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La crisi dello stato di diritto nell'Unione europea tra carenze e nuove prospettive

Le carenze nella risposta dell’Unione: da un approccio tecnico ad un approccio sistemico

Nonostante l’Ungheria non potesse essere più considerata nella sostanza una repubblica retta dalla rule of law, nessuno degli attori investiti del potere di invocare l’articolo 7 TUE (Commissione, Parlamento o un terzo degli Stati membri), all’epoca degli eventi, decise di azionare il meccanismo disciplinato dal paragrafo 1 di tale articolo, né tantomeno quello previsto dal paragrafo 2. La prima reazione dell’Unione provenne, nel gennaio 2011, dalla Vice-Presidentessa della Commissione Kroes, la quale manifestò la propria preoccupazione circa la compatibilità della nuova legge ungherese sui media con la direttiva sui servizi di media audiovisivi e, più in generale, con la libertà di espressione e con il pluralismo dei mezzi d’informazione, disciplinati dall’articolo 11 della Carta. L’Ungheria provvide, quindi, ad emendare la nuova legge sui media così da renderla compatibile al diritto dell’Unione. La Commissione accolse di buon grado le modifiche introdotte dal Governo ungherese e assicurò il proprio monitoraggio sulla loro effettiva attuazione lasciando, tuttavia, la questione della libertà dei media del tutto irrisolta.
L’apice della crisi della rule of law fu probabilmente toccato l’11 marzo 2013, quando il Presidente della Commissione e il Segretario generale del Consiglio d’Europa decisero di adottare congiuntamente una dichiarazione per esprimere una forte preoccupazione relativamente alla compatibilità del IV emendamento alla Costituzione ungherese con lo stato di diritto. Il IV emendamento, inter alia, prevedeva la rimozione della competenza della Corte Costituzionale di pronunciarsi in merito alle modifiche costituzionali permettendo così al Governo di Orbán di sfuggire alla judicial review. Questa presa di posizione fu in realtà l’ultima di una serie di avvertimenti indirizzati all’Ungheria e, in particolare, al Primo ministro Orbán rispetto alle riforme costituzionali introdotte nel Paese.
Oltre alle dichiarazioni adottate sia dai vertici istituzionali dell’Unione sia quelle bilaterali con i rappresentanti ungheresi, è da menzionare la decisione di esecuzione 2012/156/UE concernente la sospensione degli impegni del Fondo di coesione in favore dello Stato magiaro. Sebbene tale decisione fosse formalmente indirizzata al risanamento del disavanzo interno (secondo elementi di carattere squisitamente tecnico), essa fu considerata come un tentativo di condizionamento economico del Governo di Orbán.

Nonostante la gravità della situazione, l’approccio che le istituzioni dell’Unione decisero di adottare fu meramente tecnico, senza alcuna considerazione di carattere valoriale o sistemico.
Nello specifico, la Commissione decise di affrontare la questione ungherese semplicemente identificando singoli elementi di incompatibilità con il diritto dell’Unione e decidendo in quali casi utilizzare l’articolo 258 TFUE. Tuttavia, tale procedura si è rivelata non idonea per varie ragioni. Innanzitutto, sebbene l’articolo 4, paragrafo 2, TUE faccia salva l’identità nazionale insita nella struttura fondamentale, politica e costituzionale dei propri Stati membri, il suo scopo non è quello di contestare l’ordine costituzionale di uno Stato membro ma quello di “fare in modo che gli Stati membri adempiano ai loro obblighi nel più breve tempo possibile”. Da ciò si ricava, pertanto, l’incapacità della procedura d'infrazione di intercettare il significato valoriale della violazione commessa dallo Stato in questione. In secondo luogo, è necessario ricordare che, qualunque siano gli inadempimenti cui si riferisce, essa riguarda esclusivamente violazioni conclamate e non anche situazioni in cui ve ne sussista un mero rischio. Infine, la procedura ex articolo 258 TFUE può essere applicata solamente laddove l’inadempimento ricada nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione.

Perciò, l’approccio assunto dall’Unione, benché consentì di compiere alcuni positivi passi in avanti, è apparso complessivamente debole e poco efficace. Si trattò infatti di un approccio basato sulla ricerca di soluzioni settoriali di natura meramente tecnica, inidoneo ad affrontare problemi istituzionali di più ampia portata che rappresentano una grave minaccia alle fondamenta dello stato di diritto e della democrazia dell’Ungheria.
Le vicende che hanno contraddistinto la gestione della crisi ungherese furono un importante impulso per l’emergere di un animato dibattito sia istituzionale sia accademico relativamente alle modalità con cui l’ordinamento dell’Unione dovrebbe salvaguardare la rule of law e gli altri valori ex articolo 2 TUE. Tale dibattito fu inaugurato nel marzo 2013 da una lettera inviata dai Ministri degli esteri di Danimarca, Finlandia, Germania e Paesi Bassi al Presidente della Commissione in cui si richiedeva un intervento della Commissione a protezione dei valori fondamentali comuni. Seguirono, poi, una serie di sollecitazioni ad intervenire da parte degli stessi vertici istituzionali.
Il primo scenario si dimostrò estremamente difficile da realizzare in quanto prevedeva la revisione dei Trattati al fine di introdurre nuovi strumenti di controllo dell’ottemperanza ai valori fondanti dell’Unione. Tra le numerose proposte avanzate vi era il rafforzamento dei poteri della Commissione o dell’Agenzia europea dei diritti fondamentali, l’abbassamento delle soglie di maggioranza per l’attivazione dell’articolo 7 TUE, l’estensione del sindacato della Corte di giustizia sull’articolo 7 TUE (ad oggi esclusivamente di carattere procedurale e attivato su richiesta degli Stati membri) e, perfino, l’introduzione di un vero e proprio meccanismo di espulsione. Oltre a ciò, fu ipotizzata l’istituzione di un nuovo organismo, la c.d. Commissione Copenaghen (dai criteri di Copenaghen la cui osservanza è richiesta per l’adesione) e l’estensione dell’ambito di applicazione della Carta attraverso l’abrogazione dell’articolo 51 della Carta stessa.
Invece, molto più concreto risultò il secondo scenario concernente l’introduzione di nuovi strumenti di soft law da affiancarsi a quelli già previsti all’articolo 7 TUE. Fu proprio in questo contesto che la Commissione introdusse il nuovo quadro dell’Unione per rafforzare lo stato di diritto e che il Consiglio decise di avanzare una propria iniziativa volta a dare vita ad un dialogo annuale sullo stato di diritto con gli Stati membri, esaminati entrambi nel Capitolo I.

Alla luce di queste novità, si assistette ad un cambio di paradigma confermato anche dalla Commissione Juncker che aveva reso la tutela dei valori fondamentali dell’Unione uno dei punti centrali del suo mandato. In questo contesto, nel gennaio 2016, a fronte della crescente preoccupazione circa le riforme promosse dalla nuova maggioranza salita al potere in Polonia, la Commissione decise di attivare per la prima volta il quadro UE sullo stato di diritto istituito dalla stessa nel 2014. Quest’ultima, insoddisfatta della fase di discussione avviata con i rappresentanti polacchi, decise di adottare, prima, un’opinione sulla rule of law (decisione supportata anche dal Parlamento) e, in seguito, una raccomandazione. In quest’ultimo atto, in particolare, la Commissione fece una dettagliata analisi dei profili di criticità delle riforme introdotte in Polonia e individuò le misure che lo Stato in questione avrebbe dovuto adottare anche alla luce del principio di leale cooperazione. Ciò nonostante, il Ministero degli esteri polacco affermò, con una propria dichiarazione pubblica, che l’analisi compiuta dalla Commissione fosse priva di alcun fondamento e fosse quindi un’indebita interferenza negli affari interni dello Stato membro. La posizione adottata dalla Polonia non era però censurabile dal punto di vista giuridico in quanto il quadro predisposto dalla Commissione nel 2014 non imponeva un ulteriore obbligo in capo agli Stati membri. D’altra parte, l’avvio di una procedura d’infrazione contro la Polonia per la violazione del principio di leale cooperazione ex articolo 4, paragrafo 3, TUE avrebbe semplicemente replicato quanto già avvenuto in Ungheria e non avrebbe permesso di affrontare direttamente le gravi violazioni ai valori fondanti dell’Unione.
A seguito della prima raccomandazione, ebbe inizio un complesso dialogo tra Bruxelles e Varsavia avente ad oggetto varie lettere tra la Commissione e il Governo polacco, molteplici visite del Vice-Presidente della Commissione Timmermans e l’adozione di ben quattro raccomandazioni da parte della Commissione.

Conseguentemente alla cattura del Tribunale costituzionale da parte di PiS, la Commissione, preferì ancora una volta alla c.d. arma nucleare, l’adozione di un’ulteriore raccomandazione. Quest’ultima, complementare alla precedente, oltre a ribadire le preoccupazioni già espresse ne aggiunse di nuove (tra cui risalta in particolar modo la nomina illegittima di un nuovo presidente del Tribunale costituzionale) ma, come ci si poteva attendere, la reazione di Varsavia conservò un tono di sfida, se non di aperta belligeranza. Questo ciclo proseguì con altre due raccomandazioni: la terza si estese alle riforme che interessarono il sistema giudiziario e l’ultima ribadì le obiezioni sino ad allora sollevate dall’Unione. In effetti, l’atteggiamento del Governo polacco si fece sempre più intransigente e lo Stato giunse ad accusare la Commissione di interferire con il processo legislativo interno, di non comprendere il significato sostanziale delle riforme adottate e di utilizzare un linguaggio da ultimatum. Questo trend fu però invertito con la quarta raccomandazione della Commissione alla quale la Polonia rispose in modo molto più conciso. Il cambiamento dell’atteggiamento della Polonia nei confronti dell’Unione fu probabilmente motivato dal fatto che l’ultima raccomandazione fu “emessa contestualmente alla proposta motivata presentata dalla Commissione a norma dell'articolo 7, paragrafo 1, TUE sullo Stato di diritto in Polonia”.

Il 20 dicembre 2017 fu la data in cui, per la prima volta in assoluto, la Commissione presentò al Consiglio una proposta motivata per la constatazione di un evidente rischio di violazione grave dei valori di cui all’articolo 2 TUE nei confronti della Polonia. Nella proposta, la Commissione ha rilevato che nell’arco di due anni la Polonia si era resa responsabile dell’adozione di una sequenza di tredici leggi in grado di incidere sull’intero apparato giudiziario. Tali modifiche, infatti, permisero al potere esecutivo e a quello legislativo di poter esercitare un’ingerenza considerevole e sistematica nella composizione, nei poteri, nell'amministrazione e nel funzionamento di tali organi e autorità. Per la Commissione l’effetto combinato di queste modifiche fu tale da mettere seriamente a rischio elementi essenziali dello stato di diritto come l’indipendenza della magistratura e la separazione dei poteri. Per di più, tali modifiche furono effettuate senza un’adeguata consultazione di tutti i portatori di interessi e nella totale inosservanza dei pareri di varie organizzazioni europee e internazionali e delle raccomandazioni trasmesse dall’Unione portando ad un costante peggioramento della situazione.
L’attivazione del meccanismo previsto dal primo paragrafo dell’articolo 7 TUE è stata accolta positivamente in letteratura, tra le posizioni entusiastiche si segnalano soprattutto quelle di Scheppele e Pech. Nello specifico, essi hanno affermato che la Commissione avrebbe dovuto agire in modo più tempestivo in quanto la Polonia non si trovava semplicemente in una situazione di evidente rischio di violazione grave. Avendo commesso molteplici violazioni ai principi fondanti dell’Unione, la Polonia, nel dicembre del 2017, era già pienamente entrata nel territorio dell’articolo 7, paragrafo 2, TUE. Essa non era, tuttavia, l’unico Stato membro a trovarsi in una simile situazione. Secondo le parole del giornalista Rachman, “The Hungarian government […] has gone even further than Poland in undermining the independence of the media and the courts, but has, so far, evaded censure”, ragione per la quale l’Unione sarebbe colpevole di utilizzare dei double standards.
Diversamente, nei confronti dell’Ungheria, le istituzioni dell’Unione dimostrarono una certa riluttanza nell’attivare il medesimo meccanismo, nonostante l’evidente discesa verso un regime semiautoritario. In effetti, nel dicembre 2015, la commissaria Jourová affermò davanti al Parlamento che le preoccupazioni per la situazione in Ungheria avrebbero potuto essere affrontate efficacemente attraverso il ricorso alla procedura d’infrazione e grazie all’intervento delle rule of law safeguards nazionali. Ma la resistenza della Commissione fu ancora più palese quando il Vice-Presidente Timmermans affermò che la situazione nello Stato magiaro non era nemmeno comparabile a quella presente in Polonia.
Per queste ragioni l’avvio del meccanismo disciplinato all’articolo 7, paragrafo 1, TUE nei confronti dell’Ungheria si ebbe molto più tardi, il 12 settembre 2018, grazie alla proposta avanzata dal Parlamento. Questo ha avuto un duplice impatto sulla situazione in Polonia. Da un lato, l’avvio del meccanismo nei confronti dell’Ungheria ha, in un certo senso, rafforzato la posizione della Commissione dato che in questo modo è stato possibile smentire l’accusa rivoltale di utilizzare dei double standards nella gestione delle due crisi. Dall’altro lato, però, la contemporanea attivazione dell’articolo 7 TUE nei confronti dei due Stati membri, ha portato ad un consolidamento dell’alleanza polacco-ungherese contraria all’interferenza dell’Unione. Di fatto, il premier ungherese, già nel gennaio 2016, dichiarò la propria volontà di “neutralizzare” l’articolo 7 TUE ponendo il proprio veto rispetto ad una sua eventuale attuazione nei confronti della Polonia. Pertanto, se il meccanismo sanzionatorio ex articolo 7 TUE fosse attivato contemporaneamente nei confronti di due o più Stati membri, un’alleanza tra questi potrebbe permettere di aggirare eventuali incongruenze rispetto ai valori fondamentali dell’Unione.

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La crisi dello stato di diritto nell'Unione europea tra carenze e nuove prospettive

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Informazioni tesi

  Autore: Diletta Bondi
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2019-20
  Università: Università degli Studi di Parma
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Scienze politiche e delle relazioni internazionali
  Relatore: Marco Inglese
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 119

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