I 
PREMESSA 
 
Whatever its causes, the multilingual condition invites or 
compels a certain percentage of mankind to speak more than one 
language. It also means that the exchanges of information, of 
verbalized messages on which history and the life of society 
depend, are in very large part interlingual. They demand 
translation. The polyglot situation and the requirements which 
follow from it depend totally on the fact that the human mind 
has the capacity to learn and to house more than one tongue. 
There is nothing obvious, nothing organically necessitated about 
this capacity. It is a startling and complex attribute. 
- George Steiner, 1975 - 
 
Proprio come per George Steiner, il mistero e la complessità della varietà 
linguistica umana hanno sempre esercitato un grande fascino anche su di me, tanto 
da spingermi a intraprendere un percorso formativo che potesse ampliare le mie 
conoscenze in questo campo e che mi permettesse di portare avanti in maniera più 
consapevole e concreta questa passione. Da questo particolare interesse è poi nato il 
desiderio di capire come i codici linguistici che noi usiamo e la loro evoluzione nel 
tempo siano strettamente legati alla nostra cultura, al modo in cui percepiamo la 
realtà e la rappresentiamo, per mezzo delle parole. 
Soprattutto nel mondo odierno, dominato dalle spinte alla globalizzazione e alla 
comunicazione tra paesi con culture e lingue differenti, spesso molto lontane tra 
loro, è più che mai importante la conoscenza e la comprensione reciproca: in questo 
contesto, la traduzione si pone, quindi, ancora una volta, come risorsa 
imprescindibile e necessità fondamentale. 
Numerose, negli ultimi anni, sono state le ricerche dedicate a questo tema di 
studio vasto e complesso, dalle origini assai lontane nel tempo. Fin dall’antichità, 
infatti, studiosi e filosofi hanno spesso rivolto la loro attenzione verso questa 
disciplina del campo della linguistica, che ha subìto, come osserveremo nel corso
II 
della nostra ricerca, un’evoluzione non del tutto lineare, segnata, a volte, da nette 
divisioni tra scuole di pensiero appartenenti a tradizioni diverse.  
Un interesse nuovo e specifico si è poi sviluppato, recentemente, nei confronti 
della pratiche di traduzione audiovisiva, in passato sottovalutate e considerate come 
fenomeni secondari, non degni di particolare attenzione, nell’ambito degli studi sulla 
traduzione. In un mondo, però, in cui lo scambio e la diffusione di informazioni ed 
idee vengono quasi esclusivamente veicolati dai mass-media attraverso gli schermi, 
siano essi televisivi o cinematografici, queste tipologie particolari di trasferimento 
linguistico, assumono un ruolo cruciale. 
Ho scelto, quindi, come materia della mia analisi un “testo filmico”, proprio per 
la sua rilevanza nel contesto attuale, oltre che per la sua peculiarità: si tratta, infatti, 
di un testo complesso, in cui la combinazione di codice scritto, orale e visivo, 
comporta, durante il processo di traduzione e adattamento, numerosi ostacoli e 
problemi specifici, dovuti alle restrizioni e ai vincoli imposti dalla necessità di 
sincronismo. In particolare, ho ritenuto più appropriata, ai fini della mia valutazione, 
la scelta di esaminare lo script di un copione adattato per il doppiaggio, in quanto a 
mio avviso, questa pratica traduttiva, più di altre, quali la sottotitolazione 
interlinguistica, richiede al traduttore-adattatore, oltre alle competenze e l’esperienza 
acquisita, delle abilità creative specifiche.  
Nella selezione pratica del testo da sottoporre al mio esame, la mia attenzione si è, 
poi, rivolta al regista Pedro Almodóvar. In ogni sua opera, infatti, questo autore di 
fama mondiale, mette in luce il suo profondo e radicato legame con le tradizioni e la 
cultura spagnola, che si delinea, a livello visivo, nell’ambientazione delle sue pellicole, 
ma, soprattutto, a livello linguistico, nelle scelte espressive dei suoi personaggi. 
Questo strettissimo vincolo tra linguaggio e cultura di provenienza, che caratterizza i 
lavori di Almodóvar, rappresenta, a mio avviso, un tema di studio di particolare 
interesse, attraverso il quale è possibile evidenziare con maggiore chiarezza i limiti 
dell’attività traduttiva e il ruolo, talvolta fondamentale, delle abilità e capacità 
artistiche del traduttore, posto di fronte ad una ancor maggiore molteplicità di 
variabili che ne condizionano e ostacolano il lavoro.
III 
Il presente lavoro è stato suddiviso in tre capitoli principali, ciascuno dei quali 
affronta nel dettaglio una tematica specifica.  
 Il PRIMO CAPITOLO, fornisce una panoramica generale sull’evoluzione delle 
teorie della traduzione nel mondo occidentale. Dalle prime riflessioni sulla querelle tra 
traduzione letterale e traduzione libera, che ha condizionato per secoli lo studio di 
questa disciplina, si arriva a considerare le prime vere e proprie teorie “scientifiche” 
della traduzione negli anni ‘60. A partire da questo momento, infatti, lo studio della 
Traduttologia ha assunto un carattere più sistematico e si è articolata in tre rami 
principali: gli studi teorici, descrittivi e applicati. Nell’ultimo ventennio del XX 
secolo, infine, si assiste ad un vero boom dei Translation Studies, con l’allargamento 
delle riflessioni teoriche a modelli interdisciplinari integrati.  
Nel SECONDO CAPITOLO, l’attenzione si focalizza sul particolare ambito 
della traduzione audiovisiva, proponendo una breve introduzione sul passaggio dal 
cinema muto a quello sonoro, con gli inevitabili problemi dovuti a questa 
innovazione. Una volta illustrate le diverse metodologie di traduzione impiegate per 
trasferire gli elementi linguistici del testo filmico, ci concentreremo sulla pratica del 
doppiaggio, analizzandone gli attori, le fasi tecniche, i vincoli e le problematiche 
specifiche. Nella parte conclusiva del capitolo si presenterà anche l’attuale 
condizione del mercato degli audiovisivi e si offrirà una personale valutazione sul 
dibattito “doppiare o sottotitolare” che coinvolge studiosi e critici della traduzione. 
Il TERZO CAPITOLO, infine, rappresenta il nucleo di questo lavoro. A seguito 
di una contestualizzazione relativa al regista e all’opera cinematografica scelta, Los 
abrazos rotos, si introdurrà l’analisi linguistica pratica, in una logica contrastiva tra 
spagnolo e italiano. Prenderemo in esame le tecniche comunemente impiegate dai 
traduttori, supportandole con esempi tratti dal corpus di analisi; successivamente si 
evidenzieranno le difficoltà, i problemi e gli errori più ricorrenti nell’ambito della 
traduzione tra le due lingue, soffermandoci in modo particolare sulle caratteristiche 
del linguaggio colloquiale e gergale all’interno della pellicola. 
 
Buona lettura.
1 
LE TEORIE DELLA TRADUZIONE 
1.1 Il concetto di traduzione 
Nel corso dei secoli la traduzione, sia orale che scritta, ha rivestito un ruolo 
importante nella comunicazione tra esseri umani appartenenti a popoli diversi, 
ciascuno con una cultura e soprattutto un linguaggio differente. Essa nasce dalla 
necessità di permettere, anche a coloro che non hanno conoscenza della lingua 
originale, l’accesso al testo. La traduzione, inoltre, nata come attività orale, è 
divenuta scritta in Francia, soltanto nel periodo Rinascimentale. A partire da 
quell’epoca si assiste ad un intensificarsi di interventi, discussioni e dibattiti ai quali si 
accompagna una crescente richiesta di testi da tradurre, anche se il vero e proprio 
sviluppo di questa attività si registra a partire dall’inizio del XX secolo. Infatti, 
sebbene la pratica della traduzione sia esistita fin dai tempi antichi, gli studi in questo 
campo hanno portato alla sua evoluzione come disciplina accademica solo nella 
seconda metà del ventesimo secolo. 
Il termine ‘traduzione’ può avere diversi significati: può essere riferito al campo di 
studio in generale, al prodotto (il testo tradotto) o al processo (l’atto di produrre una 
traduzione, altrimenti definito ‘tradurre’). Il processo della traduzione tra due diverse 
lingue implica che il traduttore cambi un testo originale (TO) scritto nella lingua 
originale (LO) e lo trasformi in un testo (TT) scritto in un differente codice 
linguistico (LT).  
Louis Kelly ha asserito che una teoria ‘completa’ della traduzione “has three 
components: specification of function and goal; description and analysis of 
operations; and critical comment on relationships between goal and operations”. 
(Venuti 2000[2004]:4)
1
 Kelly osserva, inoltre, come, nel corso della storia, i teorici 
abbiano teso ad enfatizzare uno di questi tre componenti, a discapito degli altri. 
L’aspetto che ha ricevuto la maggiore enfasi, come sostiene Venuti, si è poi spesso 
trasformato in una sorta di raccomandazione o prescrizione che definisse la qualità 
della traduzione .  
                                                 
1
 “ha tre elementi: l’individuazione della funzione e gli obiettivi; la descrizione e l’analisi delle 
operazioni [di traduzione]; e il commento critico alla relazione tra gli obiettivi e le operazioni.”
2 
Fino alla prima metà del 1900 erano soprattutto coloro che concretamente 
effettuavano le traduzioni ad interessarsi dei problemi traduttivi: in altre parole non 
esisteva una vera e propria teoria, ma piuttosto varie considerazioni sui diversi 
quesiti traduttivi. Fu solo a seguito del secondo dopoguerra che apparvero reali 
contributi teorici, che consentirono la nascita di un nuovo campo di investigazione 
accademica, quello dei Translation Studies, grazie ad autori che affrontarono in modo 
‘globale’ il tema della traduzione e permisero la nascita di una vera e propria scienza 
linguistica.  
Va sottolineato, inoltre, che per molto tempo l’evoluzione di questa disciplina 
non ha avuto, come le altre scienze, un continuum lineare, ma al contrario, ha visto 
l’altalenarsi di due concezioni opposte: traduzione letterale, ovvero parola per parola, 
e traduzione libera. Solo in seguito, con l’apertura degli studi sulla traduzione ad 
altre discipline complementari, si è affermata una nuova visione, che ha permesso il 
superamento di questa querelle, e che va sotto il nome di teoria interpretativa o del 
senso. 
 
1.2 Excursus storico sulla nascita e lo sviluppo della disciplina della traduzione nel 
mondo occidentale. 
I primi ‘studi’ sulla pratica della traduzione risalgono al primo secolo avanti Cristo, 
con filosofi quali Cicerone, Orazio, Quintilliano ed Sant’Agostino; e dal quarto 
secolo dopo Cristo furono portati avanti da San Gerolamo.  
Tuttavia, prima della seconda metà del XX secolo la teoria della traduzione si 
limitò ad un insieme di concetti ed idee non connessi tra di loro, né sistematizzati. 
In questo periodo, che Newmark definisce il ‘prenulllinguist ic period of translation
2
’, la 
teoria della traduzione sembrava bloccata nello ‘sterile dibattito’, descritto da Steiner, 
sul fatto che la traduzione dovesse seguire il metodo letterale oppure quello libero. 
Flora Ross Amos, nel suo libro Early Theories of Translation, non vede affatto la 
storia della teoria della traduzione come ‘a record of easily distinguishable, orderly 
                                                 
2
 ‘periodo prenullinguistico della traduzione’
3 
progession’ (Ross Amos 1920[1973]: 10)
3
. Le teorie erano di solito confuse e 
sconnesse,  un’accozzaglia di prefazioni, in cui i primi teorici presentavano 
giustificazioni e commenti al loro approccio, spesso facendo poca attenzione, o non 
avendo addirittura accesso, alla maggior parte dei lavori scritti precedentemente.  
Una spiegazione di questa tendenza è fornita da Amos: 
This lack of consecutiveness in criticisms is probably partially accountable for 
the slowness with which translators attained the power to put into words, 
clearly and unmistakably, their aims and methods (Munday 2001: 23)
4
 
Le correnti di pensiero, in quest’epoca, tendevano a condannare e tacciare di 
essere imprecisa e superficiale la traduzione la traduzione parola per parola.  
Cicerone ha delineato il suo approccio alla traduzione in Libellus de optimo genere 
oratorum (46 a.C.), nell’introduzione alla sua stessa traduzione dal greco al latino dei 
discorsi di Demostene:  
[…] nec converti ut interpres, sed ut orator, sententiis isdem et earum formis 
tamquam figuris, verbis ad nostram consuetudinem aptis. In quibus non 
verbum pro verbo necesse habui reddere, sed genus omne verborum vimque 
servavi. Non enim ea me adnumerare lectori putavi oportere, sed tamquam 
appendere. (Cicerone, 46 a.C.[1889]: V-14)
5
 
L’‘interprete’ della prima riga rappresenta il traduttore letterale, che opera 
seguendo il metodo parola per parola, mentre l’‘oratore’ cerca di produrre lo stesso 
senso ed effetto del discorso originale.  
Anche il poeta latino Orazio, nella sua opera Ars Poetica (I sec a.C.) sostiene che 
“nec verbo verbum curabis reddere fidus interpres nec desilies imitator in artum, 
                                                 
3
 “la testimonianza di un’evoluzione sistematica, facilmente distinguibile” 
4
 “Questa mancanza di consecutività nella critica è probabilmente responsabile in parte della 
lentezza con cui i traduttori arrivavano a mettere in parole, in maniera chiara e inequivocabile, i loro 
obiettivi e metodi” 
5 
“[…]e non le ho tradotte come un traduttore ma come un oratore con i medesimi concetti e 
rispettandone lo stile e le figure retoriche ma con scelte lessicali adatte alla nostra mentalità. In esse 
non ho ritenuto necessario tradurre parola per parola ma ho rispettato nel loro insieme il senso e la 
forza espressiva delle parole. Giacché ritenni conveniente non elencarle al lettore ma quasi 
presentarle come pensate.” (Trad. C.Mandrillo)
4 
unde pedem proferre pudor uetet aut operis lex
6
” (vv. 133null135). In un altro famoso 
passaggio della sua opera (“Non satis est pulchra esse poemata; dulcia sunto et, 
quocumque volent, animum auditoris agunto”
7
 vv. 99null100) egli, sottolinea anche 
l’obiettivo di produrre un testo esteticamente piacevole e creativo nella lingua 
d’arrivo, un concetto che ha avuto grande influenza nei secoli successivi.  
Ai tempi dei romani la traduzione ‘parola per parola’ si effettuava sostituendo 
ciascun singolo termine della lingua d’origine (invariabilmente il greco) con il suo più 
vicino equivalente in latino, includendo il testo tradotto a fronte del testo originale 
in greco. Questa procedura si adottava per evitare il pericolo dell’assimilazione della 
cultura ellenica in un momento storico in cui le istituzioni romane volevano 
abbatterne il potere politico con un una fioritura culturale indipendente dalla Grecia. 
(Llácer  Llorca 2004:19) 
San Gerolamo condivise, alcuni secoli più tardi, questa stessa linea di pensiero: 
“Non verbum e verbo, sed sensum exprimere de sensu”, ovvero che non si deve 
tradurre parola per parola, bensì il senso del senso. Contro chi lo criticava di scrivere 
traduzioni scorrette, nella sua opera De optimo genere interpretandi (395 d.C.), egli 
descrisse la sua strategie nei seguenti termini: 
Io, infatti, non solo ammetto, ma proclamo liberamente che nel tradurre i testi 
greci, a parte le Sacre Scritture, dove anche l’ordine delle parole è un mistero, 
non rendo la parola con la parola, ma il senso con il senso (Epistulae 57, 5, trad. 
R. Palla) 
Gerolamo disprezzava tanto l’approccio letterale perché, seguendo così 
strettamente la forma della lingua d’origine, si produce una traduzione assurda, che 
maschera il senso dell’originale; mentre con l’approccio libero il senso e il contenuto 
possono essere trasmessi con maggiore efficacia. Egli si allontanava, in questo modo, 
dalla tradizione traduttiva religiosa che, soprattutto nel Medioevo, tornerà ad 
adottare un metodo letterale. 
                                                 
6
 “[…] non ti affanni a rendere parola per parola come un fedele traduttore, e se non ti riduci, da 
imitatore, in strettoie dalle quali il troppo rispetto o le esigenze artistiche ti impediscono di cavare i 
piedi” (Trad. C.Mandrillo) 
7
 “Non basta che la poesia sia bella deve suscitare e condurre il nostro spirito dove preferisce” 
(Trad. C.Mandrillo)
5 
Lo stesso tipo di preoccupazione sul metodo più corretto da adottare, sembra 
essere stato preso in considerazione in altre ricche e antiche tradizioni traduttive 
come quelle del mondo cinese e di quello arabo. 
Nella società occidentale, il problema della traduzione libera o letterale fu per più 
di mille anni dopo San Gerolamo legato alla traduzione della Bibbia e altri testi 
religiosi e filosofici. La principale preoccupazione della Chiesa cattolica era quella di 
trasmettere un unico e corretto significato prestabilito del Testo Sacro; qualunque 
traduzione divergesse dall’interpretazione condivisa ed accettata veniva considerata 
eretica e doveva essere censurata o bandita.
8
 Esse erano utilizzate come arma contro 
la Chiesa e il più evidente esempio di ciò fu il lavoro cruciale importanza di Martin 
Lutero sul Nuovo Testamento (1522) e successivamente sul Vecchio Testamento 
(1534). Lutero giocò un ruolo centrale nella Riforma Protestante e, nel contempo, 
l’uso che egli fece di un dialetto regionale e socialmente marcato aiutò in maniera 
fondamentale a rafforzare quella forma della lingua tedesca come standard.  
Nella sua traduzione della Bibbia, nella quale adottò il medesimo approccio di S. 
Gerolamo, si distanziò notevolmente metodi impiegati da alcuni suoi contemporanei 
rinascimentali, come Frate Luis de León, che ancora utilizzavano il metodo letterale.  
Infine, sebbene l’opera di Lutero non apportò sviluppi significativi al dibattito 
letterale – libero aperto più di mille anni prima, il suo contributo fu importante dal 
punto di vista dell’attenzione alla lingua e il lettore del testo tradotto: 
Man muß die Mutter im Hause, die Kinder auf der Gassen, den gemeinen 
Mann auf dem Markt drum fragen, und denselbigen auf das Maul sehen, wie 
sie reden und danach dolmetschen; da verstehen sie es denn und merken, daß 
man Deutsch mit ihnen redet” (in Störig 1963: 21, citato in Munday 2001: 
198)
9
 
                                                 
8
 L’esempio più famoso fu quello dell’umanista francese Etienne Dolet. Egli venne condannato ad 
essere arso vivo dalla facoltà di teologia della Sorbona nel 1546, apparentemente a causa di un 
errore di traduzione in un passaggio dei dialoghi di Platone. Avendo tradotto come ‘rien du tout’ 
(assolutamente niente) un’espressione che si riferiva a ciò che si trova dopo la morte, fu tacciato di 
blasfemia e accusato di non credere nell’immortalità dello spirito. 
9
 “Bisogna domandare alla madre in casa, ai bambini nelle strade, agli uomini semplici e comuni al 
mercato e osservare le loro bocche, come comunicano e poi tradurre (a voce); così capiranno e 
noteranno che si parla loro in tedesco” (Trad. S.Voncini)
6 
Alcuni passi avanti, volti a sistematizzare la teoria della traduzione, vennero 
compiuti nell’Inghilterra del diciassettesimo secolo con Dolet, Cowley, Dryden e 
Tytler, i quali, con dichiarazioni ponderate, inequivocabili nel loro obiettivo e 
significato, hanno portato ad un tipo di classificazione maggiormente basata nella 
reale pratica traduttiva. 
Uno dei primi autori a definire con chiarezza i propri principi nel lavoro di 
traduzione fu Étienne Dolet, un eccellente traduttore e brillante studioso dei classici. 
Nel suo manoscritto La manière de bien traduire d’une langue en aultre del 1540, stabilisce 
cinque principi, elencati in ordine di importanza, a cui il traduttore dovrebbe 
attenersi: il primo si riferisce alla capacità del traduttorenulllettore di comprendere 
appieno lo spirito e il contenuto dell’autore originale; il secondo riguarda il grado di 
conoscenza e competenza del traduttore nei confronti delle lingue d’origine e 
d’arrivo, che si suppone debba essere eccellente per poter comprendere e riportare 
le parole dell’autore nel migliore dei modi; il terzo punto evidenzia il punto di vista 
di Dolet riguardo alla traduzione parola per parola, che egli considera distruttiva 
rispetto al significato dell’originale e alla bellezza d’espressione; nel quarto punto 
viene indicata la necessità di evitare l’uso di forme inusuali o di prestiti, a favore di 
forme di uso comune; il quinto ed ultimo principio stabilisce che l’autore debba 
organizzare le sue scelte linguistiche e l’ordine delle parole in modo tale da dare al 
suo lavoro un tono generale appropriato, evitando una riproduzione poco elegante. 
(Nida 1964:15null16) 
L’enfasi che Dolet pone sull’importanza di un testo tradotto che sia eloquente e 
naturale è radicata nel desiderio di rinforzare la struttura e l’indipendenza nella 
nuova lingua vernacolare francese. 
Abraham Cowley, nella prefazione del suo libro Pindaric Odes (1656), attacca 
apertamente quel tipo di poesia che ‘converted faithfully and word for word into 
French or Italian prose’
10
 (Cowley citato in Ross Amos 1920[1973]: 347). Il suo 
approccio è, come egli stesso ammette, più libero e tende a modificare il testo, 
                                                 
10
 “traduce fedelmente e parola per parola nella prosa francese o italiana”
7 
creando attraverso ‘our wit or invention’
11
 un nuovo testo: Cowley ammette ‘I have 
in these two odes of Pindar taken, left out and added what I please; nor made it so 
much my aim to let the reader know precisely what he spoke, as what was his way 
and manner of speaking’
12
 (Nida 1964:17) e propone il termine imitation per questo 
suo metodo (Ross Amos 1920[1973]: 349). Secondo l’autore, adottando questa 
strategia, è possibile riprodurre nel migliore dei modi lo ‘spirito’ del testo originale. 
(Amos 1920[1973]:360null361). 
Questo approccio provocò accese e forti reazioni, in particolare da parte di un 
altro poeta e traduttore, John Dryden, la cui descrizione del processo traduttivo ha 
avuto un grosso impatto sulle teorie e la pratica della traduzione successive. Nella 
prefazione delle sue traduzioni di Epistulae di Ovidio, Dryden (Munday 2001: 25) 
riduce tutte le strategie di traduzione a 3 categorie: metafrasi, ovvero “turning an 
author word by word, and line by line, from one language into another”
13
, 
corrispondente alla denominata traduzione letterale; parafrasi, ovvero “translation 
with latitude”
14
, associata alla traduzione senso per senso (anche denominata fedele) 
propugnata da Cicerone; e imitazione, nella quale “the translator not only varies 
from the words and senses, but forsakes them both as he sees occasion”
15
 (Llácer  
Llorca 2004: 19), corrispondente al modello di Cowley (anche denominato 
adattamento).  
Dryden critica i metodi di traduttori come Ben Johnson, che adottano la 
metafrasi, poiché li considera ‘verbal copier’ (Dryden citato in Munday 2001: 25) e allo 
stesso modo rifiuta l’imitazione, in cui il traduttore usa l’opera originale come un 
‘pattern to write as he supposes that author would have done, had he lived in our 
age and in our country’
16
 (ibid.). Egli preferisce quindi la parafrasi, anche se in un 
                                                 
11
 ‘il nostro ingegno o fantasia” 
12
 “In queste due odi di Pindaro ho preso, eliminato e aggiunto ciò che volevo; non essendo il mio 
scopo principale quello di far comprendere al lettore precisamente ciò che era stato detto, quanto il 
modo e la forma in cui era stato detto”. 
13
 “tradurre un autore parola per parola, e riga per riga, da una lingua ad un’altra” 
14
 “traduzione con libertà d’azione” 
15
 “il traduttore non solo devia dalle parole e i significati, ma si allontana anche da entrambi appena 
ne vede l’occasione” 
16
 “modello per scrivere come si suppone l’autore avrebbe fatto, se fosse vissuto nella nostra epoca 
e nel nostro paese”
8 
suo lavoro successivo, ovvero la traduzione dell’opera di Virgilio, l’Eneide, si mostra 
propenso ad un tipo di traduzione a metà strada tra la parafrasi e la traduzione 
letterale: 
I thought fit to steer betwixt the two extremes of paraphrase and literal 
translation; to keep as near my author as I could, without losing all his graces, 
the most eminent of which are in the beauty of his words. (ibid.)
17
 
In generale, gli scritti di Dryden, così come quelli di altri autori dell’epoca sono 
molto prescrittivi: stabiliscono cosa deve essere fatto affinché la traduzione sia  
considerata adeguata. La triade proposta da Dryden ha marcato l’inizio di una 
definizione di traduzione più sistematica e precisa.  
Altri autori contemporanei inglesi, come Pope, ma anche francesi, come 
Batteux
18
, e tedeschi, come Herder e Schlegel, condividevano l’avversione di Dryden 
per le traduzioni letterali ed esprimevano il bisogno di una metodologia più libera 
che permettesse di esprimere al meglio  le intenzioni dell’opera originale. 
Un successivo importantissimo lavoro fu pubblicato nel 1790 da Alexander 
Fraser Tytler, Essay on the principles of translation.
19
 La sua teoria si basava su tre 
principi o regole: nel primo dichiara che una traduzione dovrebbe fornire una 
trascrizione completa delle idee del lavoro originale; il secondo principio fa 
riferimento allo stile e il modo di scrivere che dovrebbero mantenere lo stesso 
carattere di quello dell’originale; infine, nel terzo principio si afferma che la 
traduzione dovrebbe trasmettere la naturalezza della composizione e la facilità di 
lettura dell’originale. (Nida 1964: 19) 
                                                 
17
 “ho pensato fosse opportuno mantenere una distanza equa tra i due estremi della parafrasi e della 
traduzione letterale; per mantenermi quanto più possibile vicino all’autore, senza perdere tutta la sua 
grazia, in particolare quella che risiede nella bellezza delle sue parole” 
18
 Batteux (1760), sebbene in maniera più cauta, giustifica le alterazioni nel momento in cui esse 
siano realmente necessarie, ma con un’attenzione particolare, ove possibile, alla forma e all’ordine 
delle parole. 
19
 Tytler fu accusato di plagio da George Campbell. Quest’ultimo, infatti, aveva pubblicato, solo un 
anno prima, un’eccezionale opera sulla storia e le teorie della traduzione, nella quale prendeva in 
particolare considerazione la traduzione delle Sacre Scritture. Nel suo lavoro Campbell aveva 
elencato tre principi o criteri fondamentali che un traduttore doveva seguire: questi tre principi sono 
molto simili a quelli che Tytler descrisse nel suo volume The Principles of Translation dell’anno 
seguente.
9 
Rispetto alla descrizione di Dryden, orientata a mantenere lo status dell’autore 
(‘write as the original author would have written had he known the target language’), 
Tytler definisce come “ben riuscita” una traduzione orientata verso il lettore della 
versione tradotta:  
That in which the merit of the original work is so completely transfused into 
another language as to be as distinctly apprehended, and as strongly felt, by a 
native of the country to which that language belongs as it is by those who 
speak the language of the original work. (Tytler citato in Munday 2001: 26)
20
 
Il terzo principio di Tytler sicuramente rappresenta il più difficile compito di un 
traduttore e, secondo lo stesso autore, la soluzione deve essere quella di ‘adopt the 
very soul of his author, which must speak through his own organs’
21
 ed evitare 
un’imitazione scrupolosa che porterebbe alla perdita dello spirito e della naturalezza 
dell’originale.  
Un aspetto importante è tuttavia il fatto che Tytler, così come fece Dolet, indica 
un ordine di importanza, una categorizzazione gerarchica, per i suoi principi. Ciò è 
molto importante, poiché definisce chiaramente in che modo decidere quando un 
‘sacrificio’ va compiuto in nome di una giustificazione più importante. In questo 
contesto, egli legittima le aggiunte, purché queste siano pienamente giustificate; 
ovvero se “they have the most necessary connection with the original thought, and 
actually increase its force”
22
 (Nida 1964: 19); allo stesso modo, ammette le omissioni 
quando le parole sono chiaramente ridondanti e la loro omissione “shall not impair 
or weaken the original thought.”
23
 (ibid.) Tytler dà anche un intelligente consiglio sul 
problema delle zone oscure nel testo originale, sostenendo che il traduttore 
dovrebbe giudicare e selezionare il significato che meglio si accorda al contesto 
                                                 
20
 “Quella in cui il valore del lavoro originale è così completamente trasfuso nell’altra lingua da 
essere percepito da un nativo del paese cui questa lingua appartiene allo stesso modo in cui è sentito 
da coloro che parlano la lingua del lavoro originale. 
21
 ‘adottare proprio l’anima dell’autore, che deve esprimersi attraverso i suoi [del traduttore] stessi 
organi’ 
22
 “hanno una connessione fondamentale con il pensiero del lavoro originale, e di fatto ne 
accrescono la forza [espressiva]” 
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 “non deve danneggiare o indebolire il pensiero originale”
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immediato o al modo di pensare solito dell’autore. La funzione del traduttore è 
pertanto concepita come un processo nel quale  
he uses not the same colours with the original, but is required to give his 
picture the same force and effect. He is not allowed to copy the touches of the 
original, yet is required, by touches of his own, to produce a perfect 
resemblance. (ibid.) 
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precisando, tuttavia, che “To imitate the obscurity or ambiguity of the original is 
a fault and it is a greater one to give more than one meaning.” (ibid.)
25
 
 D’altro canto egli si lamenta dell’influenza che il modello di Dryden ha avuto e 
che ha portato a considerare la traduzione come un sinonimo di parafrasi, in cui 
“fidelity was but a secondary object”.
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 (ibid.) In questo senso, l’ammonizione di 
Tytler, ha chiaramente marcato la chiusura di un periodo della traduzione e l’inizio 
di un nuovo periodo, quello del diciannovesimo secolo, più focalizzato sullo status 
dell’originale e la forma espressiva nella lingua d’arrivo. 
Simbolo di questa dicotomia è stata la polemica tra Francis Newman e Matthew 
Arnold sulla traduzione di Omero. Mentre Newman enfatizza l’origine straniera 
dell’opera tramite una deliberata traduzione arcaica e nonostante ciò raggiunge un 
vasto pubblico; Arnold critica questo approccio nel suo discorso On Tranlsating 
Homer (1861), in cui sostiene l’importanza di un metodo di traduzione trasparente. 
Arnold esorta il suo pubblico ad affidarsi agli studiosi, che, come egli suggerisce, 
sono gli unici in grado di equiparare l’effetto del testo tradotto a quello del testo di 
partenza. Come fa notare S. Bassnett in Translations Studies (1980), un’attitudine così 
elitaria ha portato, da un lato, alla svalutazione della traduzione, che veniva percepita 
come impossibile, in quanto il testo tradotto non sarebbe mai stato all’altezza di 
quello originale; dall’altro lato, ha causato la marginalizzazione delle traduzioni che 
                                                 
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 “non usa gli stessi colori dell’originale, ma gli si richiede di trasmettere attraverso la sua immagine 
la stessa forza ed effetto. Egli non è libero di copiare i tratti dell’originale, tuttavia è necessario che, 
attraverso suoi propri tratti, riproduca una perfetta somiglianza.” 
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 “imitare le oscurità e l’ambiguità dell’originale è un errore ed è un errore ancora più grande 
trasmettere più di un significato.” 
26
 “la fedeltà non era altro che un obiettivo secondario.”
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venivano scritte solo per una selezionata élite. Questa preferenza per la lettura 
dell’opera in lingua originale è rimasta radicata in Gran Bretagna fino ai giorni nostri.  
Durante il Romanticismo la fioritura delle lingue nazionali come prodotto della 
formazione di nuovi Stati, spinse  i teorici della traduzione e il pubblico in generale 
ad un rifiuto delle lingue straniere, in favore di quelle nazionali; e produsse, di 
conseguenza, un ritorno verso il letteralismo a danno dell’imitazione neoclassica: 
“Le temps des traductions infidèles est passé. Il se fait un retour manifeste verse 
l’exactitude du sens et la literalité.” (Leconte de Lisle citato in Llácer Llorca 2004: 
20)
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Nel 1813 il teologo e traduttore tedesco Friedrich Schleiermacher scrisse un 
importante trattato sulla traduzione: Über die verschiedenen Methoden des Übersetzens. 
Schleiermacher viene riconosciuto come il fondatore della moderna teologia 
Protestante e del moderno “modello ermeneutico”, un approccio romantico 
all’interpretazione, basato non su una verità assoluta, bensì sui sentimenti profondi e 
sulla comprensione individuale.  
Egli distingue in primo luogo due diversi tipi di traduttore che lavorano su due 
diversi tipi di testo: il Dolmetscher, che traduce testi commerciali, e il Übersetzer, che si 
occupa di testi didattici, accademici ed artistici. Questa seconda categoria è 
considerata dall’autore ad un più alto livello creativo, poiché rafforza l’uso della 
lingua. Sebbene possa apparire impossibile la traduzione di un testo accademico o 
artistico – poiché il significato dell’originale è strettamente legato alla lingua in cui è 
scritto e alla cultura da cui proviene, cui il testo tradotto non potrebbe mai 
pienamente corrispondere – la domanda reale, secondo Schleiermacher, è come 
mettere in comunicazione l’autore del TO e il lettore del TT. Egli va oltre il 
problema della traduzione letterale, fedele o libera e considera che ci sono solo due 
percorsi che il vero traduttore può intraprendere: “Entweder der Übersezer läßt den 
                                                 
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 “Il tempi delle traduzioni infedeli è passato. Vi è un chiaro ritorno verso l’esattezza del senso e la 
letteralità”
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Schriftsteller möglichst in Ruhe, und bewegt den Leser ihm entgegen; oder er läßt 
den Leser möglichst in Ruhe und bewegt den Schriftsteller ihm entgegen.”
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La strategia prescelta da Schleiermacher è la prima, ovvero quella di “spostare” il 
lettore verso l’autore. Questo implica che non si debba riprodurre il testo come se 
l’autore l’avesse scritto nella lingua e nell’epoca del lettore, ma, anzi, bisogna dare a 
chi legge la stessa impressione che il lettore del testo avrebbe avuto leggendo il testo 
in lingua originale (Llácer Llorca 2004: 43). Per ottenere ciò il traduttore deve 
adottare una strategia ‘alienante’, opposta a quella ‘naturalizzante’, orientata a 
valorizzare il linguaggio e il contenuto del testo straniero. 
Lo stesso Schleiermacher presenta alcune osservazioni riguardo al proprio 
modello. Una di queste considera che se è vero che il traduttore deve trasmettere la 
stessa impressione che egli stesso ha percepito dall’originale, è altrettanto vero che 
questa impressione dipenderà dal livello di istruzione e di comprensione del 
pubblico lettore, che probabilmente differirà notevolmente dal livello di 
comprensione proprio del traduttore. In un’altra osservazione l’autore sostiene la 
necessità di un ‘linguaggio speciale della traduzione’ che utilizzi, si espressioni più 
fantasiose e creative, che altre più standardizzate e automatiche. 
Il rispetto di Schleiermacher per il testo originale ha avuto un’influenza 
considerevole sugli studiosi fino ai nostri tempi. Infatti Kittel e Polterman 
sostengono che praticamente ogni moderna teoria della traduzione, almeno per ciò 
che riguarda l’area linguistica tedesca, si rifà, in un modo o nell’altro, alle ipotesi di 
Schleiermacher: le considerazioni sui differenti tipi di testo sono importanti nella 
distinzione di Reiß delle tipologie di testo, mentre le due tecniche opposte 
dell’‘alienazione’ e ‘naturalizzazione’ sono state riprese da Venuti nelle strategie di 
‘foreignization’ e ‘domestication’. 
Infine, la sua visione del ‘linguaggio della traduzione’ è condivisa da Walter 
Benjamin e la descrizione dell’ermeneutica della traduzione viene applicata alla 
‘hermeneutic motion’ di George Steiner. 
                                                 
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 “O il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e muove il lettore verso di lui; o lascia il 
più possibile in pace il lettore e muove lo scrittore verso di lui.” (Trad. S.Voncini) 
[Schleiermacher, Wilhelm (1838): “Über die verschiedenen Methoden des Übersetzens.” pp. 207null5, in: 
Friedrich Schleiermachers sämmtliche Werke. Dritte Abtheilung: Zur Philosophie. Tomo II. Berlin]