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La scintilla educativa. Riflessioni pedagogiche a partire dall'analisi del pensiero di Martin Buber

Per un'autentica apertura all'alterità

La relazione interpersonale è, per Martin Buber, costitutiva dell'esperienza umana. La concretezza dell'agire educativo ci porta però a dover riconsiderare, in modo più preciso, alcune implicazioni metodologiche del pensiero di questo filosofo. La relazione, in genere, non è certo esente, come abbiamo visto, da implicazioni negative: le influenze dell'autoritarismo (volontà di potenza), dall'asservimento (l'eros), dalla predestinazione dell'altro. Non ci si riferisce ad una situazione non attuale: oggi, infatti, si continuano a denunciare casi di emarginazione, di violenza, di maltrattamento.

Queste forme degenerative non vengono solo attuate nei confronti di chi ha una cultura diversa. La causa prima può essere, infatti, vista nel mancato riconoscimento dell'altro come un Tu; in altre parole nell'incapacità di dare valore alla presenza dell'altro. Proprio per questo, Buber si sofferma sulla necessità di considerare l'altro non come vicinanza fisica, ma come prossimità, che, per farsi autentica, deve essere attraversata da una concreta responsabilità verso il Tu, nel rispetto della sua unicità. Giuseppe Milan, attraverso l'analisi della dimensione del "tra", mette in risalto quegli atteggiamenti mediante i quali è possibile incontrarsi. L'educazione, per Milan, ha il compito di far incontrare le persone attraverso l'uso di un pensiero saggio. Gli atteggiamenti che propone non si stabiliscono in modo naturale, soprattutto in un contesto multiculturale. Sono infatti gli educatori che, in primo luogo, mediante un agire intenzionale, devono praticare queste modalità relazionali.

Solo attraverso una paziente azione pedagogica è possibile promuovere una più diffusa cultura dell'incontro autentico. Gli atteggiamenti che prende in considerazione sono quelli dell'autenticità, dell'empatia, della lotta, della conferma. Prima, tuttavia, di analizzare le definizioni di tali posture educative, è necessario soffermarsi sulla fase inziale dell'incontro: il contatto. In questo primo momento, che possiamo definire aurorale, i sensi vengono chiamati in causa: non si tratta soltanto della vicinanza epidermica, ma soprattutto dell'azione dello sguardo, dell'ascolto, dell'atteggiamento posturale. Il contatto mette, cioè, in luce gli aspetti della disponibilità globale verso l'altro o, al contrario, quelli di una chiusura totale. In particolare, nell'incontro con lo straniero, è importante porre massima attenzione a questa prima fase della comunicazione: è proprio in questo momento che, a volte, si lasciano passare quei segnali impercettibili del pregiudizio, della chiusura, della paura.

Le molteplici strategie comunicative, come ad esempio il controllo dell'emotività o l'esercizio di abilità interpersonali, possono sicuramente aiutarci a disporci adeguatamente nella prima fase dell'incontro. Tuttavia, l'incontro autentico si fonda su altre radici, su quelle etico-morali: è necessaria, infatti, una personale conversione rispetto la concezione dell'altro. La componente etico-morale ci permette di fondare i nostri atteggiamenti su principi filosofici-antropologici, come quelli ad esempio che riguardano il principio dialogico Io-Tu. La dimensione autentica della relazione interpersonale implica che l'altro possa trovare in essa un vero spazio identitario: affinché questo accada, dobbiamo prima rispondere, nelle parole di Martin Buber, alla profonda domanda identitaria: "io chi sono?".

Per Giuseppe Milan, il primo atteggiamento per fondare la base di ogni relazione interculturale e interpersonale è infatti la sincerità: «le identità impallidite, nascoste o rifiutate, spesso per assumere configurazioni gregarie, artificiose, stereotipate e mass-mediali, possono facilitare un mercato massificante e impersonale, ma sicuramente non facilitano gli incontri creativi e arricchenti cui alludiamo nel pensare all'interculturalità». Un altro atteggiamento necessario alla fase preliminare di ogni relazione è l'accettazione: in Buber, abbiamo visto come questa passi necessariamente da un decentramento; in altre parole per il filosofo bisogna apprezzare la distanza che separa e lega allo stesso tempo. Inoltre la disponibilità ad accettare permette di avvertire come unica la propria identità e riconoscersi come soggetto attivo della relazione. Milan, a proposito, di questo atteggiamento, riprende la riflessione sull'accettazione incondizionata dello psicoterapeuta Carl Rogers: l'accettazione, nella prospettiva rogersiana «comporta non solo l'astensione dall'esprimere valutazioni moralistiche, divieti, condanne di fronte alle sue dichiarazioni e ammissioni, ma anche che l'intervento del terapeuta deve limitarsi a riprendere e sottolineare (riformulazioni) quanto il cliente ha già espresso verbalmente e che, proprio per questo, è già in grado di affrontare senza difese».

In ambito terapeutico, Carl Rogers, applica un metodo "centrato-sul cliente", non direttivo. Ogni aspetto della comunicazione, in questo caso, deve poter esprimere accettazione: il tono della voce, la postura. Non può sfuggire l'evidente parallelismo che lega la relazione rogersiana a quella educativa proposta da Martin Buber: entrambe negano la costruzione di un'immagine ideale del soggetto; accettare l'altro vuol dire accoglierlo senza riserve, aiutandolo ad individuare il proprio percorso esistenziale. Oltre all'accettazione del tu, bisogna comprendere ancora più dal profondo l'irripetibilità e l'unicità del soggetto. Martin Buber affronta e interpreta la comprensione in chiave pedagogica: nell'interpretare l'altro è necessario costruire un ponte, che il filosofo chiama fantasia reale. Questa, come spiegato nel capitolo precedente, consiste nel percepire il "reale" dell'altro ( la realtà concreta del Tu, personale e culturale), e allo stesso tempo esperire l'altro custodendo ciò che è così profondo da poter essere solo pensato ("fantasia"). Si tratta cioè di accedere ad un mondo personale e culturale che, se pur ancora sommerso, vuole "rendersi presente"; di cogliere, in altre parole, gli aspetti impliciti e le potenzialità nascoste della realtà di chi incontriamo, senza però tradire la realtà dell'oggi. Per Milan, la fantasia reale è pensata come uno dei presupposti dell'orizzonte interculturale. «La costruzione dei suddetti ponti, capaci di collegare aspetti, tempi, persone, età, culture, mondi diversi, nel suggestivo gioco tra realtà e fantasia, tra adesione al dato e spinta all'utopia, è particolarmente urgente e impegnativa nell'ambito interculturale e della migrazione in genere, al quale appartengono persone per le quali "il passaggio" è un modo di essere, nel quale tuttavia non devono perdersi ma ritrovare se stessi».

L' Empatia o, in termini buberiani, la fantasia reale, è uno degli atteggiamenti che può configurarsi come approdo sicuro per coloro che, nel mezzo di un itinerario difficile da percorrere, si trovano spesso ad incorrere nel rischio di un naufragio. La comprensione empatica imprime infatti una certa profondità all'incontro: coglie gli aspetti più profondi dell'identità dell'altro. Questo atteggiamento non è, tuttavia, sufficiente affinché la relazione interpersonale possa configurarsi come soddisfacente e concreta. Il passo ulteriore è la lotta. Per Martin Buber parlare di lotta vuol dire evocare le immagini dell'impegno, della fatica, delle sconfitte e delle vittorie. E' un concetto che non vuole rimandare all'azione distruttiva di un incontro, ma al suo carattere complesso e dinamico. Inoltre, per il filosofo, lottare con l'altro vuol dire esortarlo ad un cambiamento costruttivo; proprio per questo possiamo dire che l'atteggiamento della conferma passa, in un certo senso, attraverso l'atteggiamento della lotta. Nella relazione interpersonale "lottare con l'altro" vuol dire trascendere i limiti dell'autoespressione per dar vita alla vera creatività.

Tuttavia, per Milan, parlare di lotta in termini interculturali risulta particolarmente rischioso in quanto spesso tale concetto può introdurre modalità incoerenti rispetto al significato più profondo di Buber. Tuttavia bisogna correre questo rischio «avendo in tanti modi evidenziato che la relazione Io-Tu si configura come dinamica intensa, feconda, capace di vero e continuo cambiamento- assomigliando ad una vera e propria "lotta"-, ma che essa è negazione decisa di qualsiasi forme, implicita o esplicita, di abuso, sopraffazione, violenza». Gli atteggiamenti finora elencati contribuiscono a confermare l'altro nella sua originalità e unicità. Martin Buber vede nella conferma l'atteggiamento sintesi, cioè quel sunto di tutte le modalità relazionali. Confermare l'altro vuol dire accoglierlo e accettarlo incondizionatamente. L'uomo per Buber ha, per sua natura, bisogno di un sì gratuito. Chi si trova in una situazione di disagio, in particolare, necessita di un sì che possa nuovamente riconoscere, sollecitare, valorizzare. Ciascun individuo, infatti, desidera affrancarsi dall'angoscia dell'indifferenza e, ancor di più, necessita sentirsi dire "Tu esisti e sei importante per me".

Milan analizza l'atteggiamento della conferma riprendendo degli studi in ambito psicoterapeutico: la conferma è quel fattore che garantisce una certa stabilità mentale nel singolo, favorendone lo sviluppo. Tuttavia, l'autore sostiene che questo atteggiamento sia molto difficile da attuare, sia in ambito educativo che interculturale in quanto risulta problematico rendersi veramente presenti. In particolare fa rifendo al disagio esistenziale dei giovani che sembrano invocare l'atteggiamento di conferma da parte degli adulti. L'autore, riprendendo le affermazioni di Mario Pollo, cerca di dare un quadro più specifico di cosa significhi confermare e consegnare l'identità a chi spesso è senza un nome:
Una persona divisa, frammentata e incoerente che non riesce a trovare un centro in cui far gravitare la fatica e il senso dei suoi giorni, delle sue ore e dei suoi attimi non conosce il proprio nome, ma solo quella della sofferenza e dell'ottundimento […]. Aiutarla a costruire la propria identità personale significa aiutarla non solo a differenziarsi, a costruire il proprio Io, ma anche a scoprire il suo nome segreto che è alle porte del senso unico e irripetibile della sua vita […]. Trovare il proprio nome, ovvero il senso della propria singolarità, svolge la funzione di riduttore della complessità da un lato e dell'altro di processo di formazione di una persona in grado di affrontare i rischi della vita individuale e sociale senza mettere in crisi il proprio progetto di vita personale».

Per chiudere il percorso che porta ad una crescente apertura all'alterità, non si può non approdare alla fiducia: per Buber essa è quell'atteggiamento che porta l'altro a sentirsi sicuro; il Tu con cui ci si relaziona non è più fonte di timori, ma diventa accompagnatore e guida verso il percorso esistenziale di ognuno. La fiducia, poi, apre la strada alla reciprocità che, come abbiamo affermato, costituisce la linfa vitale del rapporto Io-Tu. L'incontro, inoltre, per dirsi pienamente compiuto deve permettere un "venire alla luce", cioè un liberarsi dell'altro da qualcosa che gli impedisce di realizzare pienamente la sua umanità. A questo proposito, Buber sottolinea l'importanza del dialogo che, mediante un'azione liberante, permette di attivare processi di pensiero: grazie alla guida di domande che possano indicare la strada, l'individuo è sollecitato alla riflessione e alla ricerca. Se si sposta lo sguardo all'attualità, si possono cogliere varie modalità dialogiche che permettono di non tenere distanti la vita con le pratiche del lavoro di cura, dell'altro, di sé e del mondo.

Questo brano è tratto dalla tesi:

La scintilla educativa. Riflessioni pedagogiche a partire dall'analisi del pensiero di Martin Buber

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Informazioni tesi

  Autore: Martina Spataro
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2019-20
  Università: Università degli Studi di Torino
  Facoltà: Scienze dell'Educazione
  Corso: Filosofia
  Relatore: Federico Zamengo
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 69

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