CAPITOLO 1 
 
ANALISI TEORICA DELLO STEREOTIPO E DEL PREGIUDIZIO 
 
1.1 Lo stereotipo 
 
Con il termine stereotipo si intendono le credenze che creiamo sugli attributi personali 
di una categoria sociale o di gruppi sociali. 
Gli stereotipi sono delle immagini molto semplificate riguardanti una categoria di 
persone che vengono condivise dalla gente. 
 
Lo stereotipo spiegato come una distorsione della mente 
 
Lo studio dello stereotipo (dal greco stereos = rigido, permanente e tupos = impronta) e 
della sua formazione è uno degli argomenti fondamentali della psicologia sociale, anche se 
in realtà il termine stereotipo venne proposto nel 1922 dal giornalista Walter Lippmann 
(1963), il quale, nel suo libro Public Opinion, sottolineò il ruolo fondamentale delle 
“piccole immagini” che portiamo dentro la nostra mente nella percezione degli eventi 
sociali e delle altre persone. 
Dal significato originario di stereotipo, ovvero lo stampo tipografico da cui derivano le 
copie tutte uguali di un giornale, si giunge figuratamente a definire le caratteristiche 
psicologiche degli stereotipi, che sarebbero fissi e immutabili, come lo stampo tipografico 
appunto, e soprattutto rigidi, poco sensibili al cambiamento della realtà. 
Lippmann (1963), definisce gli stereotipi sociali come rigide generalizzazioni 
riguardanti gruppi sociali, dal contenuto illogico e inesatto. La stereotipizzazione , quindi, 
viene considerata come un processo di pensiero distorto e tendenzioso, perché, presenta 
immagini cosi esagerate e generalizzate degli altri da annullare ogni variabilità individuale.  
 
Lo stereotipo e l’approccio psicodinamico 
 
Secondo l’approccio psicodinamico gli stereotipi e i pregiudizi sono l’espressione dei 
bisogni motivazionali del soggetto e di profondi conflitti intrapsichici. I soggetti, attraverso 
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l’uso dei meccanismi di difesa, come la proiezione e la dislocazione, gli attributi negativi 
riferiti a sé o a un membro del proprio gruppo gli percepiscono come caratteristiche di altri 
gruppi, generalmente più deboli. 
L’esempio più noto di questo approccio, che è la teoria del capro espiatorio, spiega che, 
le persone quando sono frustrate e non riescono a raggiungere lo scopo prefissato tendono 
a mostrare maggiore aggressività nei confronti dei gruppi privi di potere, poco graditi e 
visibili, che svolgono quindi la funzione di capri espiatori (Dollard et al. 1967). 
 
L’approccio culturale 
 
L’approccio culturale concepisce gli stereotipi come un prodotto del contesto sociale e 
culturale. 
La realtà non è come la percepisce l’individuo, bensì risulta costruita dai  nostri sistemi 
categoriali che ci vengono dalla cultura di appartenenza. Questo approccio enfatizza il 
ruolo delle influenze della famiglia, il gruppo, i mass media e delle tradizioni culturali 
nella formazione e nel mantenimento degli stereotipi. 
 
L’approccio motivazionale 
Secondo questo approccio, gli stereotipi derivano da motivazioni auto-protettive e 
servono a mantenere un’immagine positiva di se stessi e del proprio gruppo di 
appartenenza. 
 
La teoria dell’identità sociale 
Secondo Tajfel (1979), l’identità sociale è quella parte dell’immagine di sé che deriva 
dalla consapevolezza di appartenere a uno o più gruppi sociali, insieme al valore e al 
significato emotivo attribuito a tale appartenenza. 
L’ipotesi principale di questa teoria è che, le discriminazioni intergruppi e l’attivazione 
di stereotipi negativi nei confronti dell’outgroup derivano dal desiderio di raggiungere e 
mantenere un’identità sociale positiva. 
Tutti gli individui naturalmente tendono a preservare i propri schemi interpretativi: 
secondo Tajfel, lo stereotipo giustifica le azioni dell’ingroup e ne preserva l’identità, le 
credenze, i valori dominanti, spiegando e giustificando le azioni sociali nei confronti degli 
outgroup. Il soggetto opera sulla realtà utilizzando gli stereotipi condivisi dal gruppo di 
appartenenza. 
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 La prospettiva cognitiva 
 
La prospettiva cognitiva intende gli stereotipi come insiemi di credenze riguardanti 
gruppi sociali. 
Henri Tajfel riconcetualizza il processo di stereotipizzazione, intendendolo non più 
come distorsione della mente, ma come un prodotto dei processi cognitivi normali comuni 
a tutti gli individui. 
Tajfel osserva che, lo stereotipo quando si basa sull’esperienza ed è accurato può essere 
un mezzo flessibile ed economico per affrontare eventi complessi, perché produce 
semplicità e ordine dove c’è complessità. Ma può essere anche uno strumento 
potenzialmente dannoso nel momento in cui ci nasconde le differenze individuali 
all’interno di una classe di persone. 
Secondo lui, gli stereotipi non sono un giudizio avventato e irrazionale della persona ma 
derivano da processi normali del pensiero umano quali la categorizzazione sociale e la 
differenziazione. 
 
La categorizzazione 
La formazione degli stereotipi e degli pregiudizi è molto collegata al processo di 
categorizzazione. È il processo secondo cui gli individui ordinano mentalmente il loro 
mondo sociale e riducono la quantità di informazioni con cui si confrontano. La 
categorizzazione ordina l’ambiente in termini di categorie, attraverso le quali si 
raggruppano persone, oggetti ed eventi simili o equivalenti in base alla loro pertinenza 
rispetto alle azioni, intenzioni o agli atteggiamenti individuali. 
Lo stereotipo e la categorizzazione sono due meccanismi cognitivi che portano alla 
semplificazione delle informazioni e operano secondo un processo di economia mentale. 
La categorizzazione riduce le informazioni, sacrificando la ricchezza dei dettagli, per 
fornire un’immagine generalizzata del reale. Ma la categorizzazione, non significa 
solamente riduzione di informazioni e generalizzazione, perché, nei casi in cui gli stimoli 
sociali sono poveri o poco informativi, essa elabora e dà significato all’esperienza. 
Uno degli effetti principali di questo processo è l’aumento della somiglianza dei membri 
appartenenti allo stesso gruppo (somiglianza intragruppo), e contemporaneamente, un 
incremento delle differenze tra i membri di gruppi diversi ( differenze intergruppo). 
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Tajfel ritiene che, le conseguenze della categorizzazione diventano determinanti nella 
discriminazione fra gruppi e il soggetto appartenente all’ingroup stabilisce una netta 
differenza con l’outgroup. 
Di conseguenza si crea quello che gli autori chiamano effetto dell’omogeneità 
dell’outgroup, che è la tendenza a percepire l’outgroup molto omogeneo e i membri uguali 
fra loro, mentre, i membri dell’ingroup si distinguono l’un l’altro. 
Una delle cause del crearsi di questo effetto è che, mentre, le persone all’interno del 
proprio gruppo incontrano una grande varietà di soggetti e arrivano a fare una 
differenziazione, questo non succede con i membri dell’outgroup, con i quali rapporti 
spesso sono limitali a pochi esemplari, osservati in ruoli specifici e in situazioni 
circoscritte. 
La differenziazione ingroup-outgroup influenza notevolmente anche il ricordo dei 
comportamenti dei membri dei due gruppi. Le persone usano strategie cognitive diverse 
per costruire le informazioni sull’ingroup o sull’outgroup. Mentre quelle riguardanti 
l’ingroup vengono organizzate attorno a singoli individui o sottogruppi di persone, le 
informazioni riguardanti l’outgroup vengono codificate a livello di categorie più generali. 
Alcuni psicologi hanno dimostrato che i comportamenti positivi dei membri 
dell’ingroup e quelli negativi dei membri dell’outgroup vengono ricordati con più facilità. 
Ciò è spiegabile secondo il modello della “disponibilità” di Rombarth (1981), secondo cui 
l’individuo stima la frequenza di una classe di eventi basandosi sulla facilità con cui questi 
sono disponibili al recupero mnestico. Sono i tratti più salienti ad attirare l’attenzione del 
percepiente e a condizionare il ricordo di comportamenti ambigui ed estremi.  
 
1.2  ll pregiudizio 
 
Il termine pregiudizio indica un giudizio precedente all’esperienza, non fondato su un 
esame diretto e attento. 
Il pregiudizio viene di solito considerato anche come un giudizio errato, non 
corrispondente alla realtà oggettiva. 
Il concetto di stereotipo è strettamente connesso con quello di pregiudizio. In pratica 
esso costituisce il nucleo cognitivo del pregiudizio, vale a dire l’insieme degli elementi di 
informazione e delle credenze circa una certa categoria di oggetti, rielaborati in 
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un’immagine coerente e tendenzialmente stabile, in grado di sostenere e riprodurre il 
pregiudizio nei loro confronti. 
 
Il pregiudizio etnico-razziale 
L’espressione di pregiudizio in assoluto più diffusa, e più difficile da controllare in 
quanto coinvolge processi psicologici basilari, è la distorsione nella percezione e nella 
valutazione dei fenomeni che riguardano gli immigrati. La distorsione consiste nella 
sopravvalutazione delle difficoltà che questi possono creare, sia come categoria sociale sia 
come singoli individui. Un tipico esempio è la sopravvalutazione della presenza degli 
immigrati nella criminalità e nelle devianze, e una sistematica tendenza ad attribuire agli 
immigrati caratteristiche e comportamenti negativi. 
Un'altra forma di pregiudizio è quello che viene definito avversivo. 
L’individuo, non potendo tollerare la contraddizione fra i propri valori ugualitari e 
l’antico, radicato sentimento di ostilità nei confronti dei diversi, tende semplicemente a 
evitare il contatto con loro limitando le interazioni o adottando, nel corso delle interazioni 
condotte tali da mantenere la distanza e scoraggiare il coinvolgimento. Numerose ricerche 
hanno mostrato che nell’interazione con neri i bianchi tendono ad assumere un 
comportamento non verbale diverso da quello che usano con altri bianchi, riducendo il 
contatto oculare, adottando toni meno amichevoli e posture più distaccate, con il risultato 
complessivo di un’interazione meno fluida e mediamente più breve. Il comportamento 
viene accompagnato da disagio e fuga. 
Per quanto riguarda il pregiudizio sviluppato in Italia in questi anni, in primo luogo, si 
può notare una decisa sopravvalutazione del fenomeno dell’immigrazione, sia dal punto di 
vista quantitativo sia con riferimento alle difficoltà che essa può portare alla struttura 
sociale italiana. Ne deriva un’esagerata reazione di allarme e di autodifesa, la quale arriva 
perfino a giustificare, azioni di intolleranza e discriminazione, agli occhi di chi le compie. 
Spesso, abbiamo sentito ripetere l’espressione “io non sono razzista, ma…..” seguita da 
valutazioni pseudo-oggettive che tendono a razionalizzare l’ostilità verso gli immigrati e a 
sostenere come inevitabili provvedimenti di fatto discriminatorio, aventi come finalità 
ultima quella di allontanarli da sé e dal proprio spazio vitale. 
Anche per quanto riguarda la formazione dell’opinione collettiva sull’argomento si 
possono vedere in azione i meccanismi di distorsione della percezione. Ad esempio, la 
diffusa tendenza che c’è nel attribuire la condizione di degrado in cui a volte gli immigrati 
vivono non alle difficoltà materiali in cui possono trovarsi ma a loro caratteristiche 
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personali. Oppure, la tendenza a sopravvalutare il ruolo degli immigrati nelle attività 
criminali, le quali non mi risulta che siano state create dagli immigrati o gli clandestini. 
Ancora la maggior parte delle attività criminali vengono svolte dagli italiani, soprattutto 
nel sud d’Italia, solo che gli stranieri sono più visibili e messi molto di più alla luce dai 
mezzi di informazione. In Italia, come in tutti gli altri paesi caratterizzati 
dall’immigrazione, alla diversità corrisponde una gerarchia, e gli immigrati vengono 
percepiti come individui di categoria sociale inferiore. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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