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Gli strumenti giuridici per l'individuazione e il superamento della crisi d'impresa. Un'analisi storico - empirica della regione Campania.

La Campania nel nuovo contesto di unità nazionale e la ''questione meridionale''

La condizione economica e sociale del Mezzogiorno subisce un processo di generale impoverimento, in concomitanza al processo di unificazione nazionale che si sviluppava in un contesto europeo in cui si stavano verificando straordinari mutamenti nell’organizzazione del lavoro e nelle tecniche di produzione.
Lo stato finanziario della Campania, che al 1861 la ponevano tra le prime economie d’Italia, subirà un repentino decadimento che avrà conseguenze su tutti gli ambiti sociali. La rottura degli equilibri socioeconomici faranno scaturire sanguinosi fenomeni rivoluzionari che avranno grande ridondanza sul piano politico. L’oggettività dei dati economici relativi alla condizione di sviluppo regionale dimostra che nell’anno dell’unificazione del Regno, in Campania si registrava la più alta produzione industriale d’Italia nei comparti estrattivo-manifatturieri, con il 36% dell’intero prodotto industriale italiano. Tale condizione verrà seriamente compromessa dagli eventi sociopolitici post-unitari, in particolare, saranno le future decisioni politiche riguardanti l’assegnazione delle commesse statali a modificare permanentemente la geografia industriale del paese, originando quella condizione di ritardo che in seguito sarà definita “Questione Meridionale” o “Questione del Mezzogiorno”.
Queste espressioni indicano l’insieme delle problematiche scaturite dall’esistenza all’interno dello Stato italiano di una vasta area, corrispondente grosso modo, alle regioni dell’ex Regno delle Due Sicilie.
Nel meridione d’Italia, numerosi sono stati i fattori avversi che sgretolano d’un colpo l’equilibrio economico preunitario, un equilibrio che, come detto in precedenza, mostrava da tempo evidenti segnali di una fragilità scaturita dal difficile adattamento al nuovo modello industriale globalizzato. Il buon esito del processo di unificazione nazionale prevedeva, oltre alla riorganizzazione dell’apparato amministrativo, politico e giurisdizionale, anche una comunanza linguistica e soprattutto, necessitava di una moneta comune su tutto il territorio. Mentre per il processo di unificazione linguistica, era necessaria un’evoluzione che avrebbe richiesto diversi anni, il processo di unificazione monetario che, per la sua realizzazione, richiedeva semplicemente una scelta di politica economica, si concluse già nel 1862, con l’adozione della lira sabauda, o “piemontese”, come moneta nazionale. L’unificazione monetaria ebbe effetti importanti nelle diverse aree del paese, generando inevitabilmente delle asimmetrie economiche che negli anni si sono accentuate sempre più, acutizzando quel divario profondo tra Nord e Sud nettamente in contrapposizione allo spirito nazionalista che avrebbe dovuto ispirare l’Unità d’Italia. Il Paese è separato di fatto in due blocchi economici e soprattutto ideologici, instaurando tra essi un tedioso processo di conflittualità i cui effetti sono tuttora astanti.

L’unificazione del meridione non aveva portato alla auspicata pacificazione del territorio, anzi, aveva innescato una lunga e sanguinosa occupazione militare volta a sedare qualsiasi azione sovversiva scaturita dall’imposizione di norme e leggi piemontesi. Tutti gli ambiti del vivere sociale vennero adeguati a quelli del Piemonte Sabaudo, in particolare: il sistema fiscale, la legislazione penale e civile, il liberismo commerciale.
La fame, la povertà e l’oppressione fiscale alimentavano un profondo rancore verso il nuovo regime e verso quegli strati sociali formatesi nel nuovo assetto istituzionale, interessati più ai favori e alle cariche che a trovare soluzioni alla precarietà e ai disagi del “basso popolo”, incapace dalla sua, di adeguarsi in modo positivo e collaborativo agli avvenimenti politici miranti alla formazione di un tessuto produttivo che avesse un carattere nazionale e non più regionale. La condizione di indigenza popolare amplificava il risentimento verso le nuove istituzioni rendendo il territorio campano una fucina di movimenti eversivi, i quali assunsero ben presto le dimensioni di una vera e propria guerriglia civile. Il “brigantaggio” è il fenomeno più rappresentativo di quel disagio sociale, posto in netta contrapposizione al nuovo potere statale, a cui aderirono non solo braccianti disperati e banditi comuni, ma anche ex soldati borbonici e garibaldini, tutti accomunati da un malessere generale di stampo eversivo che trovava espressione in azioni illegali e delittuose. Tali condotte sociali deplorevoli si intrecceranno, e per alcuni versi si fonderanno, ai fatti di un’associazione già esistente sul territorio di cui facevano parte “uomini del popolo, corrotti e violenti, che ponevano a contributo coll’intimidazione i viziosi e i vigliacchi”: la camorra.

Il modello sub-culturale camorristico, basato su soprusi e violenze di ogni genere, trae la propria linfa vitale da alcune peculiarità proprie del periodo, tra queste, l’assenza di istruzione (all’epoca preclusa alla gran parte della popolazione), e senz’altro, la condizione di povertà latente, per cui, il reclutamento degli affiliati, avveniva in un contesto di accettazione e “rassegnazione” generale.
Tuttavia, la camorra oltre a rappresentare un potere contrapposto e parallelo a quello statuale, costituisce una delle poche forme di sostegno per gli strati più disperati della popolazione supplendo alla mancanza di qualsiasi forma di assistenzialismo pubblico. La “riconoscenza” dovuta alla “onorata società” faceva cadere i malcapitati in una situazione di dipendenza e sottomissione dalla quale era quasi impossibile uscire. Intanto, questo efferato e ben organizzato sistema di sopraffazione si radicava a fondo nel tessuto sociale, economico e istituzionale campano, in tutti gli ambiti del vivere sociale e a tutti i livelli, legali ed illegali, diventando nel tempo sempre più spietato e difficile da sradicare. L’ombra della camorra sul territorio campano ha debilitato fin dall’origine lo sviluppo economico di tutti i settori produttivi e commerciali, impedendo l’afflusso di capitali dalle aree più ricche e rendendo inadatto agli investimenti un ambiente che altrimenti, sarebbe stato tra i più fertili per la formazione di un solido apparato imprenditoriale. Una grossa fetta di popolazione troverà nell’emigrazione la soluzione migliore per scampare alla miseria, alla coercizione e alla prevaricazione sociale. L’accostamento del brigantaggio alla camorra (sebbene a livello storico non è comprovato alcun collegamento tra i due fenomeni), nasce dalla consapevolezza che i sentimenti di intimidazione, sopraffazione e paura, utilizzata dai violenti per imporsi su di una società inerme, alla quale venivano reclamati i diritti del “più forte”, rappresentano per entrambe le forme di organizzazione i tratti caratteristici, in cui l’unica differenza è riscontrabile nei rispettivi raggi d’azione: nelle campagne per il brigantaggio, nelle aree urbane per la camorra.
La stabilità e l’equilibrio nella regione campana richiedevano una svolta nel processo di unificazione nazionale da realizzarsi attraverso la risoluzione dei problemi di carattere istituzionale ed amministrativo richiesti dal nuovo modello di governo, nonché il risanamento finanziario, la necessità di modernizzazione e industrializzazione, il recupero delle terre irridente, la questione romana e cattolica, l’esigenza di incrementare la partecipazione popolare alla vita politica. Quando si cercano spiegazioni alla difficile situazione socioeconomica del meridione post-unitario, contrastanti e critiche verso l’universo delle politiche economiche dei governi che avrebbero favorito una parte del paese a discapito dell’altra. Siamo di fronte ad una eterna querelle tra Nord e Sud che rischia di spostare l’attenzione su un dualismo marcatamente separatista, in contrapposizione ai principi e allo spirito dell’unità nazionale, a svantaggio dell’intero paese.
Furono proprio i sentimenti di rivendicazione di una terra sottratta prima dai francesi e poi dai piemontesi, ad ispirare le azioni violente dei cosiddetti “briganti” che, tra il 1861 e il 1865 causarono una grave instabilità sociopolitica interna con conseguente percezione dell’incapacità di protezione da parte del nuovo Stato italiano. È in questo scenario di eversione incontrollata che il governo Minghetti decise di sedare ogni atto di ribellione contro lo Stato, inviando corpi di spedizione militare comandati dai generali Cialdini e La Marmora. Questi, in applicazione della legge 15 agosto 1863, n. 1409 (nota anche come legge Pica, dal nome del suo promotore Giuseppe Pica), contrastarono efficacemente i gruppi di facinorosi che venivano assicurati alla giustizia dei tribunali militari, con l’accusa di “brigantaggio” e, per gli affiliati alla temibile organizzazione criminale campana, del reato di “camorrismo”. Eppure, nonostante la forza di contrasto al crimine dilagante, la storia delle rivoluzioni, controrivoluzioni e guerre civili cominciata nel 1799 e, indissolubilmente intrecciata con il processo dello Stato nazione, privilegia l’azione e alimenta il fenomeno del brigantaggio (in concomitanza a quello camorristico) che trova terreno fertile per espandersi e ramificarsi nel tessuto sociale, culturale, politico ed economico. Le forze politiche avrebbero adottato misure diverse e a tratti contrapposte per reprimere il brigantaggio e riportare pace e sicurezza in una popolazione oramai succube di abusi e reati di ogni genere: la Destra storica decise per una politica di conciliazione nei confronti degli elementi borbonici della società provinciale, mentre le forze moderate concentrarono la loro azione unicamente cercando di inibire, centralizzare e monopolizzare il potere, mancando però di adoperarsi per il risanamento di un’economia già stremata e che anzi, veniva ulteriormente appesantita dai carichi tributari.
L’insieme dei problemi e dei processi di disgregazione economica, sociale e politica che attanagliano il territorio in questo particolare momento storico post-unitario sarà identificato come “questione meridionale”.
Nei venti anni che seguirono l’Unità, scriveva un importante studioso dei fenomeni meridionali, Francesco Saverio Nitti, nella sua opera “La finanza italiana e l’Italia meridionale”: “Le più grandi fortune furono fatte quasi esclusivamente dagli imprenditori di opere di Stato: fra essi non vi erano quasi meridionali, come un documento parlamentare, presentato dall’onorevole Saracco, dimostra a evidenza. La situazione della Valle Padana ha reso più facile la formazione delle industrie, cui la politica finanziaria dello Stato, in una prima fase, e in una seconda le tariffe doganali, hanno preparato l’ambiente; di questi tutte le industrie di cui lo Stato italiano negli ultimi trent’anni ha voluto assumere la protezione, nessuna quasi è meridionale: dalla siderurgia allo zucchero, dalle industrie navali alle industrie tessili, ecc., tutto è nelle mani degli stessi gruppi capitalistici”. 

Il pensiero di Nitti, riconosce esplicitamente la legittimità e la specificità della questione meridionale, riconoscendo attraverso dati inconfutabili l’origine post-unitaria del progressivo divario economico tra Nord e Sud, senza però negare la compresenza di numerosi fattori avversi insiti del tessuto sociale, economico e culturale delle regioni del Sud, in particolare della Campania.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Gli strumenti giuridici per l'individuazione e il superamento della crisi d'impresa. Un'analisi storico - empirica della regione Campania.

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Informazioni tesi

  Autore: Pasquale Lambiase
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2019-20
  Università: Università Telematica Pegaso
  Facoltà: Scienze Economiche e Aziendali
  Corso: Scienze dell'economia
  Relatore: Maurizio Corciulo
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 138

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