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Perdite e opportunità per l'industria italiana dovute al ripristino di misure protezionistiche

La scelta protezionistica del Presidente Trump

Con l'avvento della globalizzazione, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, il settore produttivo dei Paesi industrializzati e anche dei Paesi in via di sviluppo ha subito radicali trasformazioni. Si considerino per esempio gli Stati Uniti d'America, la cui svolta nella politica commerciale con le relative conseguenze nell'industria sono alla base dell'oggetto di studio della tesi. Già a partire dalla fine degli accordi di Bretton Woods nel 1971 con l'abbandono della convertibilità aurea del dollaro statunitense e l'inizio del sistema dei cambi flessibili tra le varie valute nazionali, la bilancia commerciale americana, ovvero la differenza tra il valore delle esportazioni e quello delle importazioni di merci, cominciò a presentare un valore negativo (deficit) che progressivamente e ininterrottamente continuò ad aumentare. Questo andamento fu messo in relazione con la posizione di superiorità che il dollaro aveva raggiunto rispetto ad altre valute e rese più vantaggioso importare merci dall'estero invece di esportarle, mentre i Paesi concorrenti non disdegnavano avere una moneta "più debole” per facilitare le loro esportazioni. Per far fronte a questa situazione, già a partire dalla fine degli anni ottanta, i governi americani si adoperarono nei consessi internazionali per l'abbattimento generale delle tariffe commerciali, allora regolate dagli accordi del GATT, determinando, in seguito all'Uruguay Round (1986-1994), la nascita dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (in inglese World Trade Organization, WTO). Con l'istituzione del WTO vennero eliminate le quote di import-export e venne mantenuta come unica limitazione possibile fra i Paesi aderenti all'organizzazione (allargatasi dagli iniziali Paesi aderenti al GATT a quasi tutto il mondo anche in seguito all'ingresso di Stati ex-socialisti come la Russia e la Cina) quella tariffaria, secondo il principio giuridico della nazione più favorita, con la quale gli Stati contraenti si impegnano a concedersi reciprocamente il trattamento più favorevole che abbiano concesso o eventualmente concederanno in futuro a uno o più Stati.

La liberalizzazione del commercio internazionale invece di sostenere la produzione americana, grazie all'apertura dei mercati e alla graduale eliminazione delle misure protezionistiche da parte di tutti gli Stati, ha in realtà provocato una forte concorrenza dei Paesi in via di sviluppo, contraddistinti da un basso costo del lavoro, spingendo le stesse imprese americane a delocalizzazione verso di essi i propri impianti industriali. Il primo destinatario di questa politica produttiva è stato il Messico, favorito, oltre che dalla vicinanza agli Stati Uniti, anche dall'entrata in vigore nel 1994 del NAFTA che ha progressivamente abolito qualsiasi tariffa doganale fra i Paesi aderenti. L'esternalizzazione nell'ambito del NAFTA (la delocalizzazione degli impianti industriali dagli Stati Uniti verso il Messico) ha senz'altro determinato l'aumento di produttività delle imprese USA e la diminuzione dei prezzi al consumo dei beni nel mercato statunitense, ma allo stesso tempo ha anche provocato la perdita dei posti di lavoro (la chiusura delle fabbriche) e la diminuzione delle reali retribuzioni dei lavoratori, visto che in un regime di concorrenza internazionale, per garantire la convenienza di un prodotto, bisogna confrontarsi con le realtà altrui e adeguarsi ad esse (un basso costo del lavoro all'estero, dovuto a bassi salari e alla mancanza di coperture previdenziali e assistenziali per i lavoratori come di equivalenti norme per la salvaguardia dell'ambiente, corrisponderà, per mantenere competitiva una produzione nazionale, una diminuzione di tali prerogative in Patria). Anche in Messico ci sono però state conseguenze sconvenienti, visto che nei primi due anni di entrata in vigore del NAFTA gli operai, invece di vedere aumentate le buste paga e allinearsi verso quelle dei colleghi nordamericani, hanno in realtà visto diminuire i loro salari di oltre il 20%. Questa condizione si era dovuta intraprendere per agevolare la decisione delle imprese statunitensi di delocalizzare gli impianti industriali verso il Paese centroamericano. La delocalizzazione delle industrie americane, in virtù della globalizzazione, non ha coinvolto solo il vicino Messico, ma ha interessato globalmente molte altre aree in via di sviluppo.

Un valido esempio è rappresentato dalla Repubblica Popolare Cinese. A partire dagli anni ottanta, con le riforme varate da Deng Xiaoping, il governo di Pechino ha abbandonato la pianificazione economica di stampo socialista e si è indirizzato verso un'economia di mercato aprendo il proprio mercato agli investitori stranieri. Approfittando dell'opportunità di investire nel Paese asiatico, molte aziende americane (tra cui i colossi dell'elettronica) vi hanno esternalizzato la loro produzione trasferendovi, oltre agli impianti industriali, anche le capacità tecnologiche e produttive, tanto che oggi la Cina è diventata il primo Paese produttore ed esportatore al mondo. Così la globalizzazione ha di fatto aggravato il deficit commerciale degli USA come si può constatare dai grafici successivi.

Il continuo aumento del deficit commerciale, specialmente nei confronti della Cina, ha prodotto gravi ripercussioni, come già rilevato in precedenza, nell'economia reale degli Stati Uniti. A partire dal 2000, negli USA sono andati persi tra i 2 e i 2,4 milioni di posti di lavoro per colpa della concorrenza delle importazioni cinesi. Questa affermazione è avvalorata dalla diminuzione tra il 2001 e il 2011 di oltre il 30% del numero degli occupati nel settore manifatturiero, passati rispettivamente da 17,1 milioni a 11,4 milioni. Una tale riduzione di posti di lavoro è avvenuta dopo che la trasformazione dei processi di produzione all'interno degli impianti industriali era già stata completata da tempo con il massiccio ricorso all'automazione e alla robotizzazione (e conseguente drastica riduzione del personale), tanto che negli anni novanta il numero degli occupati nell'industria si era stabilizzato e per tutto il decennio il valore era rimasto pressoché costante (17 milioni di occupati nel 1991). Quindi la decrescita lavorativa avuta negli USA nel primo decennio del nuovo millennio non può essere additata all'avanzamento tecnologico dei processi produttivi (il quale ha anche consentito una crescita dei posti di lavoro nella ricerca, nell'informazione e nei servizi), ma è iniziata proprio in concomitanza dell'entrata della Cina nel WTO (ottenendo così lo status di nazione favorita). Il Paese asiatico d'allora ha visto incrementare a suo favore la propria bilancia commerciale, portando la sua quota di importazione di beni negli Stati Uniti dal 2% del 1990 (10 miliardi di dollari) al 16% del 2011 (350 miliardi di dollari), fino ad arrivare al 21% del 2017 (505 miliardi di dollari) con un deficit da parte americana che nell'ultimo anno ha raggiunto i 375 miliardi di dollari, pari al 46% dell'intero disavanzo commerciale degli USA. Perciò il deficit nella bilancia del commercio estero va a tutto discapito dell'industria americana e a pagarne le spese sono stati i lavoratori e il ceto medio in generale. Infatti tra il 1980 e il 2014 l'aumento del reddito medio pro-capite negli Stati Uniti è stato in termini reali pari al 61%, ma esso è avvenuto in maniera più che diseguale. Mentre metà della popolazione ha visto il proprio reddito rimanere invariato e il 40% appartenente alla fascia media ha avuto un aumento solo del 42%, il restante 10% più ricco ha più che raddoppiato il proprio reddito (+121%) e all'interno di essi l'1% più ricco lo ha visto triplicare (+205%). A titolo di esempio, nel trentennio precedente, tra il 1946 e il 1980 in un'epoca “protezionista”, l'aumento medio è stato del 95% e ha premiato le fasce basse e medie (che rappresentano insieme il 90% della popolazione) con aumenti rispettivamente del 102% e del 105%, mentre il 10% della fascia più ricca ha visto aumentare il proprio reddito del 79% e l'1% più ricco solo del 47%. Pertanto l'aumento delle disuguaglianze, con la diminuzione del potere d'acquisto da parte delle famiglie medie americane, ha provocato l'aumento del debito privato, la cui sostenibilità, messa in serie discussione dalla crisi dei mutui sub-prime nel 2008, ha generato l'aumento del debito pubblico e l'attuale instabilità finanziaria.

Il deterioramento del contesto economico e sociale ha reso necessario l'intervento della politica di fronte all'evidenza di un'iniqua globalizzazione, spingendo il Presidente Trump a restaurare una politica di stampo protezionista. Le “Trump Tariffs” sono una serie di tariffe doganali che sono state imposte negli Stati Uniti a partire dal mese di gennaio 2018 e stanno interessando l'importazione di pannelli solari e di lavatrici (per complessivi 8 miliardi di dollari l'anno), di acciaio e di alluminio (45 miliardi) e di beni generici prodotti in Cina. Tra le motivazioni adottate a sostegno di questi interventi, nel primo caso è stata invocata la clausola di salvaguardia, la quale si applica a settori che subiscono danni da forti incrementi dell'importazione, mentre nel secondo caso si è fatto appello a ragioni di sicurezza nazionale per proteggere i settori ritenuti strategici per la difesa dello Stato, considerando che l'acciaio è largamente utilizzato nell'industria bellica. Entrando nel dettaglio del provvedimenti, sui pannelli solari è stato imposto un dazio nel primo anno dell'entrata in vigore del 30% per poi gradualmente scendere nei prossimi anni al 15% (25% nel secondo anno, 20% nel terzo anno, 15% nel quarto anno) e i primi 2,5 Gigawatt importati in un anno ne sono esenti. Le lavatrici hanno una tariffa del 20% per le prime 1,2 milioni di unità importate nel primo anno (essa scenderà al 18% nel secondo anno e al 16% nel terzo anno) e superata questa quota si arriva al 50% (45% nel secondo anno e 40% nel terzo anno). Per quanto riguarda l'importazione di acciaio e di alluminio, le tariffe sono rispettivamente del 25% e del 10% e le esenzioni riguardano solo le produzioni in Australia e in Argentina. Ma il vero bersaglio delle misure restrittive di Trump è la Cina. Nonostante l'ingresso nel WTO la obblighi al rispetto delle regole dell'organizzazione (di fatto, come detto in precedenza, questo le ha permesso di avere la condizione di nazione favorita tra i Paesi aderenti, facilitando la sua penetrazione nei mercati esteri), il Paese asiatico è accusato di sistematiche pratiche scorrete nei confronti degli altri membri, tanto che sia gli Stati Uniti e sia l'Unione Europea si sono opposti, all'interno dello stesso WTO, al riconoscimento della Cina come "economia di mercato”. Tra le azioni incriminate al governo di Pechino, vi è al primo posto il cosiddetto dumping, attraverso i sussidi che lo Stato offre all'aziende per distorcere il prezzo di un prodotto da esportare (c'è da sottolineare che nonostante le riforme e l'apertura al mercato, il ruolo del Partito Comunista nell'economia cinese rimane capillare), cui segue il trattamento della proprietà intellettuale, specie nei settori caratterizzati dell'alta componente tecnologica, con vari strumenti utilizzati allo scopo di trasferire tecnologia americana in mano cinese. Contro queste politiche, l'amministrazione Trump ha imposto nel mese di settembre un dazio del 10% su 200 miliardi di dollari di beni importati dalla Cina che alla fine dell'anno verrà incrementato al 25%, a cui potrebbero seguire ulteriori dazi su altri 267 miliardi in caso di rivalsa del governo cinese.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Perdite e opportunità per l'industria italiana dovute al ripristino di misure protezionistiche

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Informazioni tesi

  Autore: Gianluca Sementilli
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2017-18
  Università: Università degli Studi Niccolò Cusano - Telematica Roma
  Facoltà: Ingegneria
  Corso: Ingegneria industriale
  Relatore: Francesco Cappa
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 50

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