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La dimensione spaziale della paura e la pianificazione urbana attraverso una prospettiva di genere

La paura nell’ambiente urbano

Nonostante parte della violenza patriarcale avvenga dentro le mura di casa, gli spazi e i luoghi che vengono sempre associati all’insicurezza sono quelli pubblici (Pain, 1994). Questo può essere visto anche come il risultato della costruzione sociale della paura da parte di genitori, media e discorsi pubblici per la prevenzione del crimine che riproducono l'immaginario dello spazio pubblico come pericoloso e dello spazio privato come sicuro (Koskela, 1997).
Come si faceva notare nel paragrafo precedente, in risposta alla percezione di insicurezza e di paura, le donne tendono a ricorrere a delle strategie di comportamento in base all’ambiente sociale e fisico circostante (Valentine, 1989b). Le persone, quando si muovono e utilizzano gli spazi, effettuano continuamente valutazioni riguardanti le condizioni fisiche e sociali. Pertanto, anche sulla base del contesto sociale, elementi visivi dell’ambiente (come edifici, strade, parchi…) diventano segni che trasmettono determinati significati alle persone (Ratnayake, 2013). Per mantenere un’illusione di controllo sulla propria sicurezza, le donne, per potersi muovere, devono sapere dove e quando possono incontrare presenze “minacciose” per poterle evitare. Per questo motivo, sviluppano immagini mentali dei luoghi “pericolosi”, formulate dall’interazione e dall’effetto cumulativo di fonti di informazione di prima e seconda mano di episodi di violenza (Valentine, 1990). Da ciò, le donne trasferiscono la propria valutazione della minaccia dagli uomini ai contesti ambientali pericolosi. La costruzione dei significati e l’evitamento di questi contesti da parte delle donne creano norme sociali sull’uso “appropriato” dello spazio, rafforzando il senso di insicurezza e influenzando aspetti legati alle modalità di presenza e di mobilità negli spazi (ibidem).
Una parte della letteratura del fear of crime tende a ignorare o a ridurre il ruolo degli spazi nella costruzione della paura, stabilendo una distinzione polarizzata tra l'ambiente fisico e i processi sociali (Whitzman, 2007). Tuttavia, sebbene le interconnessioni tra criminalità, violenza e lo spazio urbano siano complesse, la conformazione dell’ambiente può influire sulle interazioni tra le persone e lo spazio. Partendo dall’assunto che lo spazio è sia il mezzo che il risultato di pratiche sociali (Massey, 1994), Carina Listerborn (2002) sottolinea che se si analizzano l’ambiente fisico e quello sociale come entità distinte che non comunicano tra di loro, il rischio che si corre è di lasciare «the ‘geography’ out of ‘the geography of fear’» (p. 40).

Listerborn nella sua argomentazione trova sostegno a partire dal concetto lefebvriano di “spazio sociale” per sottolineare che lo spazio:
1. È la somma delle pratiche quotidiane che si svolgono al suo interno, che comprende come le persone usano e non usano lo spazio;
2. Può essere rappresentato in vari modi, dai media, dai politici, dalla polizia, per esempio, come “sicuro” o “non sicuro”;
3. È continuamente creato e ricreato, sia da professionisti/e, come architetti/e e urbanisti/e, sia da non professionisti/e.

In generale, è presente una forte relazione tra le immagini di ambienti temuti dalle donne e la loro percezione del controllo dello spazio (Pain, 1994). Nello specifico, queste immagini di pericolo in spazi e luoghi sono associate al comportamento incontrollato delle altre persone - soprattutto uomini - con cui si condividono quegli spazi. Diverse donne, infatti, tendono a provare sentimenti di timore e di ansia rispetto all’eventualità di essere aggredite da uomini negli spazi pubblici. Questa percezione di paura è generalmente associata a spazi che presentano caratteristiche fisiche di oscurità e di chiusura. In particolare, le donne identificano come pericolosi: spazi scarsamente illuminati; spazi sconosciuti e deserti, come parchi pubblici vuoti, foreste, aree ricreative e fermate del trasporto pubblico desolate; parchi in cui la vegetazione alta, densa e non curata ostruisce la vista; spazi chiusi con limitate possibilità di uscita, come strutture di parcheggio a più piani, passaggi sotterranei e stazioni della metropolitana (Valentine, 1990; Pain, 1994; Navarrete-Hernandez et al., 2021).
Ulteriori spazi che comunicano sentimenti di paura sono quelli che risultano non conformi alle esigenze di determinate identità. Tra questi rientrano, ad esempio, i bagni, o altri spazi pubblici, divisi dicotomicamente per genere, in cui spesso donne dall'aspetto “maschile” sperimentano spesso molestie e difficoltà (Doan, 2010). In questi luoghi, gli individui e il loro genere vengono messi in discussione o vengono etichettati come una presenza minacciosa (Browne, 2004). Anche per persone con disabilità gli spazi che presentano un accesso o un utilizzo caratterizzato da limitazioni fisiche possono rappresentare una fonte di paura e preoccupazione e un’estensione della discriminazione e delle molestie che possono subire utilizzando gli spazi urbani nella vita quotidiana (Pain, 1997).
In un’ottica intersezionale (Crenshaw, 1991), la percezione della paura di subire molestie può essere aggravata dalla paura di attacchi legati all’etnia, alla religione o ad altre sfere relative alla vittima. In uno studio condotto nel nord dell’Inghilterra da Green e Singleton (2006), si nota che le giovani intervistate provenienti dall’Asia meridionale, sebbene condividessero percezioni del rischio di subire attacchi molto simili a quelle delle giovani bianche di nazionalità inglese, presentavano maggiori preoccupazioni relativi agli spostamenti per raggiungere e ritornare dai luoghi di ritrovo. Ciò portava a un mancato utilizzo dello spazio pubblico nel tempo libero, preferendo la casa o i luoghi chiusi in quanto ritenuti maggiormente sicuri. Nel caso specifico di queste donne, il rimanere a casa veniva incoraggiato anche dai genitori e dalla famiglia non solo per motivi di sicurezza, ma anche perché, per aspetti culturali, si richiedeva che proteggessero il proprio “onore” e la propria “modestia” partecipando ad attività per sole donne e rimanendo in casa dopo il tramonto; trascorrere il tempo libero fuori, in particolare di sera, era considerato inappropriato. Le volte in cui uscivano di casa, anche come modo per resistere alle regole parentali e sociali imposte, preferivano usufruire del servizio dei taxi per accedere ai luoghi di svago, sebbene per molte rimanesse la paura di subire molestie anche dagli autisti.
Il caso riportato da Green e Singleton (ibidem) mette in luce un punto molto importante rispetto alla questione della mobilità. Le fermate dei mezzi pubblici sono identificate come elementi critici di una rete di trasporto perché sono dei punti in cui chi aspetta alla fermata si interfaccia con l’ambiente circostante, che comprende sia altri pedoni che persone all’interno dei loro veicoli19. Il sentimento di paura associato agli spostamenti accomuna molte donne, come testimonia molta della letteratura che si occupa delle condizioni negli ambienti legati al trasporto pubblico, come fermate scarsamente illuminate, ubicate in zone poco curate e desolate (Koskela e Pain 2000; Loukaitou-Sideris 2014). In contesti con questo tipo di caratteristiche tende ad aumentare la percezione di paura di subire episodi di molestie, sebbene la percentuale e la classificazione dei tipi di molestie sessuali subiti, sia nelle fermate che sui trasporti pubblici, sia complicata dal fatto che molti studi non definiscono in maniera chiara le molestie (Gardner et al., 2017).
Bisogna segnalare anche che non tutti i luoghi pubblici sono sempre percepiti dalle donne come minacciosi, in parte perché la percezione della pericolosità non vale per tutte allo stesso modo, ma anche perché il comportamento di coloro che occupano lo spazio potrebbe essere regolato da un controllo formale o informale, riducendo così la possibilità di attacco (Pain, 1994). In merito a soluzioni supportate dall’utilizzo di sorveglianza tecnologica, Koskela (2002) nota una diffusione nelle città europee20 tra gli anni Novanta e gli anni Duemila di sistemi di televisione a circuito chiuso (TVCC), installati anche da governi che li hanno giustificati come strumenti per combattere la criminalità e l’insicurezza urbana, divenendo così al centro del design urbano contemporaneo. L’utilizzo di videocamere ha, però implicazioni a livello di genere perché oltre ad avere un effetto limitato sulla prevenzione di eventi violenti, questa rimane insensibile all’interpretazione di determinati contesti sociali. Se da una parte, questi strumenti riescono a catturare in video reati chiaramente visibili, dall’altra parte, ignorano situazioni come le molestie sessuali verbali. Diverse donne tendono, inoltre, a non fidarsi di chi sta dietro la telecamera a causa della riproduzione del potere patriarcale da parte di chi è responsabile della routine quotidiana della sorveglianza (ibidem).
L’aumento della sorveglianza, attraverso l’utilizzo di TVCC e la presenza di forze dell’ordine, spesso viene associata al concetto di “eyes on the street” di Jane Jacobs (1961), secondo cui una maggiore presenza di persone, che fungono da “occhi sulla strada”, permetterebbe un miglioramento della percezione di sicurezza degli spazi pubblici. Divenuta influente negli studi del ruolo sociale degli spazi (tra cui Newman, 1972), la teoria di Jacobs faceva riferimento a un controllo di tipo informale da parte della comunità e non alla sorveglianza statale. Alcune studiose, come Whitzman (2007) e Kern (2019), notano che l’abuso del concetto degli occhi sulla strada abbia portato a forme coercitive di sorveglianza, attraverso il sostegno di politiche “tolleranza zero” o altre politiche il cui scopo è la promozione del decoro, rendendo impossibile il raggiungimento della sicurezza intesa originariamente da Jacobs. La teoria, in questa maniera, risulta cieca alle questioni di genere in quanto non solo la sicurezza passa in secondo piano, ma anche perché non viene posta attenzione a che tipo di “occhi” dovrebbero sorvegliare le strade. Ciò rende ancora più evidente la necessità di applicare uno sguardo femminista verso il tipo di soluzioni che fanno parte del paesaggio urbano e che hanno un impatto sulla presenza e la mobilità delle donne e il loro diritto alla città.




[19] http://www.istiee.unict.it/sites/default/files/files/ET_2023_92_9.pdf (ultimo accesso: 13/05/2023).
[20] Quando Koskela (2002) ha condotto lo studio, i paesi europei che contavano la maggiore
presenza di telecamere erano il Regno Unito e la Finlandia, caratterizzati da una regolamentazione molto limitata e uno scarso controllo da parte delle autorità su come e dove veniva esercitata tale sorveglianza. Inoltre, la geografa notava che in Finlandia spesso di facesse affidamento sull’assunzione delle guardie addette a controllare la videosorveglianza in paesi, come l’Estonia, in cui il costo del lavoro è molto più basso, rendendo più complicato chiedere aiuto attraverso le agenzie quando necessario. Al momento, non risultano studi più recenti sulla diffusione e l’utilizzo dei sistemi di videosorveglianza.

Questo brano è tratto dalla tesi:

La dimensione spaziale della paura e la pianificazione urbana attraverso una prospettiva di genere

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Informazioni tesi

  Autore: Deborah Dettori
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2022-23
  Università: Università degli Studi di Torino
  Facoltà: Scienze Internazionali
  Corso: Relazioni internazionali
  Relatore: Alessia Toldo
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 115

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