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Trieste, delineare un'identità. Aspetti della letteratura tra il confine e la legge 180

Trieste, letteratura, linguaggio ed identità

Esaurire Trieste con le solite e inflazionate affermazioni come “crogiolo di popoli”, “città multietnica”, non fa altro che chiudere la possibilità di vedere una città narrabile e rinarrabile in un’intricata matassa che la rappresenta; Trieste è città letteraria, commerciale con il suo porto e la componente concreta della sua borghesia economica, ma se ci spostiamo di poco abbiamo la città imperiale, e ancora il carso alle nostre spalle, una città ebrea, slovena, croata, mitteleuropea e italiana.
E’ difficile appartenere, a Trieste vuol dire sentirsi perennemente stranieri, è un’identità fluida che afferriamo nell’arte e soprattutto nella sua letteratura, ossia nel momento in cui ci si libera da una sterile descrizione.
La storia qui è l’attore protagonista, è la rete che tiene uniti tutti i nodi fondamentali di quella che andremo a definire la letteratura triestina del ventesimo secolo; per questo motivo è stata messa una cronologia nel profilo introduttivo, che per quanto sintetica può aiutarci a tenere costantemente accesa la luce su tutti gli eventi che hanno modellato e scalfito la città durante questi ultimi 100 anni.
La letteratura triestina si è ritrovata nel corso del’900 a sciogliere e diramare molti nodi, ed il punto fermo è stato quello di difendere quell’identità incerta che la storia ha continuamente minacciato.
Il percorso del’900 ha continuamente riaggiustato la linea del confine geopolitico, partendo nel 1919 con l’esclusione di Fiume e attuando nel periodo fascista un’espansione nei Balcani che piegherà il futuro di Trieste tra violenza e rivendicazioni; I mutamenti di confine continuano con la linea Morgan nel 1945, che divide in due e mantiene il futuro nell’incertezza fino al 1948. In questo periodo inizia l’esodo della popolazione istriana che maggiormente si riversa su Trieste, nuovamente il senso di isolamento è forte, la riflessione sull’identità profonda ed intensa, il linguaggio materno viene estirpato, dimenticato: è un nuovo aggiustamento di confine, un nuovo esodo, una nuova linea su ciò che era jugoslavo e ciò che era italiano. Trieste dovrà attendere il 1975 per la conferma definitiva dei suoi confini, e tutta la storia entrerà sottopelle alla popolazione, agli artisti. La letteratura triestina infatti insiste sulla propria identità, sulla sensazione dell’essere marginali, sul confine, per difendersi da questi attacchi: Katia Pizzi ci dirà che Trieste viene percepita come estensione dell’io autore. Questa città è una continuità con il mondo tedesco e slavo, attaccare l’identità non è solo spostare i suoi confini: nel 1923 la riforma Gentile chiude forzatamente le scuole slovene e croate, c’è solo la lingua italiana, che per molti però non è la lingua materna.
Il problema del connubio tra lingua e identità accompagnerà Trieste per moltissimi anni, le lingue qui si mischiano, si accavallano, si intrecciano giocando nei dialetti locali, nascono lingue ibridate dall’italiano, dallo sloveno, dal tedesco. E così la frontiera, ci ricorda Magris, assume altre valenze, non sa più collegare, sa essere solo muro: «La frontiera è duplice, ambigua; talora è un ponte per incontrare l’altro, talora una barriera per respingerlo. Spesso è l’ossessione di situare qualcuno o qualcosa dall’altra parte.»
La storia traccia in questi luoghi negazioni, identità cancellate, ritorsioni, credendo di affermare uno stato piuttosto dell’altro: non è il problema identitario di un bilingue (che in fondo non sussiste), il problema è proprio aver cercato di cancellare quella parte “altra” che ha sempre disegnato i lineamenti di Trieste. Il passato ci ha insegnato che se si impone la lingua del gruppo etnico più influente lo stato tende a non sopravvivere o a portarsi dietro un’instabilità a lungo termine. La lingua ha due funzioni fondamentali infatti, di comunicazione e di identità; e la lingua come identità è un mondo in continua evoluzione, un ente “tridimensionale” scrive Francesca Dragotto, e va sempre considerata in questa prospettiva se non si vuole rischiare di non comprendere i legami con l’identità culturale di un popolo.
Il legame tra madrelingua e appartenenza nazionale è ormai messo in discussione e riscritto dagli scrittori migranti o esiliaci, dalla mobilità, dalla frammentazione, tutte caratteristiche che ritroviamo nella realtà triestina: in quest’area infatti le mescolanze etnico-linguistiche hanno messo in discussione il senso di appartenenza nel corso del vissuto storico del ventesimo secolo.
Parlando di appartenenza e incertezza Magris scrive: «Identità sembra esistere nel dubbio di sé stessa; appena diviene oggetto di riflessione o addirittura appena viene affermata, vacilla».
Molti scrittori dell’area come Tomizza si trovarono tra la cultura istro-veneta e quella slovena-croata: l’ibridismo è forte, l’identità linguistica entra prepotente negli scritti aprendo dinamiche di contaminazione, accavallamento, scontro, esclusione. Lo stesso accade per gli scrittori di Trieste dei primi decenni del ‘900, abituati a studiare il tedesco e a non sentire l’italiano come lingua madre, bensì il dialetto. Troviamo infatti forte in Italo Svevo il dualismo fra lingua nazionale e dialetto: è uno scrittore culturalmente italiano, nato però in quella che possiamo definire una sorta di periferia, e fa parte di una borghesia che si esprime spesso in tedesco. Si trova quindi nella necessità di “doppiare” i suoi personaggi, che come lui e come tutti i triestini si esprimono in dialetto. Il suo italiano è rigido, porta in sé errori di sintassi, è preciso e a tratti sembra la traduzione da una lingua straniera. Ne “La coscienza di Zeno” trapela la diglossia che appartiene a tutta la comunità italiana nella Trieste della prima metà del ‘900: c’è uno strato dialettale, nel romanzo, che si muove e che riusciamo a percepire sotto la superficie italiana. Zeno ci rende partecipi di questa base dialettale, visto che controlla in prima persona lo spazio narrativo; ci dice infatti di tradurre interi personaggi, come ad esempio l’infermiera Giovanna, e spesso Zeno ci ricorda di parlare un italiano approssimativo, quello che molti triestini cercano di parlare quando costretti a mettere da parte il dialetto.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Trieste, delineare un'identità. Aspetti della letteratura tra il confine e la legge 180

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Informazioni tesi

  Autore: Claudia Bellini
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2020-21
  Università: Università Telematica Internazionale Uninettuno
  Facoltà: Scienze della Comunicazione
  Corso: Scienze della comunicazione
  Relatore: Nora Moll
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 66

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