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Da ''I benandanti'' a ''Storia notturna'': Carlo Ginzburg e gli strati sommersi della storia

La ricezione de ''I benandanti''

Nella prefazione all’edizione inglese de I benandanti del 1983, nota con il titolo di The Night battles, Ginzburg ci offre un piccolo sunto della reazione della comunità degli storici a quest’opera rivoluzionaria. E.W. Monter, uno dei pochi studiosi di formazione anglosassone a comprendere l’italiano, contribuisce con alcuni suoi interventi tra il 1969 e il 1972 a diffondere l’interesse per questa monografia che apre la via a un campo di studi, quello sulle radici popolari della stregoneria, rimasto fino ad allora in secondo piano.
Nella sua prima recensione Monter afferma che la documentazione fornita da Ginzburg sulle battaglie agrarie estatiche fornisce un importante e inaspettato sostegno alla datata (e screditata) tesi di M. Murray che ipotizzava un antico culto pagano della fertilità come nucleo fondante della moderna stregoneria.
Successivamente lo storico americano si corregge parzialmente sostenendo che I benandanti dimostrano solo una parte delle teorie di Murray: è Ginzburg stesso a chiarire questo punto sia in questa sede che nella prefazione a Storia notturna. La studiosa britannica asseriva che:
a. la stregoneria aveva le proprie radici in un antico culto della fertilità;
b. i sabba descritti nei processi erano eventi reali.

Ginzburg sostiene che il contributo de I benandanti si limita a confermare il primo assunto mentre, per quanto riguarda la realtà dei sabba, egli ritiene che la Murray confonda miti e riti, arrivando persino a manipolazioni testuali nell’intento di dimostrare la propria tesi.
Secondo lo storico torinese, la conoscenza di seconda mano del suo saggio ha messo fuori strada alcuni recensori che da un lato lo hanno interpretato come la dimostrazione più evidente dell’esistenza della stregoneria (J.B. Russell), oppure come l’unica prova documentata della sussistenza di un vero e proprio culto stregonesco (H.C. Erik Midelfort); dall’altro ne hanno sottolineato l’inconsistenza in quanto le esperienze descritte nei processi sarebbero tutte avvenute in uno stato di trance (N. Cohn).
Per Ginzburg né l’uno né l’altro di questi due schieramenti si focalizza sul vero nocciolo della questione che non è, a suo parere, l’esistenza o meno di una setta organizzata di streghe nell’Europa dal XV al XVII secolo. La vera chiave interpretativa sarebbe lo scarto («gap») tra le domande poste dai giudici e le risposte offerte dagli accusati, ridottosi gradualmente solo dopo decenni di “lavoro ai fianchi” da parte degli inquisitori che porta all’assimilazione del culto allo stereotipo stregonesco. Tale scarto sarebbe, a suo parere, un importante indizio della reale sussistenza di un culto della fertilità all’origine delle battaglie estatiche dei benandanti. Che Ginzburg non sia insensibile ai commenti alle sue opere è dimostrato dall’accesa dialettica spesso esistente tra lui ed i suoi interlocutori, peraltro non priva di ripensamenti, precisazioni, spunti autocritici. Ne è un esempio il post-scriptum all’edizione del 1972 de I benandanti in cui l’autore fa un evidente riferimento a due aspetti che alcuni recensori della prima edizione avevano segnalato.
Il primo consiste nell’ «insufficiente attenzione prestata agli inquisitori e al loro atteggiamento verso la stregoneria» (osservazione mossa da Tenenti, poi ripresa da Berengo). Ginzburg spiega questo squilibrio con l’orientamento anticonformista che ha voluto dare alla sua opera, indirizzato a prendere in considerazione le credenze dei perseguitati piuttosto che l’atteggiamento persecutorio di inquisitori e demonologi. In questo senso lo storico torinese sottolinea il proprio debito nei confronti di De Martino, Bloch ma soprattutto di Gramsci e della sua teorizzazione del concetto di «classe subalterna».

L’altro appunto critico a cui Ginzburg dedica una considerazione nel suo post-scriptum riguarda il rapporto tra «mentalità collettiva» e «atteggiamenti individuali» di cui aveva parlato nella prefazione alla prima edizione: in quella sede egli aveva enfatizzato la contrapposizione tra questi due aspetti, quasi che il primo fosse una costruzione astratta che avrebbe delegittimato la concretezza del secondo. Ancora Tenenti e Anne Jacobson Schutte hanno sottolineato l’artificiosità di questa dicotomia mentre Marcello Mustè ha recentemente notato come in realtà «l’oggetto della critica di Ginzburg (la mentalità collettiva) era penetrato nell’analisi più di quanto l’autore fosse disposto a riconoscere» nel momento in cui egli scriveva che «dove ci aspetteremmo di trovare l’individuo nella sua presunta astorica immediatezza troviamo la forza delle tradizioni della comunità, le speranze e i bisogni legati alla vita associata». Pur riconoscendo l’ingenuità di questa contrapposizione, Ginzburg è chiaramente refrattario a una visione omogenea della società di un certo periodo storico, preferendo sottolinearne la natura conflittuale, non più tuttavia nel rapporto tra comunità ed individuo, quanto nel contrasto di classe, in questo caso tra benandanti e inquisitori.
Un punto fondamentale delle discussioni riguarda l’attendibilità della tesi di Ginzburg riguardo l’esistenza di una connessione tra i benandanti e un antichissimo sostrato di matrice sciamanica, che egli nella prefazione definisce «non analogica ma reale». Tra gli studiosi a sostenere questa tesi, i più autorevoli sono M. Eliade e G. Klaniczay (vd. pag. 51) mentre in genere la posizione attrae scetticismo dalla comunità degli storici di formazione anglosassone, maggiormente propensi ad analizzare i fenomeni della stregoneria nei loro specifici contesti sincronici.

La pubblicazione dell’edizione in inglese consente dunque a costoro di precisare e talvolta riformulare il giudizio critico sull’opera: è il caso di H.C.E. Midelfort (vd. pag. 48) secondo il quale Ginzburg opera delle forzature metodologiche attribuendo, in maniera arbitraria, un significato universale alla vicenda dei benandanti sulla base di analogie con altri fenomeni, non sostenute da evidenze storiche.
Sullo stesso solco si colloca A. Pagden (vd. pag. 40) con il quale Ginzburg dà vita a un vivace scambio di opinioni che ha il proprio fulcro nel concetto di setta: si tratta di un termine che, secondo il recensore, non si può applicare ai benandanti, dei quali mette in luce l’eterogeneità e l’estemporaneità dei comportamenti più che la loro presunta coesione.
Tra i contributi di storici italiani ho preso in considerazione per un approfondimento due autori: il già citato Tenenti (vd. pag. 37) in un’articolata recensione si mostra scettico rispetto al concetto di «scarto» tra gli atteggiamenti dei giudici e quelli dei benandanti come elemento qualificante della genuinità delle testimonianze.
Infine, Del Col (vd. pag. 53) ritiene che Ginzburg, evitando di prendere in considerazione variabili importanti legate ad aspetti legali e giuridici, sia giunto a conclusioni affrettate circa l’assimilazione dei benandanti allo stereotipo inquisitoriale.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Da ''I benandanti'' a ''Storia notturna'': Carlo Ginzburg e gli strati sommersi della storia

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Informazioni tesi

  Autore: Luca Cantarutti
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2019-20
  Università: Università degli Studi di Urbino
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Storia moderna
  Relatore: Guido Dall'Olio
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 151

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