondo luogo Quantz si soffermò sulla scelta del materiale che più si adeguava alle esigenze del musicista in erba, sconsigliando la musica italiana, scritta senza l’aggiunta di abbellimenti che erano lasciati all’improvvisazione dell’esecutore, i brani solistici ed i brani che richiedevano ornamenti troppo complessi e quindi superiori alle competenze tecniche e contrappuntistiche del principiante. Analogamente consigliò al dilettante di diffidare dagli insegnanti che si proponevano di insegnargli questo tipo di brani anzitempo e di dedicarsi, parallelamente allo studio strumentale, all’apprendimento quantomeno del basso continuo, se non della composizione, e del canto che «gli procurerà grandi vantaggi nel corretto abbellimento di un Adagio» e gli avrebbe consentito di prepararsi «il cammino per divenire un vero musicista».
Al contrario erano appropriate le composizioni in stile francese, scritte con tutti gli abbellimenti, che poco si prestavano all’aggiunta di ulteriori improvvisazioni e che non richiedevano particolari competenze in materia di armonia e contrappunto.

Erano inoltre ottime per la formazione dell’esecutore le composizioni quali «duetti e trii in buon stile contrappuntistico, composti da maestri di solido mestiere e contenenti delle fughe», le quali dovevano essere studiate «per un considerevole periodo di tempo» e attraverso le quali l’esecutore «trarrà un gran vantaggio in relazione alla sua capacità di leggere le note e le pause, così come a quella di tenere il tempo». Era auspicabile far eseguire al principiante tutte le parti del duetto o del trio, non solo la prima; in tal modo egli avrebbe potuto apprendere «l’espressione del suo maestro grazie alle imitazioni con la prima parte» e a non abusare della memorizzazione. Era inoltre essenziale che prestasse molta attenzione alle altre parti ed in particolar modo a quella del basso, in questo modo avrebbe acquisito «più facilmente il senso armonico, il senso ritmico e la purezza dell’intonazione».
L’esecuzione delle parti di ripieno dei concerti era prerequisito essenziale allo studio delle parti solistiche. Infatti, oltre a costituire occasione di lettura a prima vista per un flautista, costituivano la base essenziale su cui si sviluppava la parte solistica senza la quale non poteva aver luogo una buona esecuzione del concerto. Inoltre contenevano molti incisi e parti caratteristiche della parte solistica in forma più semplice, costituendo una sorta di studio preparatorio per quest’ultima.

Solamente dopo questo primo approccio con l’esecuzione era opportuno iniziare ad affrontare qualche semplice brano solistico e qualche concerto in stile italiano, avendo cura che l’Adagio non fosse da eseguirsi troppo lento e che gli Allegro fossero costituiti da passaggi tecnici semplici e di breve durata. Su questo materiale l’alunno poteva iniziare qualche tentativo di abbellimento del canto dell’Adagio con gli abbellimenti più semplici, e solamente qualora avesse raggiunto sufficiente sicurezza con questi sarebbe potuto passare ad abbellimenti più complessi.
Era comunque della massima importanza che l’alunno eseguisse tutto ciò che studiava con la massima distinzione e regolarità, facendo bene attenzione a non sbagliare la durata, l’articolazione delle note e la buona espressione da associare alle varie situazioni musicali, qualunque fosse il grado di difficoltà tecnica del passaggio da eseguire. Senza questi accorgimenti, per quanto l’esecuzione sarebbe potuta apparire d’effetto, l’esecutore non avrebbe ottenuto l’approvazione degli intenditori.

Questo brano è tratto dalla tesi:

La didattica antica della musica: una risorsa per la formazione musicale contemporanea

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Informazioni tesi

  Autore: Gianluca Dai Prà
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2009-10
  Università: Conservatorio di Musica
  Facoltà: Discipline musicali
  Corso: Didattica musicale
  Relatore: Stefano Lorenzetti
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 177

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