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Il principio di sicurezza delle cure e la responsabilità sanitaria dopo l'entrata in vigore della L. n.24/2017. Analisi in merito con riguardo il sistema sanitario del Friuli Venezia Giulia

La sicurezza delle cure: principio cardine della riforma Gelli-Bianco

La sicurezza dei pazienti costituisce essere uno dei fattori che vanno ad incidere fortemente sull’outcome della qualità delle cure ed è proprio per questo che il servizio Sanitario Nazionale su di esso volge la sua attenzione in termini legislativi e programmatici. Affinché si sviluppino interventi efficaci in tema di sicurezza delle cure bisogna capire quali siano le criticità del sistema, le criticità delle organizzazioni sanitarie e i limiti che esse presentano. Sulla base di ciò lo scopo è quello di diffondere la cultura del superamento dei propri limiti organizzativi abbattendo le barriere che ravvisano un abbassamento della percezione della qualità delle cure. Questo superamento dei ‘limiti’ sanitari si può solo che ottenere con comportamenti volti a promuovere l’analisi degli eventi avversi e corrispettivi insegnamenti che si possono trarre da questi. La sicurezza dei pazienti si va a collocare nella prospettiva di un miglioramento che sia di tipo progressivo, in un’ottica di proporzionalità diretta con il concetto di qualità delle cure.
Seppur tutto questo sembra semplice da attuare, il meccanismo in realtà è molto più complesso in quanto si deve rendere in considerazione il fatto che il sistema sanitario globalmente si erge sull’ interazione di diverse interazioni effettuate da molteplici componenti, le quali agiscono in forma simbiotica. Si ha la necessità di andare a cercare quali siano le determinanti di questo macrosistema al fine di elaborare pratiche di governo clinico che possano consentire di porre al centro del sistema cure e al centro dei servii sanitari i reali bisogni dei cittadini. Il bisogno del cittadino non deve più solamente essere soddisfatto: il processo di cura, volto alla soddisfazione del bisogno di salute manifesto dal cittadino, deve acquisire un valore intrinseco che venga riconosciuto come un surplus. Quel qualcosa in più è costituito appunto dalla sicurezza delle cure, è ormai è un elemento fondamentale del processo di cura che deve essere garantito come diritto a tutti.

È inevitabile che, proprio perché vi è un’attenzione particolare della norma, la sicurezza del paziente ormai costituisca la base per una buona assistenza sanitaria. La sicurezza del paziente è da ritenersi importante in un contesto in cui l’azione del professionista sanitario può non solo determinare la guarigione dalla malattia, ma può incappare nella determinazione di un danno. per questo quello che va garantito al cittadino e la fruizione di prestazioni di carattere sanitario che ledano il meno possibile l’integrità individuale da danno iatrogeno. Da ricordare che tutto questo ragionamento non viene volto solo verso il singolo, ma anche verso la collettività tenendo così conto non solo gli aspetti clinici rappresentativi della professione (quelli legati al mero rapporto tra medico e paziente), ma anche quegli aspetti che vanno ad interessare la ricerca, la sperimentazione e la gestione organizzativa (revisione e monitoraggio della realtà sanitaria nella sua possibile interezza).

Parlare di sicurezza in vista al processo di cura fornito al paziente non è cosa del tutto ignota: del 2009 la legislazione europea ha cominciato a parlare della tematica quando ha affrontato il delicato tema del controllo delle infezioni associate all’assistenza sanitaria. Oltre all’Europa, in questo senso anche l’Organizzazione Mondiale della sanità ha cominciato a concentrarsi in modo indiretto sulla sicurezza delle cure in quanto ha iniziato a condurre diversi studi in numerosi paesi circa la rilevazione degli eventi avversi più frequentemente accaduti. L’OMS in questi studi ha potuto riscontrare che circa la metà di questi eventi avversi, instauratosi in regime di malpractice medica, risultavano di fatto prevedibili e prevenibili. Per questo da allora si è cercato a livello internazionale di sviluppare teorie, metodi e strumenti per cercare di mitigare gli eventi avversi introducendo dei cambiamenti ad hoc riguardo le prassi cliniche e sanitarie. La sicurezza rapportata al concetto di cura non costituisce di fatto una novità: lo sposalizio tra sicurezza e sanità pubblica costituisce un vecchio problema che necessita ancora di risposte certe. Il legislatore, a vari livelli, negli anni ha cercato di fornire spunti di riflessione e azione per la soddisfazione del problema relativo alla sicurezza nei contesti di cura.

La legge 8 marzo 2017, n.24, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 64, riporta già nel titolo la ‘missione’ più importante sulla quale essa va ad operare e rivisitare gli scenari sanitari nella declinazione in favore della sicurezza delle cure. Difatti la denominazione della legge è “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”.
La legge Gelli è tutta volta alla preservazione della tutela della salute. La salute, dopo l’emanazione di questo disposto, non può essere più considerata come semplice assenza di malattia ottenuta dalla cura e dalla prestazione sanitaria standard. La preservazione della salute deve cominciare dapprima e deve ricoprire un più ampio ambito della prestazione sanitaria: ci si focalizza sul concetto di sicurezza, sul concetto di prevenzione e sul concetto della previsione del rischio in sanità.
La legge Gelli-Bianco ha cercato di introdurre nuovi strumenti per fornire al cittadino delle cure sicure, introducendo o riaffermando concetti nuovi: nel quadro della legge abbiamo sistemi che riguardano la gestione, l’uso e la conoscenza delle linee guida, alle quali ruotano la costruzione di tutta una serie di sistemi d’implementazione ciclici e continui che devono essere operati a carico dei processi assistenziali e di cura.

In virtù della sicurezza delle cure la legge interviene apportando la creazione di due nuovi istituti: uno è quello previsto all’art.3, ovvero l’istituzione dell’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza in sanità che, anche se non strettamente correlata alla redazione delle linee guida e la responsabilità sanitaria, ha di fatto comunque una interconnessione con la problematica della identificazione delle buone pratiche che sono finalizzate alla sicurezza nella sanità, ed è connessa anche alla gestione del rischio in sanità. Sembra essere più strettamente correlata l’istituzione del S.N.L.G. (Sistema Nazionale per le Linee Guida) ai sensi dell’art. 5, comma 3.

Il decreto ministeriale 2 agosto 2017 ha previsto come tutti i soggetti scientifici, interessati ad essere riconosciuti, debbano presentare domanda di iscrizione all’elenco, indicando i presupposti richiesti da tale normativa. Tra i presupposti più significativi ai fini del riconoscimento annotiamo:

• possedimento di rilevanza territoriale; gli enti scientifici che vogliono essere riconosciuti devono avere rappresentanza in almeno dodici regioni e province autonome;
• possedimento di rappresentatività soggettiva; viene difatti richiesto che le società rappresentino almeno il 30% dei professionisti del settore che non risultino in stato d’inattività oppure, per quanto riguarda i medici di medicina generale, il 15%;
• possedimento di autonomia e indipendenza; l’ente in esame deve essere autonomo e indipendente. Anche i suoi legali rappresentanti devono essere autonomi e indipendenti (non essere coinvolti nell’esercizio di attività imprenditoriali);
• devono essere del tutto assenti finalità di lucro a carico degli enti scientifici;
• sussistenza di previsione che l’ente scientifico non abbia finalità sindacali e organizzazione democratica della vita associativa.

Il comma 1 dell’art.5, prevede che nel caso vi sia un’assenza o carenza di raccomandazioni, in un determinato settore, previste dalle linee guida, allora “gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali”.
Sempre all’art. 5 si ha la previsione che “le linee guida e gli aggiornamenti delle stesse elaborati dai soggetti, di cui al comma 1, sono integrati nel Sistema nazionale per le linee guida (SNLG), il quale è disciplinato nei compiti e nelle funzioni con decreto del Ministro della salute”. Gli aggiornamenti delle linee guida vengono pubblicati dall’Istituto superiore di sanità pubblica, notificando il tutto sul proprio sito internet istituzionale, ovviamente previa verifica della corretta metodologia adottata, che deve seguire determinati standard resi pubblici dall’Istituto medesimo, nonché della rilevanza attestata delle evidenze scientifiche che sono a supporto delle raccomandazioni. Anche qui il funzionamento e organizzazione del SNLG è stato disciplinato mediante D.M. 27 febbraio 2018 del Ministero della salute.
L’art. 5 della legge Gelli va a sostituire, insieme al successivo art. 6 (responsabilità penale del personale sanitario), la posizione intrapresa dal precedente decreto Balduzzi. Il decreto Balduzzi decretava, per l’appunto, che la responsabilità penale non sussisteva laddove gli esercenti delle professioni sanitarie si erano attenute al rispetto delle “linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica” (art. 3 decreto Balduzzi). Ora la legge Gelli-Bianco è intervenuta ad abrogare in questo senso la legge Balduzzi mediante il comma 2 dell’art.6. Il decreto del 2012 subordinava l’esercizio della professione sanitaria al rispetto delle linee guida e delle buone pratiche validate dalla comunità scientifica, mentre nel 2017 con la legge 24 si dispone che la responsabilità professionale sia subordinata al rispetto delle “raccomandazioni previste dalle linee guida” e “in mancanza” di queste, bisogna ottemperare al rispetto delle “buone pratiche clinico-assistenziali”. Disposta così la norma, sembra che il legislatore faccia riferimento a documenti diversi rispetto a quelli previsti dal decreto Balduzzi. Per questo appare necessario effettuare una distinzione tra linee guida e buone pratiche. Per quanto concerne le linee guida queste risultano essere prerogativa dell’esercizio dell’attività medica a partire dagli anni Novanta. Tutto l’operato degli esercenti le professioni sanitarie ruota attorno al così detto approccio Evidence Based Medicine: tutte le azioni di carattere clinico e assistenziale vengono intraprese in quanto fortemente sostenute da prove d’efficacia risultato di una continua ricerca scientifica, sia proveniente da studi effettuati su campo che da studi condotti in base all’osservazione di dati epidemiologici. L’Institute of Medicine, a partire dal ‘92, cominciò a definire le linee guida come delle raccomandazioni che hanno il compito di perlustrare i comportamenti di tipo clinico da assumer al fine di indirizzare la pratica sanitaria verso azioni che siano validate dal sapere scientifico. I documenti che riportano l linee guida sono perciò il risultato della valutazione continua e multidisciplinare delle prove scientifiche disponibili nel vasto panorama della letteratura in campo medico e sanitario, e forniscono un aiuto al professionista sanitario nel processo decisionale. All’interno di ogni documento dove vi è riportata una linea guida dobbiamo ritrovarvi, in forma esplicita, il metodo che è stato utilizzato a fini dell’elaborazione delle raccomandazioni riportate, questo per consentire allo stesso professionista sanitario di valutare se quella linea guida può essere applicabile al caso specifico che sta trattando (campo d’applicazione, patologie target, data di rilevazione degli studi, contesto geografico ecc.). il concetto di linea guida, proprio perché nella disciplina della legge Gelli non viene specificato a cosa si riferisce, appare di difficile valutazione poiché potenzialmente fuorviante, il che ha comportato a declinazioni di interpretazioni diverse. In realtà, come afferma Benci Luca (giurista ed esperto in diritto sanitario e biodiritto), le linee guida a cui si riferisce la legge 24/2017 hanno natura e caratteristiche ben diverse che le differenziano da altre forme di linea guida e correlate raccomandazioni come i percorsi diagnostico-terapeutici, i protocolli, gli standard sanitari, le procedure, il technology assessment. Le linee guida in questa sede sono da considerarsi come un insieme di raccomandazioni contenute in un documento che fanno riferimento alla sola attività clinica. Ciò ci fa capire che le linee guida sanitarie si differenziano da quelle emanate mediante la legislazione, in quanto in Italia vengono altresì pubblicate delle linee guida di carattere più organizzativo che sanitario all’interno della Gazzetta Ufficiale o nei vari bollettini ufficiali regionali (B.U.R.). Come sempre sostenuto da Benci e Rodriguez “la confusione massima si raggiunge quando le linee guida cliniche vengono pubblicate in Gazzetta Ufficiale”. Oltre al problema che si origina dall’identificazione giuridica delle linee guida, si riscontra anche quello relativo alla coesistenza di più linee guida che riguardano la medesima materia o campo di applicazione, provenienti da diverse società scientifiche. In questo caso è da considerarsi più idoneo vagliare le varie linee guida secondo alla “forza” che assumono intrinsecamente, ovverosia se queste riportino al loro interno delle semplici e prescindibili raccomandazioni o se trattano di azioni che vanno perseguite in modo tassativo. Ma questa non risulta la sola indicazione nella preferenza della scelta della linea guida: il professionista si avvale di metodo critico e sceglie lui stesso la linea guida da perseguire, tutto al fine di adattarlo al caso concreto che si ritrova a gestire. Le problematiche che sono state riscontrate sono fondamento di lungo dibattito che ha caratterizzato gli scenari passati e proseguirà ancora nel tempo futuro, questo perché se il decreto Balduzzi nominava le singole ‘linee guida’ senza connotarne le caratteristiche, anche nella disciplina Gelli-Bianco non abbiamo chiari riferimenti alla loro parvenza, se non il passaggio terminologico da ‘linee guida’(Balduzzi) a ‘raccomandazioni previste dalle linee guida’ (legge Gelli-Bianco).

La legge 24/2017 all’art. 5 al comma 1 introduce il concetto di ‘buone pratiche clinico - assistenziali’, ulteriore passo in più rispetto al decreto Balduzzi. Ma anche qui la definizione di buone pratiche ha destato contraddizioni e incertezze interpretative. Una delle definizioni di buone pratiche è risalente nel decreto ministeriale del 15 luglio 1997 (chiamato ‘Linee guida di buona pratica clinica’): in questo documento legislativo viene ripresa la definizione prevista dal mondo della “good clinical practice” secondo cui la buona pratica clinica è “uno standard internazionale di etica e qualità scientifica per progettare, condurre, registrare e relazionare gli studi clinici che coinvolgono esseri umani”. Se dobbiamo rapportarci a questa definizione allora sembra che il tutto appaia ancora più confuso in quanto la definizione riportata in precedenza viene espressa in riferimento al contesto delle cure sperimentali e degli studi clinici (ambito che non può essere estendibile a tutto il mondo sanitario). In più tale documento ministeriale, nell’espressione delle buone pratiche del caso, sembra riferirsi a direttive di indirizzo piuttosto che a vere e proprie raccomandazioni (di cui le caratteristiche che abbiamo affrontato in precedenza). A distanza poi di dieci anni, il legislatore interviene di nuovo a declinare le buone pratiche all’interno dello scenario di lavoro sanitario in ambito di medicina di laboratorio : in questo contesto le buone pratiche hanno forza di legge diverso rispetto al ’97, in quanto vengono emanate con Decreto Legislativo e inoltre queste hanno diversa connotazione in termini di definizione in quanto vengono viste come l’insieme del “processo organizzativo e le condizioni in cui gli studi non clinici sulla sicurezza per la salute umana e l’ambiente vengono programmati, eseguiti, controllati, registrati e riportati”.

In questi anni si è intervenuto a parlare di buone pratiche in riferimento al concetto di pratiche in sicurezza. Nel 2012 il decreto Balduzzi parla di “buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”, mentre la Legge 24/2017 apporta un tassello in più nella loro specifica ovverosia parlando di buone pratiche “clinico-assistenziali” (seppur nella legge sembra sottointeso che rimane il vincolo che queste siano comunque validate dalle comunità scientifiche di rilievo). Inoltre, la Legge 24/2017 attua una distinzione tra due tipologie di buone pratiche: e buone pratiche per la sicurezza e le buone pratiche clinico-assistenziali. Ad esempio, le “Raccomandazioni ministeriali” possono essere considerate come buone pratiche per la sicurezza, in quanto questi documenti vengono riportati argomenti di carattere clinico- assistenziale- organizzativo che riguardano l’esecuzione di attività cliniche svolte nel principio della sicurezza delle cure. Le Raccomandazioni ministeriali (lui cui decorrenza si ha a partire dal 2005) vengono redatte dal Ministero della salute congiuntamente alla collaborazione intellettuale e scientifica di società e associazioni del campo sanitario. Oltre alle raccomandazioni possono avere medesima valenza i documenti di produzione regionale che vengono prodotti internamente per il perseguimento degli obiettivi in termini di sicurezza disposti a livello statale. In quanto in questi documenti vengono previsti precetti relativi alla sicurezza, tutto quello che viene riportato all’interno delle raccomandazioni e all’interno dei documenti di produzione regionale è importante da osservare.

Quello che si deduce da tali osservazioni è che vi è una distinzione fondamentale tra le linee guida e le buone pratiche per la sicurezza. Le linee guida non sono altro che raccomandazioni da cui il professionista e l’organizzazione sanitaria ha facoltà di scelta se discostarsi o meno, se decidono che non sono attuabili nella specificità del caso concreto a loro sottoposto. Dall’altro canto, le buone pratiche sono da ritenersi maggiormente vincolanti nell’esecuzione delle attività sanitarie in quanto pensate e strutturate al fine di fornire prestazioni sanitarie più sicure possibili, mediante il perseguimento di determinati standard organizzativi, lavorativi e strutturali, poiché non è possibile esimersi dai comportamenti che apportano potenziali benefici alla salute e sicurezza del paziente.
Per quanto riguarda invece le citate buone pratiche clinico-assistenziali non troviamo numerosi documenti ai quali il legislatore sembra essersi ispirato quando ha introdotto questa espressione, in quanto nell’art. 5 della legge Gelli non vi è nessun rimando per quello che concerne l’iter di produzione delle buone pratiche clinico-assistenziali. Quello che si è dedotto implicitamente è che le buone pratiche clinico-assistenziali possono ritenersi sia le prassi professionali che vengono orientate verso la tutela della salute, basate su evidenti prove di produzione scientifica, sia i documenti di notifica delle azioni da intraprendere su base scientifica, risultato di metodologia ben specificata e ricostruibile (percorsi diagnostico - terapeutici, protocolli, standard, procedure).
Ulteriore problema interpretativo si ha quando si cerca di riconoscere, all’interno del testo della legge in esame, se siano più importanti le linee guida o le buone pratiche. Questo dubbio interpretativo è dato dal fatto che la rubrica dell’art. 5 inizia con la nomina delle buone pratiche clinico-assistenziali e subito dopo cita le linee guida: questo ci può indurre a pensare che le prime siano più importanti delle seconde. Tutt’altro poi si ha nel comma 1 dell’art. 5, dove vengono menzionate prima le linee guida e poi le buone pratiche clinico-assistenziali; all’interno del restante art. 5 poi le buone pratiche addirittura non verranno più menzionate. Tutto questo ha destato delle perplessità nel capire a cosa dare precedenza nello svolgimento della
professione sanitaria. Ma come da comma 1 dell’art. 5, il testo della legge sembra più valorizzare la posizione delle linee guida rispetto alle buone pratiche, conferendo a quest’ultime un ruolo piuttosto subordinato, restando che queste siano valide solo in mancanza delle prime. Alla fine il senso ampio del comma 1 è quello di riconoscere e rivestire d’importanza il principio delle evidenze scientifiche, come principio di fatto ineludibile nello svolgimento della normale
professione sanitaria, e, altresì, riconosce l’importanza delle raccomandazioni delle linee guida come strumento informativo di riferimento, a patto che siano in linea e di armoniosa applicazione con il caso concreto al quale il professionista sanitario deve apportare risposte in termini di sicurezza delle cure.

A favore della sicurezza delle cure in sanità, la legge prevede, all’art. 2 (commi 4 e 5), l’istituzione del Centro per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente. Il Centro deve essere istituito, in forma obbligatoria (e non in forma facoltativa come vedremo più avanti per il garante del diritto alla salute), in ogni regione italiana. Questo organo di controllo, esercitando i suoi compiti in maniera puntuale, assume delle funzioni fondamentali e utilissime per la valutazione della sicurezza nelle pratiche sanitarie. Ogni Centro per la gestione del rischio ha il compito di raccogliere da ogni singola struttura sanitaria e sociosanitaria, sia pubbliche che private, i dati sui rischi, sugli eventi avversi, sui conteziosi. Quello che si vuole ad andare ad esaminare non è più solo il rischio clinico: la valutazione deve essere necessariamente volta al rischio sanitario, che riguarda un’analisi più ampia volta alla verifica non solo degli gli aspetti clinico-assistenziali, ma anche quelli tecnologico-ambientali-organizzativi e correlati ad appropriatezza e sostenibilità delle cure.
Il Centro per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente riceve tutte le informazioni del caso per la loro valutazione; poi successivamente si occupa dell’elaborazione di strategie di contrasto degli eventi avversi. Questi eventi avversi vengono studiati nella loro interconnessione ad eventuali errori clinici o difficoltà organizzative che si sono manifestate. Il Centro elabora dunque delle strategie per cercare di eliminare i fattori di rischio, e questo determina conseguentemente un abbassamento del rischio nei confronti di tutti quegli eventi che sono destinati a ripetersi nei vari setting di cura.
I dati che vengono elaborati dal Centro per la gestione del rischio e la sicurezza del paziente vengono trasmessi successivamente ogni anno all’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza (previsto al comma 4 dell’art. 2). I dati del Centro altresì (ai sensi del comma 5 dell’art.2) vengono elaborati in modo tale da redigere annualmente una relazione di tipo consuntivo, difatti la legge Gelli dispone che la relazione deve informare su “gli eventi avversi verificatesi all’interno della struttura, sulle cause che hanno prodotto l’evento avverso e sulle conseguenze iniziative messe in atto”.

La legge prevede che i vari Centri per la gestione del rischio regionali sottostiano alla clausola dell’invarianza finanziaria; ossia le regioni devono farsi necessariamente carico dei costi previsti per l’avviamento del Centro, dunque con risorse finanziarie già presenti all’interno del territorio.
Questa clausola dell’invarianza finanziaria sembrerebbe riferirsi ai soli costi di avviamento, dunque dell’istituzione stessa dei Centri, e non si riferisca invece al funzionamento annuale dei medesimi.
La legge Gelli ha definito il Centro di monitoraggio come un centro che si occupa di rischio sanitario, concetto che ingloba quello di rischio clinico (clinical risk). Il legislatore ha forse voluto così estendere il monitoraggio del rischio su più aree di intervento: oltre all’esame del rischio sanitario vi è la necessità, per completezza, di esaminare anche l’attività sanitaria in ambiti che includano la valutazione di aspetti clinico assistenziali, tecnologico-ambientali, organizzativi relativamente all’appropriatezza e alla sostenibilità delle cure in un determinato scenario. Passi compiuti verso questo orientamento risalgono già ai tempi del 200858quando si è instaurato l’impegno tra regioni e province autonome di attivare una funzione aziendale di tipo permanente che fosse esclusivamente dedicata alla gestione del rischio clinico e alla sicurezza del paziente e delle cure prestate, includendo anche il monitoraggio e l’analisi puntuale degli eventi avversi, al fine di condurre l’implementazione delle pratiche per la sicurezza.
Il Centro per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente si erge sul sistema di segnalazione degli errori: tale sistema deriva dal concetto di learn from experience (imparare dai propri errori). la segnalazione che viene prodotta, per questo, non deve essere suscettibile di meccanismi di punibilità e deve essere tempestiva e più confidenziale possibile, al fine di essere precocemente analizzata nella sua oggettività da parte di esperti di analisi in materia di sicurezza e qualità delle cure. La segnalazione, nell’ottica di imparare dai propri errori, serve per offrire una riflessione costruttiva sui processi organizzativi legati della struttura sanitaria, per capire quali sono le strategie di miglioramento che possono essere poi messe in atto, tutto ciò condotti indipendentemente da eventuali indagini parallele che si originano a seguito dell’accertamento di un eventuale responsabilità in capo all’esercente della professione sanitaria. Per incentivare l’instaurarsi di un clima collaborativo in termini di segnalazione dell’evento avverso è stato introdotto un sistema di segnalazione che si basasse sulla trasmissione di dati in forma oggettiva e standardizzata garantendo l’anonimato e la riservatezza della trasmissione. Il sistema per la segnalazione degli eventi avversi in sanità, infatti, si basa sul “Modello di informazioni minime” (Minimal Information Model) il quale prevede la creazione di una scheda documentale che permetta, tramite una tassonomia standard, l’immissione dei dati che hanno caratteristiche oggettive in forma del tutto anonima. Questo sistema, che non ha lo scopo di attuare interventi punitivi, risulta essere più invitante i fini della segnalazione degli eventi avversi da parte degli operatori sanitari, con finalità intrinseche di apprendimento e miglioramento della qualità e della sicurezza del paziente nei contesti di cura.
Con i dati alla mano, i Centri hanno il compito si rilevare quali siano i criteri e i comportamenti inappropriati messi in atto dalle strutture sanitarie e dai suoi professionisti/operatori con l’obiettivo di intraprendere attività di promozione e formazioni concernenti la materia della sicurezza del paziente. Inoltre, loro compito è quello di fornire a tutte le aziende sanitarie (sia ospedaliere che distrettuali, nonché cliniche private) indicazioni idonee sulla gestione degli eventi sentinella, diffondendo le buone pratiche per la sicurezza al fine di abbattere i rischi sanitari e clinici rilevati in corso d’indagine.

Informazioni tesi

  Autore: Carolina Pirozzi
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2021-22
  Università: Università Telematica Unitelma La Sapienza di Roma
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Management delle Organizzazioni Pubbliche e Sanitarie
  Relatore: Angelo Tuzza
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 95

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