5 
della società, avrebbe tutte le potenzialità per riprendere e innovare le teorie e le pratiche 
che fin dal passato hanno caratterizzato la scena artistica, almeno quella occidentale. L’arte 
come promozione dell’espressione creativa e di emancipazione delle persone, che si 
contrappone invece all’arte al servizio del potere
1
. 
Non è un caso probabilmente che il cosiddetto teatro sociale stia vivendo in questo 
periodo storico un momento di grande vitalità. Nell’attuale sistema globalizzato di 
comunicazione, in cui i confini ed i ruoli di ogni disciplina sono sempre meno definiti, 
anche il teatro deve affermare con chiarezza il suo ruolo. Un ruolo che non può prescindere 
dal legame forte ed indispensabile che il teatro stesso intrattiene con l’apparato sociale. 
Se da un lato, però, questo legame spiega in qualche modo la ragione per cui il teatro 
non può evitare di interessarsi delle problematiche sociali, rimangono altre questioni da 
chiarire. Perché questo bisogno di mettere in scena non solo i disagi ma anche gli stessi 
emarginati? L’emarginato “serve” in qualche modo alla riuscita dello spettacolo? Ed 
inoltre, cosa c’è dietro? Sempre e soltanto una pura volontà d’arte o in qualche modo i 
teatranti, e soprattutto le istituzioni coinvolte, possono essere spinti anche dalla volontà di 
fare un’operazione d’immagine? 
In questo lavoro cercheremo di dare risposta a questi interrogativi, analizzando la 
comunicazione teatrale che ha come scenario il carcere. È importante sottolineare che il 
teatro sociale, pur non condividendo le forme del teatro istituzionale, deve definire una 
precisa metodologia di lavoro, individuando le specifiche competenze professionali degli 
artisti e dei conduttori dei laboratori ed escludendo del tutto quei progetti che siano 
un’operazione d’immagine o di prestigio per le istituzioni committenti. Partendo dal 
presupposto che il teatro vive e si nutre principalmente di contributi pubblici, uno dei rischi 
principali è, infatti, che si assista ad un proliferare di spettacoli e di progetti relativi 
all’ambito sociale, condotti però da artisti completamente impreparati per questo settore, 
che adottano metodologie non meditate o inefficaci per le finalità dell’attività stessa. Il 
teatro sociale, così come il teatro d’arte, deve essere condotto da operatori, attori, registi 
seriamente preparati ad affrontare questo tipo di lavoro per evitare che questa attività risulti 
non solo inutile, ma addirittura dannosa. 
Proprio analizzando le varie metodologie professionali sulle quali si può fondare 
l’attività teatrale in carcere, abbiamo osservato che alcune di queste tecniche sono molto 
vicine all’approccio clinico ed utilizzano il mezzo teatrale come strumento terapeutico; 
                                                
1
 BERNARDI C. (2004), Il teatro sociale: l'arte tra disagio e cura, Carocci, Roma.  
 6 
altre tecniche tendono ad occuparsi dei gruppi, delle comunità e di quei comportamenti 
sociali che attraverso il teatro possono essere cambiati, portando ad un miglioramento delle 
condizioni di vita del gruppo stesso e delle capacità di socializzazione dei singoli; altre 
ancora, infine, prestano attenzione alla persona e a riattivare o migliorare le sue possibilità 
di autoespressione. Come vedremo più ampiamente nel corso del presente lavoro, queste 
tre metodologie si affiancano e vanno di pari passo con le tre tipologie di aspettative che si 
attendono all’interno di una comunicazione e quindi anche all’interno della comunicazione 
teatrale:  
 
aspettative normative quando ci si attende che le aspettative generalizzate 
rimangano stabili nella società; aspettative cognitive, quando ci si aspetta che vi 
sia un cambiamento rispetto alle aspettative generalizzate; aspettative affettive 
quando ci si attende che le aspettative specifiche (non generalizzate) siano 
espresse, cioè ci si aspetta come risultato della comunicazione l’autoespressione da 
parte dei partecipanti, anziché l’espressione di aspettative generalizzate all’interno 
della società
2
.  
 
Percorrendo queste tre linee ed analizzando allo stesso tempo le diverse metodologie  di 
lavoro utilizzate in carcere, è possibile individuare a grandi linee tre tipologie d’intervento. 
Ogni tecnica potrà, infatti, essere messa in relazione con le aspettative che ci attendiamo 
dall’utilizzo della tecnica stessa ed in base a queste definiremo quindi diverse linee 
d’intervento: quelle che definiremo metodologie ispirate ad aspettative normative, 
descrivono le tecniche che intervengono sull’individuo, ma in particolar modo sulla sua 
capacità di adeguamento alle norme del sistema sociale, come il Teatro dell’Oppresso; 
quelle che definiremo metodologie ispirate ad aspettative cognitive, sono le metodologie 
orientate al cambiamento e all’apprendimento e racchiudono, dunque, quelle tecniche che 
si pongono come obiettivo principale un cambiamento sull’individuo, poiché mirano ad 
insegnargli qualcosa e a forgiare le personalità individuali, come nel caso della 
Drammaterapia e dello Psicodramma; quelle che, infine, definiremo nel presente lavoro 
come metodologie ispirate ad aspettative affettive descrivono tecniche più vicine 
all’ambito teatrale, come il laboratorio teatrale, che vedono nell’autoespressone della 
persona un momento essenziale. Sono aspettative, infatti, sensibili alle condizioni 
                                                
2
 BARALDI C. (2003), op. cit., p. 30. 
 7 
contingenti, per le quali viene attesa la conferma come forma di conforto. Si tratta di 
aspettative non generalizzabili, a differenza delle aspettative normative, perché 
riconoscono l’unicità e la specificità degli interlocutori e creano imprevedibilità sociale. In 
questo senso, le aspettative affettive sono cognitivamente irrazionali e normativamente 
devianti, poiché non fissano criteri generali per trattare i risultati deludenti della 
comunicazione ma prestano attenzione alla specificità dell’individuo, di qualunque tipo 
essa sia. 
Il teatro in carcere può essere, infatti, un importante strumento nelle mani dei detenuti. 
Il teatro è una forma d’arte che nasce dalla libera espressione dell’uomo e dalla 
estrinsecazione del sé e che in questo contesto si trova a confrontarsi con l’istituzione 
carceraria, un ambiente estremamente chiuso, barricato, estraneo alla città, dove il detenuto 
è costretto a rinunciare alla gestione autonoma della propria vita, del proprio tempo, dei 
propri desideri. La condizione esistenziale del detenuto è, dunque, una condizione alienata, 
che difficilmente ha modo di aprirsi al dialogo e spesso anzi è costretta a chiudersi 
nell’incomunicabilità. Il teatro in carcere scardina questo meccanismo. 
Nonostante ciò, in realtà, esiste un notevole problema, ossia il ritorno alla reclusione 
dopo ogni laboratorio oppure dopo ogni spettacolo, nei casi di vere e proprie compagnie 
teatrali. In questa fase bisogna prendersi cura di ogni singola persona, facendo attenzione 
che il detenuto non si abitui troppo a vivere questa esperienza solo come scoperta degli 
altri ma soprattutto come occasione per se stessi. Se consideriamo, infatti, che il tempo 
profuso dagli attori-detenuti per la rappresentazione degli spettacoli viene generalmente 
“detratto” dall’utilizzo dei permessi premio personali di cui questi dispongono quando 
giungono nei termini per ritornare a casa e dalle loro famiglie, comprendiamo anche che 
genere di investimento possa rappresentare questa attività per loro. 
Il carcere cancella l’identità culturale delle persone detenute mentre il teatro interviene 
fortemente e agisce sui carcerati attraverso la memoria e il dialogo, che sono i suoi 
presupposti fondamentali. Per approfondire meglio come il carcere agisca 
sull’individualità di chi ne entra a far parte, ad un certo punto della propria vita, è utile 
esaminare le teorie di Michel Foucault riguardo la costituzione del soggetto e la funzione 
del carcere nell’età moderna, esplicitate nel suo testo fondamentale, Sorvegliare e punire: 
nascita della prigione
3
. Per Foucault quello che porta alla nascita del carcere è 
un’operazione che egli definisce di partage, cioè di separazione: nell’Ottocento, per 
                                                
3
 A questo proposito si vedano: FOUCAULT M. (1961), Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano; 
ID. (1975), Sorvegliare e punire: nascita della prigione, Einaudi, Torino. 
 8 
arginare la criminalità, questa operazione separa i cittadini per bene dai criminali e per 
marcare questo confine vengono istituite le carceri, dove vengono appunto isolati i 
delinquenti. Il carcere nasce dunque come luogo di isolamento. In realtà, sostiene sempre 
Foucault
4
, il carcere non ha niente a che vedere con la funzione sociale e di recupero che 
gli si vuole attribuire, anzi, al contrario è una vera e propria fabbrica di delinquenza che 
non è capace di combattere il crimine ma, al contrario, lo incrementa. Ma questo ha poca 
importanza perché comunque il cittadino per bene si sente sicuro grazie a questa divisione 
sociale che è stata fatta tra gli onesti ed i disonesti. 
 
Nell’analisi di un’istituzione bisogna distinguere varie cose. In primo luogo quella 
che si potrebbe chiamare la sua razionalità o il suo fine, cioè gli obiettivi che si 
prefigge e i mezzi di cui dispone per raggiungere questi obiettivi: in definitiva, il 
programma dell’istituzione così come è stato definito. In secondo luogo, gli effetti. 
Solo molto raramente gli effetti coincidono con il fine: così, l’obiettivo del carcere-
correzione, il carcere come strumento di riparazione all’errore commesso 
dall’individuo, non è stato raggiunto. L’effetto è stato invece contrario e la 
prigione ha piuttosto rinnovato i comportamenti di delinquenza. Quando l’effetto 
non coincide con il fine, si hanno parecchie possibilità: o si attua una riforma o si 
utilizzano questi effetti per un qualcosa che non era stato previsto all’inizio ma che 
può benissimo avere un senso e un’utilità. Questo qualcosa potremmo chiamarlo 
l’uso: così la prigione che non ha avuto effetti correttivi, è invece servita come 
meccanismo di eliminazione. Il quarto livello di analisi è costituito da quelle che 
potremmo definire configurazioni strategiche: a partire da questi usi in un certo 
senso imprevisti, nuovi ma nonostante tutto, fino ad un certo grado volontari, si 
possono costruire nuove condotte razionali, diverse da quelle del programma 
iniziale, ma che rispondono pur esse a degli obiettivi e nell’ambito delle quali 
possono collocarsi i giochi tra i diversi gruppi sociali
5
. 
 
Su questa base teorica è possibile affermare che la detenzione, così com’è concepita 
dall’Ottocento fino ai giorni nostri, non è uno strumento in grado di “riabilitare” i carcerati, 
ma è una forma, un nuovo potere tecnologico che come molte altre, tipo gli ospedali, le 
                                                
4
 Cfr. FOUCAULT M. (1975), op. cit. 
5
 Si veda l’intervista fatta da Foulek Ringelheim a Michel Foucault nel 1990, tratta dal sito internet 
http://www.ecn.org/filiarmonici/foucault.html 
 9 
scuole e le caserme
6
, viene utilizzata dalle “discipline”.  
L’attore in quanto artista produce un’energia tale che la pratica teatrale lo aiuta a non 
cedere all’alienazione della vita carceraria; in questo senso agiscono sia i laboratori che le 
attività sceniche le quali contribuiscono ad un notevole rafforzamento della persona e ad 
un arricchimento di risorse fisiche e mentali. Perché il teatro è fondato sulla possibilità di 
esprimersi sia mentalmente che fisicamente: l’attività mentale stimola il pensiero e rende 
manifesta l’interiorità, la sfera emotiva, mentre l’attività fisica coinvolge il corpo 
rendendolo libero di esprimersi attraverso il gesto e di relazionarsi continuamente con gli 
altri. 
A questo punto la teoria di Foucault s’incrocia con la riflessione di Armando Punzo, 
uno dei primi registi in Italia a credere e a portare avanti l’esercizio teatrale in carcere, e a 
creare una compagnia teatrale stabile, la Compagnia della Fortezza che opera nel carcere di 
Volterra. Secondo lui il lavoro teatrale nelle carceri è legato ai concetti di limite e 
resistenza
7
. Il teatro rappresenta lo strumento per combattere quel limite che all’interno del 
carcere si concretizza in maniera abnorme e questo suo pensiero ci permette quindi di 
chiarire meglio anche l’altro, fondamentale, confine all’interno del quale il teatro sociale si 
muove: quello tra terapia ed espressione artistica. 
Spiega Punzo che, 
 
c’è una grande differenza fra l’utilizzare il teatro come mezzo affinché i detenuti 
capiscano, crescano, si liberino, e l’affrontare il teatro come una prova, per poi 
scoprire di essersi liberati, di aver capito, di essere cresciuti. […] Nel carcere c’è 
un mondo inespresso che non altre possibilità di venire alla luce
8
. 
 
Il pensiero di Punzo e la riflessione teorica di Michel Foucaul convergono su un punto 
che è senz’altro un momento chiave all’interno del presente lavoro, ma anche nell’ambito 
di una riflessione più ampia sulle finalità del teatro in carcere: la differenza che sussiste, 
cioè, tra fine ed effetto, per utilizzare le parole dello stesso Foucault, o tra mezzo e prova 
come spiega invece Punzo. Il teatro in carcere non può porsi come fine l’azione 
terapeutica, né può essere un mezzo nelle mani della terapia. Il teatro in carcere può, però, 
pur non essendo e non volendo nemmeno essere una terapia, rappresentare una prova per i 
                                                
6
 Cfr. FOUCAULT M. (1975), op. cit. 
7
 Cfr. PUNZO A., Limite e resistenza, in BERNAZZA L. E VALENTINI V. (1998) (a cura di), La Compagnia 
della Fortezza, Rubbettino, Saveria Mannelli. 
8
 Cfr. PUNZO A., Limite e resistenza, op. cit., p. 47-50. 
 10 
detenuti e di conseguenza produrre in essi l’effetto che, forse, potrebbe generare un’azione 
terapeutica. La pratica teatrale ha tutti i mezzi, infatti, per stimolare un miglioramento delle 
capacità di espressione personali, delle capacità di socializzazione, della comprensione 
delle dinamiche e dei meccanismi che si nascondono dietro a determinati problemi sociali. 
Questi aspetti sono degli effetti che la pratica teatrale produce, specialmente in ambito 
sociale, ma fine ed effetto sono due concetti dal significato molto diverso. 
Il teatro che agisce nel carcere o più in generale nell’ambito sociale, non ha finalità 
terapeutiche o educative, proprio perché il teatro non può essere assimilato ad una terapia, 
ma può comunque provocare degli effetti che riguardano da vicino il miglioramento delle 
capacità e delle competenze individuali, proprio come nelle migliori aspettative di un 
trattamento terapeutico. 
 
 11 
Capitolo 1 – SISTEMI SOCIALI E TRATTAMENTO DELLA 
DIVERSITÀ 
 
 
Il teatro non ha categorie, ma si occupa della 
vita. Ecco l’unico punto di partenza, e non c’è 
nient’altro di veramente fondamentale. 
Il teatro è la vita […]. Si va a teatro per trovare 
la vita, ma se non c’è differenza tra la vita fuori 
dal teatro e quella al suo interno, allora il teatro 
non ha senso. 
 
[Peter Brook, La porta aperta] 
 
 
1.1 Comunicazione e mutamenti sociali nella società moderna 
 
Per capire meglio quali siano la funzione e gli obiettivi del fare teatro in carcere ed in 
generale in ambito sociale, risulta necessario analizzare i processi culturali che 
caratterizzano la società moderna, primo tra tutti il processo di globalizzazione, che 
condiziona ed influenza ogni aspetto della società moderna, producendo dei risultati che 
caratterizzano fortemente la modernità. È interessante anche osservare come venga inteso 
il trattamento della diversità all’interno dei diversi sistemi sociali che si sono succeduti e 
nell’ambito della società moderna, in quanto l’oggetto di questo lavoro si riferisce proprio 
all’esperienza teatrale applicata ai cosiddetti diversi, a coloro che vivono ai margini, ai 
soggetti discriminati ed isolati. 
Per comprendere meglio i mutamenti sociali in oggetto, chiariamo innanzitutto cosa 
intendiamo quando parliamo di comunicazione, un termine tanto utilizzato quanto forse 
sfuggente nel suo significato profondo. La comunicazione è frutto del coordinamento tra 
un’azione comunicativa e le sue interpretazioni, che non sono univoche ma sono tante 
quanti sono gli interlocutori che partecipano alla comunicazione
9
. La sola azione 
comunicativa, dunque, non dà vita ad una comunicazione, ma ha necessariamente bisogno 
di un soggetto che la comprenda e che partecipi al coordinamento
10
. Ciò che deriva da 
questa coordinazione, cioè l’informazione, non è qualcosa di oggettivo, ma è a sua volta 
                                                
9
 Cfr. BARALDI C.(2003), Comunicazione interculturale e diversità, Carocci, Roma. 
10
 Si veda PEARCE B. W. (1993), Comunicazione e condizione umana, Angeli, Milano. 
 12 
una costruzione sociale, che trova realizzazione solo nel momento in cui l’azione 
comunicativa viene compresa. L’azione di comprensione, e quindi di interpretazione, 
ricopre un’importanza fondamentale nel sistema comunicativo
11
. 
Gli elementi fondamentali ed accettabili della comunicazione vengono selezionati ed 
ammessi da una struttura che è definita forma di comunicazione. Con questa espressione ci 
si riferisce appunto ad una struttura che orienta la comunicazione, selezionando ciò che 
ammesso e ciò che invece deve essere escluso da un certo processo comunicativo. In 
questo modo la forma di comunicazione agisce sulle parti principali della comunicazione: 
il contenuto della comunicazione (l’informazione), il ruolo dei partecipanti alla 
comunicazione (particolarmente rilevante è ad esempio la distinzione tra i contributi dei 
ruoli, riproducibili, e quelli delle persone, unici ed autonomi), i risultati immediati e le 
conseguenze future della comunicazione (le forme di aspettative)
12
. La forma della 
comunicazione è dunque data dall’insieme di tutti questi elementi, che appunto definiscono 
i confini di una determinata comunicazione. 
Le forme comunicative, però, devono essere considerate anche alla luce di una serie di 
mutamenti socioculturali che si sono sviluppati molto lentamente nel corso dei secoli e che 
hanno visto il cambiamento della struttura fondamentale della società. Niklas Luhmann
13
 
sottolinea come i cambiamenti delle forme di comunicazione siano andati di pari passo con 
il graduale passaggio da una struttura sociale all’altra: ne deriva che anche la 
comunicazione è strettamente connessa ai cambiamenti socioculturali che hanno trovato 
attuazione nel corso della storia. Guardando indietro, il primo momento di cambiamento in 
cui possiamo iniziare a parlare di comunicazione interculturale, si ha nel passaggio dalla 
società segmentata alla società gerarchica: mentre la prima struttura sociale è 
caratterizzata da un certo isolamento e quindi vede il prevalere di una sostanziale 
omogeneità al suo interno, le comunità gerarchiche si contraddistinguono, invece, per 
l’emergere di disuguaglianze e quindi per la comparsa di una prima forma di diversità a 
livello sociale. Con questa prima manifestazione della diversità anche la forma di 
comunicazione attraversa una fase di mutamento, passando dalla forma monoculturale, 
com’era in passato, ad una iniziale forma di comunicazione interculturale, che riconosce 
l’esistenza di una pluralità di interpretazioni e visioni tra i partecipanti alla comunicazione.  
                                                
11
 Cfr. BARALDI C. (2003), op. cit. 
12
 BARALDI C. (2003), op. cit. 
13
 LUHMANN N. E DE GIORGI R. (1993), Teoria della società, Angeli, Milano. 
 13 
In questo modo viene dunque riconosciuta per la prima volta la diversità
14
. Tipica ed 
innovativa di questa struttura societaria è la consapevolezza che una totale ed univoca 
adesione ai medesimi orientamenti culturali non sia in alcun modo possibile e dunque 
ammette il manifestarsi di una pluralità di visioni, anche divergenti, all’interno della stessa 
società. La diversità culturale, la mancata condivisione degli stessi simboli e l’ammissione 
del pluralismo, possono produrre come effetto anche l’instaurarsi di una certa 
conflittualità: ecco che la comunicazione interculturale si pone come una forma di 
comunicazione che accetta ed ammette l’affermazione positiva della diversità culturale. 
La prima forma di comunicazione interculturale individuabile storicamente è 
l’etnocentrismo
15
. In questo caso la diversità culturale nella comunicazione è osservabile 
nella forma di gerarchia e di differenza di valore tra i gruppi sociali partecipanti alla 
comunicazione. Questa diversità è caratterizzata dal fatto che nella comunicazione sono 
presenti un Noi, generalmente associato a valori positivi, e un Loro che al contrario è 
portatore di valori negativi. La diversità dunque si esprime in questo sistema a seconda che 
si venga inclusi o esclusi da uno dei due gruppi: chi rientra nell’altro gruppo per le sue 
caratteristiche personali, non rientra nei confini del Noi e di conseguenza viene classificato 
come “diverso”. In questo modo, vengono create delle categorie e gli individui, in base ai 
valori e ai caratteri di cui sono portatori, ne vengono inclusi o esclusi. Ecco che, con la 
differenziazione e contrapposizione rispetto a ciò che presenta caratteristiche diverse e con 
il senso di appartenenza invece al gruppo a cui ci si sente affini, viene costruita l’identità 
dei soggetti, come ad esempio l’identità etnica. La condivisione, infatti, di simboli e di 
caratteristiche comuni riconducibili alla propria appartenenza etnica, dà luogo molto 
agevolmente a forme di comunicazione etnocentrica, poiché gli individui si sentono 
accomunati o al contrario differenziati proprio in seguito al riconoscimento ed adesione ad 
un determinato gruppo sociale: Noi, accomunati da determinate caratteristiche, etniche per 
esempio, siamo diversi da Loro, che presentano altre specificità lontane da Noi. 
Il tipo di società in cui, per la prima volta, la diversità viene non soltanto accettata ma 
anche riconosciuta come un valore, è la società differenziata per funzioni, che alla struttura 
gerarchica sostituisce dei nuovi sistemi di funzione (come possono essere il sistema 
giuridico o il sistema familiare). Questo è un mutamento socioculturale che riveste 
un’enorme importanza ed è strettamente legato all’emergere di una società moderna in 
Europa. La rilevanza che questa nuova fase ricopre nel trattamento della diversità è 
                                                
14
 BARALDI C. (2003), op. cit. 
15
 Ibidem 
 14 
fondamentale: la diversità delle forme culturali per la prima volta non viene soltanto 
accettata e riconosciuta, ma addirittura considerata come un valore positivo. Adesso, alla 
struttura gerarchica della società, fonte principale di differenziazione nel passato, si 
sostituisce una nuova struttura societaria, composta stavolta da un pluralismo di sistemi 
sociali indipendenti l’uno dall’altro, ma analogamente importanti ed ognuno di questi 
opera autonomamente una selezione delle forme culturali rilevanti al proprio interno. 
Questo sistema, molto più complesso del precedente, riconosce il pluralismo di valori e 
significati che possono essere attribuiti alle varie funzioni, quindi contribuisce ad 
incrementare notevolmente la complessità della società. Allo stesso tempo si può affermare 
che in questo modo nasce la “cultura moderna europea”, caratterizzata proprio da questo 
nuovo pluralismo culturale
16
. Poiché alle diverse funzioni può essere attribuita una 
molteplicità di valori, la grande novità risiede nel fatto che nella nuova forma societaria è 
ammesso un pluralismo di forme culturali diverse fra loro ma aventi identica e paritaria 
importanza all’interno della società. Questa caratteristica fa in modo che decada quella 
contrapposizione Noi/Loro, precedentemente esistente, proprio perché, essendo 
riconosciuto il pluralismo culturale, non sussiste più il dominio di un gruppo su un altro in 
base a criteri di gerarchia. È così che nascono codici differenti, come l’amore, la fede, la 
giustizia, che all’interno della struttura sociale sono essenziali e rilevanti nello stesso 
modo. 
Una caratteristica importante di questa nuova società moderna è che con il superamento 
della codificazione gerarchica, si supera anche la concezione della diversità culturale come 
diversità tra gruppi sociali e invece la diversità viene sempre più strettamente connessa 
all’espressione della persona.  
 
 
1.2 Il trattamento della diversità culturale 
 
Grazie al processo appena descritto, la diversità tende a divenire una questione che 
riguarda principalmente la persona, ma il suo valore positivo nella società rimane 
indiscusso. Chiaramente il significato della diversità viene costruito nel tempo e si pone in 
stretta relazione con i mutamenti socioculturali che si verificano: il processo di 
globalizzazione, che si sviluppa e caratterizza tutto il XX secolo, ha prodotto degli effetti 
                                                
16
 Ibidem 
 15 
che sicuramente hanno influito sulla costruzione del significato della diversità. L’avvento 
della società globalizzata ha posto nuovamente in primo piano il dibattito sul valore della 
diversità culturale intesa come identità di gruppi e in secondo luogo, mettendo in luce per 
la prima volta in modo veramente allargato l’esistenza di una molteplicità di forme di 
diversità, ha anche evidenziato la grande frammentazione del contesto sociale, che mai 
come adesso era stata osservata in modo così approfondito. 
Questo processo fa sì che la diversità divenga un fatto “quotidiano”: si assiste, cioè, 
grazie anche a questo enorme cambiamento sociale, alla “normalizzazione” della diversità 
all’interno della società, ma in questo modo emergono violentemente anche tutte le 
discriminazioni e le disuguaglianze legate al concetto di diversità. Infatti, la 
globalizzazione nella società differenziata per funzioni porta alla diffusione 
dell’individualismo e con questo dà quindi rilievo alle prestazioni di ruolo, creando nuove 
forme di disuguaglianza basate stavolta sulle diverse prestazioni. In questo modo, si 
determina una non-inclusione delle diversità, a meno che non siano legate all’appartenenza 
di gruppo, quindi la forma di comunicazione interculturale che continua a sussistere è di 
tipo etnocentrica, anche se con degli elementi diversi rispetto a quelli che presenta nelle 
società di tipo gerarchico. 
L’adesione alla cultura della modernità sembra che si attui attraverso  
 
la libera analisi critica delle tradizioni ricevute; la tensione personale verso 
l’autoaffermazione, in rapporto all’etica della responsabilità individuale e del 
rischiare se stessi nei propri impegni; la separazione netta fra la sfera pubblica e 
la sfera privata e soprattutto fra la sfera laica e quella religiosa; il decadere dei 
vincoli tradizionali tribali, o di clan, e anche del peso della famiglia allargata; in 
rapporto a quest’ultimo fattore, la sostituzione dell’etica (universale) del diritto a 
un’etica (particolaristica) del privilegio; inoltre, la libera contrattualità di tutte le 
forme di cooperazione (dalla cooperazione d’impresa alla cooperazione sessuale 
nelle coppie); la libertà di accesso alle informazioni e all’istruzione; e infine 
anche, con tutto ciò, la mobilità delle identità individuali.
17
 
 
Il paradosso che compare adesso nella società differenziata per funzioni è quello del 
pluralismo monoculturale: questo tipo di società, infatti, pone come valori fondamentali ed 
                                                
17
  JERVIS G. (1997), La conquista dell’identità. Essere se stessi, essere diversi, Feltrinelli, Milano, pp. 53-54.