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Migrazioni in immagini. La dimensione visuale nella rappresentazione mediale del fenomeno migratorio.

L'immigrazione nel cinema italiano. Temi ricorrenti e archetipi emergenti

Dopo aver esposto i principali strumenti della sociologia visuale utilizzati per analizzare processi culturali e mediali, passiamo ora ad uno studio del cinema, in particolare del caso italiano, come strumento etnografico e più in particolare di rappresentazione del fenomeno migratorio.

La nascita del cinema etnografico, dunque incentrato sulla ricerca sociale, si può far risalire al primo lavoro sul campo di Cort Haddon nel 1898; lo studioso intraprende un viaggio nello stretto di Torres, in Sud America, e filma la vita quotidiana delle popolazioni del posto con lo scopo primario di conservare il patrimonio culturale di queste persone, ormai in via d'estinzione.

Tuttavia fino alla fine del primo ventennio del XX secolo il cinema etnografico non riuscì ad attirare consenso, poiché la maggior parte degli etnoantropologi non era interessata tanto ad immortalare aspetti materiali delle culture, quanto piuttosto a cercare di cogliere elementi più astratti dello spirito dell'uomo, elementi che difficilmente possono essere catturati con una cinepresa; in secondo luogo il mondo accademico non nutriva troppa fiducia nei confronti del cinema, visto soprattutto come uno strumento di propaganda politica nelle mani dei potenti. D'altronde a partire dal 1912 si cominciano a produrre i primi filmati "coloniali", con l'esplicito scopo di ribadire la superiorità dell'uomo occidentale nei confronti degli uomini colonizzati.

Nello stesso periodo nasce anche un nuovo modo di fare cinema, il documentario. Questa forma di rappresentazione, pur non equiparabile agli altri tipi di cinema per successo riscosso, raggiunge nel periodo tra le due guerre un'importanza rilevante per via della sua capacità di trasmettere verso un vasto pubblico immagini di interesse sociale, andando ad influire nell'immaginario collettivo di una società. Ovviamente chi produceva, e produce tutt'ora, questo tipo di prodotto culturale deve tenere conto anche del mercato in cui si va ad immettere, oltre quindi all'affidabilità scientifica della creazione; dunque è proprio da questa doppia costatazione che nasce il "cinema ibrido", un mix tra interpretazione sociale ed esposizione espressiva.

Fatte queste premesse storiche passiamo ad analizzare il contributo del cinema italiano al tema delle migrazioni nel nostro Paese; un'analisi di questo tipo appare obbligatoria dal momento che la rappresentazione cinematografica, e più in generale mediale, dei migranti, consiste in una funzione politicamente strategica, dunque con forti ripercussioni nella società; in secondo luogo il cinema come mezzo di comunicazione riesce a far trasparire connotazioni del sentire comune che spesso non riescono ad emergere mediante altri mezzi.

Un tema che nelle rappresentazioni cinematografiche riguardanti le migrazioni è sempre presente, se pur qualche volta in forma implicita, è il viaggio.

Il cinema italiano comincia ad interessarsi alla questione delle migrazioni verso gli anni Novanta, non limitandosi più all'emigrazione italiana ma anche al fenomeno dell'immigrazione in Italia; tra i primi film possiamo dunque citare Pummarò (di Michele Placido), Un'altra vita (di Carlo Mazzacurati), e Lamerica (di Gianni Amelio); in tutti e tre i film il tema del viaggio è sempre presente e ci si può intravedere anche l'emersione di determinati archetipi che ricorrono spesso. Il primo di questi archetipi è la multidimensionalità del viaggio, che con i suoi confini è rappresentato inizialmente come specificatamente spaziale; in un secondo momento appare l'altra dimensione del viaggio, quella esistenziale e sentimentale, legata più alla sfera emotiva e valoriale dei
soggetti rappresentati.

È bene segnalare che nella maggior parte dei film viene presa in considerazione solo l'ultima fase del viaggio dei migranti, ossia l'arrivo; tuttavia nella realtà delle cose un luogo di transito, come può essere proprio il mare, è appunto un luogo di transito, e non solo di arrivo, e perciò percorsi come quello delle rotte nel Mediterraneo, così vitali nella biografia di un migrante, non fanno quasi mai parte del contesto d'azione in cui si svolge il film.

Il secondo archetipo che possiamo incontrare nel cinema che tratta di migrazioni è quello del deserto, che condivide con il mare la stessa pericolosità e la stessa lunghezza del viaggio; dunque rappresentare l'itinerario nel deserto equivale nell'intraprendere un percorso a ritroso verso i paesi di origine degli immigrati, proprio come avviene nel film del 2006 A sud di Lampedusa (di Andrea Segre).

Il terzo archetipo che emerge dalla dimensione del viaggio è l'incontro tra comunità di viaggiatori, che spesso dà vita a storie sentimentali e di amicizia tra i protagonisti; in queste sequenze emerge solitamente la figura di un leader che ha il ruolo di soggetto "guida" delle comunità, che può dunque presentarsi come un trafficante di uomini o una persona solidale.

Un ulteriore elemento che molto spesso si presenta ai nostri occhi quando guardiamo al rapporto tra cinema e migrazioni è quel fenomeno che chiamiamo stereotipizzazione; possiamo brevemente spiegare lo stereotipo come un meccanismo messo in atto da chi è immerso in una situazione troppo complessa, e che ha bisogno quindi di semplificazioni per riuscire ad interpretare la realtà in cui si trova. Gli stereotipi possono essere positivi o, nella maggior parte dei casi, negativi; possiamo di nuovo citare al riguardo il film di Michele Placido Pummarò, nel quale come poche volte accade nel cinema italiano viene restituito al pubblico uno stereotipo dell'immigrato positivo, non esageratamente buonista, ma capace di rappresentare fedelmente la realtà; si tratta in questo caso di un giovane ghanese laureato che arrivato in Italia sarà costretto, nonostante il suo titolo di studio, a raccogliere pomodori e ad avere rapporti con la criminalità organizzata per procurarsi il permesso di soggiorno.

Questo bisogno di stereotipare negativamente la figura del migrante è figlio della tendenza a rappresentare il fenomeno migratorio nella cultura italiana solamente attraverso la lente della cronaca nera, piuttosto che mediante altri generi cinematografici o televisivi quali ad esempio la commedia. A rafforzare lo stereotipo negativo c'è anche l'abitudine a far interpretare il ruolo di immigrato non ad un attore professionista ma ad "aspiranti" attori presi dalla strada. [...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

Migrazioni in immagini. La dimensione visuale nella rappresentazione mediale del fenomeno migratorio.

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Informazioni tesi

  Autore: Paolo Evangelistella
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2016-17
  Università: Università degli Studi di Roma La Sapienza
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Scienze della comunicazione
  Relatore: Marco Bruno
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 68

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