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L’infanzia degna di "nota". Come avvicinare i bambini all'opera lirica: percorsi di mediazione sociale

Opera lirica: critica sociale o autorappresentazione?

Dopo avere constatato come la critica sociale e la critica estetica si implichino a vicenda, torniamo al discorso sull’opera lirica e cerchiamo di capire la forma che, all’interno di essa, assume ora il binomio artesocietà.
Adorno parla, in riferimento al proprio tempo, di una crisi dell’opera lirica [2002b, 87-88] e a confermarlo sarebbe il fatto che tra «la società attuale […] e l’opera stessa, si è formato una specie di fossato» [ivi, 99].
Cerchiamo allora di capire la complessità di questa forma musicale. Il melodramma, infatti, come sottolinea Antonio Serravezza, è un genere che ha sollecitato per ricchezza di contenuti e di elementi, quali ad esempio l’allestimento o la rappresentazione stessa che si carica di forte valore simbolico, l’attenzione della sociologia [Serravezza 1980, 32]. La stessa struttura narrativa, veicolando idee e concezioni di un’epoca, può apparire come il luogo in cui prende corpo «l’atteggiamento antirazionalistico e antirealistico che l’opera esige» [Adorno 2002b, 88], o al contrario come la sede in cui è possibile «riconoscersi nel rappresentato e identificarsi con esso» [Mahling 1971, 269]. Ma è proprio come «programma contenutistico» che
tanto l’autorappresentazione quanto la critica della società sono difficili se non sostanzialmente impossibili nell’opera lirica [ivi, 273].
Con questa affermazione Christoph-Hellmutt Mahling intende porre le distanze tra la sua visione dell’opera lirica e quella che intravede in essa una funzione di critica sociale. L’analisi non può che scaturire da un confronto con la prospettiva di Adorno. Delineando le ragioni che hanno portato alla crisi dell’opera lirica, Adorno chiarisce in quali termini questo genere si ponga come veicolo di una critica sociale. Quando sostiene che, in conseguenza della seconda guerra mondiale, la società che viene formandosi è «troppo livellata dal punto di vista ideologico» [Adorno 2002b, 98] per poter esibire alle masse il proprio privilegio culturale, Adorno lascia intendere che, al contrario,
nei teatri d’opera all’epoca del liberalismo avanzato nel secolo scorso […] una borghesia cosciente della sua forza poté a lungo festeggiarsi e prender gusto a se stessa.
Sulla scena dell’opera i simboli della sua potenza e della sua ascesa materiale si univano al rituale dell’idea evanescente, ma non borghese, della natura liberata [ibid.].

E ancora, che «il film» abbia battuto l’opera lirica nelle sue più grandi attrattive, quali a partire dal Seicento erano state le convenzioni estetiche, la spettacolarità imponente e i grandiosi allestimenti, significa ammettere che il pubblico non si lascia più incantare da ciò che precedentemente avveniva sul palcoscenico e cioè «l’esaltazione dell’individuo che si erge contro le catene dell’ordine» [ivi, 99]. Analizzando poi la composizione del pubblico della propria epoca che frequenta l’opera, Adorno sostiene che quest’ultima, pur risvegliando una sensazione di appartenenza al gruppo, genera un meccanismo di «vana identificazione » [ivi, 102]. Infatti poiché le élite sono divise da un lato in uno status intellettuale (professionisti, funzionari di alto grado e dirigenti) e dall’altro in una classe media (lavoratori in proprio, artigiani, commercianti, operai), l’opera risulterebbe frequentata da un’elite che non è tale [ivi, 102-103]. Se dunque il melodramma è divenuto un genere di intrattenimento per il ceto intermedio inferiore, gli strati intellettuali preferiscono il dramma parlato [ibid.]. Ecco perché
osservando la vita operistica ufficiale si può apprendere più sulla società che non su un genere d’arte che sopravvive a se stesso e che non supererà certamente il prossimo colpo [ibid.].
A cominciare dagli «antagonismi» che si palesano nel rapporto tra musica e società, la sociologia potrà, secondo Adorno, concentrarsi su un nesso finora trascurato, quello cioè dell’inadeguatezza esistente tra l’oggetto estetico e la sua ricezione [ivi, 104]. Partendo proprio da quest’ultima si chiariscono ulteriormente i motivi della crisi. Poiché l’opera «per stile, sostanza e atteggiamento non aveva più nulla a che vedere con coloro ai quali si rivolgeva» [ivi, 88], l’unico legame che resta, secondo Adorno, tra gli ascoltatori e lo spettacolo è il ricordo di «qualcosa di cui essi non possono più ricordarsi affatto, e cioè i leggendari tempi aurei della borghesia» [ivi, 100]. La ragione per la quale questo legame riesce a mantenersi in vita deve allora essere rintracciata nella popolarità che le singole melodie continuano a mantenere [ivi, 101], tanto che, a dispetto del deterioramento degli spettacoli operistici dovuti alle scelte sempre più ardue tra regie antiquate o troppo distanti dall’epoca rappresentata [ivi, 95], il consumo dell’opera si è ridotto al riconoscimento di passi noti [ivi, 101]. È l’evoluzione del «gusto compositivo avanzato» a provocare la crisi della rappresentabilità stessa delle opere [ivi, 95], e certo non giova a una loro “ripresa”, «l’autenticità» ricercata dalla produzione cinematografica, che tanto evidenzia, per contrasto, le «inverosimiglianze» tipiche invece dell’opera lirica [ivi, 88].

Questo brano è tratto dalla tesi:

L’infanzia degna di "nota". Come avvicinare i bambini all'opera lirica: percorsi di mediazione sociale

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Informazioni tesi

  Autore: Francesca Salvatorelli
  Tipo: Tesi di Laurea
  Anno: 2007-08
  Università: Università degli Studi di Roma La Sapienza
  Facoltà: Sociologia
  Corso: Sociologia
  Relatore: Federico Del Sordo
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 246

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