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L’INTELLETTUALE SALARIATO - Un’analisi di Lettore di casa editrice di Giuseppe Pontiggia

Pontiggia e i classici come contemporanei del futuro

Fin dall’infanzia e durante la giovinezza, negli anni della maturità e per tutta la vita, Pontiggia legge e studia i classici. Un’esperienza che, come racconta lui stesso, risulta particolarmente decisiva nel mantenere un atteggiamento di riserva nei confronti di quella Neoavanguardia - sorta in seno alla redazione de «Il Verri» - di cui pure faceva parte, seppure una parte «critica e isolata». In questo periodo infatti, la lettura dei tragici greci - per esempio - diventa un’occasione fondamentale per recuperare la potenza delle parole, l’importanza del linguaggio all’interno di una rivoluzione culturale che cercava, al contrario, di rinnovare radicalmente le forme narrative e le strutture della tradizione. I classici sono quindi uno strumento essenziale per comprendere meglio sia il ruolo della letteratura, sia i limiti di una sperimentazione rivolta principalmente verso la distruzione del vecchio sistema letterario; un’operazione che, comunque, in gran parte condivideva, individuando tuttavia in certe opere del passato non un canone opprimente di testi portatori di convenzioni obsolete, ma «depositi di significati anche potenziali, miniere di possibilità speculative e fantastiche che vanno al di là della condizione storica».
Questa formazione intellettuale, che spazia dai classici della sapienza orientale a quelli latini e greci sino alla vigorosa narrazione di Freud sull’inconscio, ha ispirato le riflessioni che, dalla fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ’90, sono uscite in forma di recensione su «Panorama» e «Il Corriere della Sera», confluendo poi, insieme ad un saggio che esplora l’etimologia di “classico”, ne I contemporanei del futuro. Viaggio nei classici (1998). Dedola definisce la raccolta «di fulminanti giudizi critici, argute impennate polemiche» come «un viaggio nel passato, ma attraverso una visione del tutto nuova e straordinariamente moderna della classicità da cui ricavare un insegnamento di fondo sui valori che i classici possono ancora trasmettere, un’avventura da condividere con il lettore, ricca di divertimento, di meditazione, di esperienze psicologiche e di acquisizioni spirituali»; mentre Giovanni Sias sottolinea che «visitati e osservati così, attraverso uno sguardo gioioso e giocoso, i classici ci offrono angolazioni non ancora considerate, sapienze ancora da intendere, conoscenze tuttora inesplorate».
Ad ogni modo, quanto detto finora non chiarisce il significato che assume oggi il termine “classico”. Se Calvino prova a stilare una lista di indizi e di esempi utili a circoscrivere un’opera “classica” e ad apprezzarla, Pontiggia risponde con un’analisi etimologica che culmina con l’ammissione dell’inadeguatezza di qualsivoglia tentativo di fornire una descrizione esaustiva. Riprendendo l’affermazione di un illustre studioso di estetica, personaggio di un racconto di Landolfi, potremmo concludere dichiarando: «L’arte che cosa è tutti lo sanno», una definizione – applicabile anche ai classici – che evidenzia bene la sterilità di certe indagini. Non ha importanza, infatti, stabilire che cosa sia un “classico”, più interessante è scoprire in cosa consista la sua inesauribile ricchezza.

Fino a pochi decenni fa, la classicità era ancora intesa come un canone di opere scritte da “geni morti” con i quali era necessario fare i conti per innalzarsi, come ricorda la fortunata metafora, sulle spalle dei giganti. Oggi, dopo una fase di resistenza antitradizionalista, coincidente perlopiù con gli anni delle Avanguardie, nei confronti di questi testi vige una profonda indifferenza. Certo, se gli ambienti culturali ne considerano ancora la lezione, anche se non di rado svuotandola filologicamente di senso, mentre per i boicottatori rifiutarne la lettura assume ancora un significato identitario, in generale: Per la prima volta non si lotta più con il passato, lo si ignora. Al culto degli antichi o alla loro esecrazione è subentrata l’indifferenza o una curiosità intermittente e fuorviante.

Partendo da questo mutato orizzonte, Pontiggia ci invita a riscoprire la potenza dei classici senza pregiudizi e con attenzione, esortandoci ad affrontare il testo direttamente, con curiosità e giudizio critico, affinché «la lettura del testo sia sempre l’evento più importante del nostro rapporto con i classici» e ci permetta di percepire quei «contenuti sapienziali che vanno al di là del controllo dell’autore: un testo vivo, un testo felice, ne sa più di chi l’ha scritto». A questo proposito ci incita, inoltre, a prendere coscienza di una “fisiologia della lettura”:
Tutti quelli che leggono aderiscono o non aderiscono, il problema è di acquistare coscienza di queste intermittenze dell’adesione. La sentenza capitale viene pronunciata nel momento in cui noi perdiamo interesse per ciò che leggiamo. […] La catastrofe pedagogica è la noia, quando si manifesta si è già perso il contatto. Con i classici bisognerebbe stimolare una lettura attiva, come se il testo paradossalmente ci venisse proposto in lettura per un giudizio. Questo già accade, ma inconsapevolmente; noi emettiamo continuamente giudizi silenziosi. Occorrerebbe incentivare una forte reattività di fronte al testo come se fossimo i primi a leggerlo e a valutarlo. Capisco che tutto questo può apparire arbitrario e discriminatorio, ma noi leggiamo in questo modo arbitrario e discriminatorio.
Spesso si dibatte sull’attualità di un classico, sulla sua capacità di risultare sempre presente, concordando infine sulla sua modernità. Tuttavia, questa asserzione – come la tesi opposta, quella dell’inattualità – è altrettanto parziale. Un testo classico si situa inevitabilmente in un periodo storico passato: sia con l’Antica Roma che con l’Ottocento francese, si instaura una distanza temporale e culturale che non è possibile eludere, né ha senso acutizzare.
Questa distanza noi non dobbiamo cercare di sopprimerla con la facilità di divulgatori. La mediazione divulgativa ci allontana: noi immaginiamo che il senato romano sia il nostro parlamento, no, è un’altra cosa, noi dobbiamo capire che cos’era nella sua analogia quanto nella sua diversità. […] D’altra parte è anche pericoloso il filologismo, perché la mediazione filologica rischia di sovrapporsi a quello che è il momento essenziale, il contatto con il testo.
La soluzione coincide con una sintesi tra le due istanze, soppressione e allontanamento filologico, in grado di sviluppare una coscienza della distanza che possa «avvicinare il classico e insieme conservarlo nella sua lontananza». Questa “fusione” è l’unico atteggiamento capace di «accrescere e intensificare, come tra due persone, la vitalità di un rapporto».
Il saggio che introduce I contemporanei del futuro si chiude con una premessa che riassume, in una provocazione, il pensiero originale di un autore che, lungi dall’indottrinarci, ci esorta alla fiducia:
La contemporaneità non esiste. […] Che i classici siano nostri contemporanei è un conforto idealistico e una menzogna pubblicitaria. […] L’esperienza dei classici ci dice il contrario. Non sono nostri contemporanei, siamo noi che lo diventiamo di loro. Dimenticarli in nome del futuro sarebbe il fraintendimento più grande. Perché i classici sono la riserva del futuro.

Questo brano è tratto dalla tesi:

L’INTELLETTUALE SALARIATO - Un’analisi di Lettore di casa editrice di Giuseppe Pontiggia

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Informazioni tesi

  Autore: Niccolò Cazzola
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2017-18
  Università: Università degli Studi di Milano
  Facoltà: Scienze Umanistiche
  Corso: Lettere
  Relatore: Elisa Ludovica Gambaro
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 62

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