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effettivo della sua comparsa - le sue origini si perdono tra gli eventi 
dell’Ottocento - la mafia ha un preciso luogo d’origine e di insediamento, 
anche se poi, con il passare del tempo, si è ramificata in più zone, sia in 
Italia sia nel resto del mondo. Lo stesso termine, nonostante venga oggi 
usato con riferimento a contesti sociali apparentemente molto diversi tra 
loro (Cina, Russia, Giappone), è ancora associato a manifestazioni tipiche 
del nostro Mezzogiorno. Valori quali la famiglia, il rispetto, l’onore e la 
vendetta, inoltre, sebbene “presi in prestito” dalla società, in particolare da 
quella siciliana, all’interno della quale godono di un grande consenso 
sociale, subiscono una reinterpretazione strumentale da parte della mafia, 
che li riutilizza secondo precisi scopi. 
   Per molti anni è stata negata l’esistenza della mafia, intesa come società 
segreta non omologabile alla comune criminalità organizzata; quando 
ormai l’intera società civile era consapevole della presenza del fenomeno 
mafioso, è arrivata anche la prima ammissione ufficiale da parte della 
Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso in Sicilia 
che, solo in seguito a numerosi anni di ricerche, pubblicherà nel 1976 i 
risultati delle informazioni raccolte sull’organizzazione. Tali ammissioni 
pubbliche si rivelano molto importanti: infatti, oltre ad aver finalmente 
ammesso l’esistenza della mafia da un punto di vista giuridico, da un lato 
hanno decretato la pericolosità del fenomeno, dall’altro hanno 
rappresentato un punto di partenza per l’offensiva contro lo stesso.  
   Il silenzio così a lungo mantenuto attorno alla mafia ne ha facilitato la 
proliferazione: non considerata un fenomeno reale, spesso ritenuta 
solamente una creazione letteraria o giornalistica, non si è mai fatto molto 
 8
per contrastarne l’espansione. L’atteggiamento tenuto dalla popolazione e 
dalle autorità pubbliche è stato, a volte, di totale indifferenza: la tendenza è 
stata quella di negarne l’evidenza, anche quando quest’ultima era 
comprovata da fatti più che tangibili. Questo atteggiamento di noncuranza 
mostrato dagli apparati statali nasconde, spesso, dei legami molto stretti di 
affinità tra la mafia e la politica. 
   A questo punto, si può fare un paragone: l’invisibilità e la poca attenzione 
di cui ha così a lungo goduto Cosa Nostra è paragonabile alla poca 
considerazione che ha ottenuto il ruolo delle donne all’interno della stessa 
organizzazione. 
   Affrontare un tema come quello delle donne e la mafia ha significato 
cercare di andare oltre due tipi di barriere che la mafia ha innalzato per 
proteggersi dalle infiltrazioni esterne, al fine di garantire la propria 
sopravvivenza; la prima di queste barriere è costituita dal silenzio e dalla 
segretezza di cui l’organizzazione mafiosa si è sempre circondata. La 
sacralità di cui questi valori sono stati investiti ha contribuito enormemente 
al loro rispetto, dando un apporto rilevante alla sopravvivenza mafiosa. La 
seconda barriera è, invece, legata al mondo femminile e alle poche parole 
che su di esso sono state spese e che ad esso sono state attribuite. 
   Le donne dell’organizzazione mafiosa hanno vissuto le loro esistenze 
doppiamente nascoste; il poco interesse, anche da parte della stessa 
giustizia, sempre dimostrato nei loro riguardi va attribuito, anzitutto, al loro 
presunto ruolo di secondo piano in Cosa Nostra. Il mondo femminile, 
invece, non è mai stato completamente estraneo all’ambiente mafioso: le 
donne, infatti, oltre a ricoprire funzioni simboliche importanti dentro Cosa 
 9
Nostra, sono state, per lo più, complici nelle attività illecite 
dell’organizzazione. È quindi innegabile una loro partecipazione attiva alle 
mansioni mafiose, mascherata dagli stereotipi che sostenevano a gran voce 
“Nella mafia non ci sono donne” o “Le donne non sanno”. 
   Il mondo legato alla mafia è caratterizzato anche da figure positive come 
le donne che, dopo aver vissuto a lungo nel terrore e nella sofferenza e, 
molto spesso, aver sperimentato sulla propria pelle la morte di qualche 
persona cara, hanno deciso di uscire da questa prigionia e di schierarsi dalla 
parte della giustizia. Le testimonianze, le collaborazioni con la giustizia, il 
sostegno ai familiari pentiti e le proteste in piazza di cui sono state 
protagoniste, hanno contribuito in modo significativo alla nascita e 
all’evoluzione del movimento antimafia. Queste donne sono portatrici di un 
messaggio importante: “Tra uccidere e morire c’è una terza via, vivere” 
(Siebert, 1994a). La mafia può essere sconfitta. 
 
   La tesi si articola in tre parti distinte; la prima “La mafia: un fenomeno 
complesso”, composta di quattro capitoli, delinea un ritratto generale 
dell’organizzazione mafiosa. In particolare, il primo capitolo si sofferma 
sul nome ed il concetto di “mafia”, sulla sua etimologia, sul suo potere 
evocativo e, infine, sui particolari e diversi nomi che sono stati associati al 
fenomeno mafioso nel corso della sua evoluzione. 
   Nel capitolo successivo si indaga sull’origine del fenomeno mafioso; 
vengono poi ripercorsi i momenti più significativi della sua espansione, 
mettendo in rilievo i particolari eventi storici che hanno contribuito al suo 
sviluppo. 
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   Il terzo capitolo descrive i motivi per cui la mafia può essere ritenuta ben 
più di una semplice organizzazione criminale, vale a dire un vero e proprio 
microcosmo totalitario che si adegua ai caratteri di efficacia ed efficienza 
richiesti a qualsiasi impresa capitalistica. Cosa Nostra, poi, a differenza di 
quanto è stato a lungo creduto, è un’associazione complessa, ben diversa da 
quell’immagine stereotipata che la vuole composta di individui che cercano 
di enfatizzare i valori tipicamente siciliani. Si tratta, a tutti gli effetti, di una 
forma di criminalità organizzata. Infine la mafia può essere considerata 
un’organizzazione a suo modo “giuridica”, dotata di un regolamento il cui 
rispetto è assicurato da meccanismi effettivi di sanzione. 
   Nel quarto capitolo, infine, dedico spazio ad una prospettiva storica sulla 
nascita e sullo sviluppo del movimento antimafia, rilevando come la sua 
origine corrisponda a quella della mafia e come la sua storia sia parallela a 
quello della mafia stessa. La prima parte si conclude con una panoramica 
generale sull’attuale movimento contro la mafia. 
   Nella seconda parte del lavoro si affronta il tema della mafia attraverso 
una lettura di genere: il primo capitolo, in cui viene analizzato il codice 
della mafia, è dedicato alla dimensione più simbolica del fenomeno. Si 
descrivono i vari rituali della società segreta, il significato della famiglia 
nel pensare mafioso e il parallelismo che associa l’organizzazione alla 
famiglia. Ciò che si vuole dimostrare è che i significati dei vari rituali, il 
potere ed il controllo all’interno del gruppo sembrano avere una 
connotazione prettamente maschile; nonostante ciò il femminile rientra, 
sotto molti aspetti, nel codice culturale della mafia. 
 11
   Al tema delle donne nella società meridionale, ed in particolare in quella 
siciliana, è dedicato il secondo capitolo; dopo un’analisi degli eventi 
strutturali che, negli ultimi anni, hanno generato dei profondi cambiamenti 
nella condizione delle donne meridionali, mi soffermo sui caratteri specifici 
della situazione delle donne del Sud, in particolare sulla valorizzazione che 
esse costruiscono del femminile e della funzione materna. Viene poi 
descritto il ruolo del mondo femminile, sia nell’ambito familiare sia nella 
dimensione pubblica, il potere prettamente simbolico che è attribuito alle 
donne in entrambi i campi e le poche opportunità tradizionalmente loro 
concesse di esprimere la propria individualità. In conclusione, si sottolinea 
il grande potenziale sociale di cui queste donne sono portatrici, la loro 
predisposizione alla sperimentazione e all’innovazione di gran lunga 
superiore a quella degli uomini - tutti aspetti oggi sottolineati dai nuovi 
ruoli sociali che esse vanno assumendo, legati alla crescita dei loro livelli 
educativi. Il confronto fra tre generazioni di donne del Sud, infine, aiuta da 
un lato a comprendere i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni nella 
società femminile meridionale, dall’altro mette in luce il forte legame che 
le giovani donne mantengono ancora con la propria famiglia e con i valori 
tradizionali. 
   La terza parte è dedicata interamente al ruolo delle donne nell’universo 
mafioso. Dopo una breve analisi psicanalitica, nel primo capitolo, di come i 
rapporti di potere e le gerarchie interne alla mafia rispecchino le relazioni 
di dominio tra i due generi nella vita di tutti i giorni, si entra nel tema delle 
“Mafia Donna”. Il fatto che Cosa Nostra, persino a detta dei suoi affiliati, 
sia sempre stata un’organizzazione maschile non ha concesso molte 
 12
opportunità alle donne di esercitare un ruolo attivo al suo interno; tuttavia, 
non si può negare l’esistenza di alcune funzioni che sono di pertinenza 
esclusiva delle donne. Queste ultime, infatti, sono di fondamentale 
importanza nella trasmissione della cultura, in particolare di quella mafiosa, 
alle nuove generazioni, oltre ad essere anche le depositarie della memoria 
familiare. Rappresentano, poi, un’importante merce di scambio nelle 
strategie matrimoniali e sono ottime intermediarie per la risoluzione di 
conflitti o per eventuali richieste esterne alla famiglia d’origine. Infine, la 
loro immagine è utilizzata come garanzia per il buon nome del marito o 
dell’intera famiglia mafiosa. C’è da considerare, inoltre, che la funzione 
materna del soggetto femminile è considerata con grande deferenza da 
parte di tutti gli uomini del Sud e dai mafiosi in particolare; tale deferenza, 
sotto certi aspetti, assume quasi le sembianze della paura che si manifesta 
davanti a coloro che si reputano più forti. Ciò dimostra che la mafia 
riconosce un certo potere alle donne; è bene ricordare, tuttavia, che questo 
potere non è associato alla loro individualità, ma è riconosciuto unicamente 
in funzione del ruolo svolto. L’autorità femminile può essere esercitata in 
modo limitato, esclusivamente in relazione all’esercizio di ruoli specifici. 
   Il fenomeno del pentitismo ha enormemente contribuito alla distruzione 
dello stereotipo secondo il quale le donne sono completamente estranee alle 
faccende di mafia. Esse, infatti, non solo si sono dimostrate a conoscenza di 
molti aspetti segreti dell’organizzazione, ma hanno coperto o sostenuto gli 
affari dei propri congiunti fino a partecipare direttamente, come è stato 
provato da più fonti, ad alcune attività. La loro presenza sulla scena 
mafiosa nel ruolo non soltanto di fedeli compagne, ma di supplenti, 
 13
prestanomi, intermediarie e imprenditrici, rimasta a lungo coperta, negli 
ultimi anni è venuta sempre più alla luce, contribuendo ad un’importante 
svolta: l’attività delle donne in ambito mafioso è stata ritenuta punibile 
anche dal punto di vista penale. E’ pur vero, tuttavia, che la maggior parte 
di queste donne di mafia, - le cui storie sono raccontate nel terzo capitolo - 
per quanto numerose e in bilico tra estraneità e complicità al mondo di 
Cosa Nostra, si è trovata quasi sempre in una condizione di subordinazione 
rispetto al mondo maschile. Sono infatti eccezioni le donne che hanno 
avuto un ruolo da vero leader nell’organizzazione. 
   Accanto a questa tipologia di donne di mafia troviamo esempi, sempre 
più numerosi, di donne che hanno scelto di schierarsi contro la mafia, 
poiché stanche di vivere in un mondo caratterizzato dall’onnipresenza della 
morte e della sofferenza. Alla loro esperienza è dedicato il quarto capitolo. 
Tra loro troviamo quelle che hanno accettato di condividere la vita 
“blindata” dei loro congiunti divenuti collaboratori di giustizia; ma 
troviamo anche le collaboratrici di giustizia, utilizzando la terminologia 
usata per i mafiosi maschi. La maggior parte di queste donne sono vedove, 
orfane, madri a cui sono stati uccisi i figli, che solo dopo un avvenimento 
traumatico come la morte violenta di un loro congiunto passano dal lutto 
privato alla testimonianza pubblica. Ciò che le accomuna è, quindi, 
l’esperienza della morte.  
   Le “donne contro la mafia”, legate che siano a famiglie mafiose o 
viceversa a uomini uccisi perché combattevano la mafia, compiono una 
scelta consapevole. Uno dei motivi principali che spingono queste donne a 
rinnegare e a condannare l’universo mafioso è la sete di vendetta verso gli 
 14
assassini dei propri cari; tuttavia, dietro a questo desiderio si nasconde, di 
solito, una disperata richiesta di giustizia, necessaria per ristabilire un 
equilibrio nella propria vita.  
   Le donne sono inoltre le custodi della memoria, inclusa quella dei 
defunti; a loro è affidato il compito di ricordare: danno anima e corpo per 
far in modo che i morti non siano dimenticati. Questo è specialmente 
importante per le vittime della mafia: la loro memoria costituisce un forte 
incentivo verso il cambiamento. 
   I centri, le associazioni e le manifestazioni contro la mafia nascono 
soprattutto dall’emozione suscitata da alcuni delitti. Le risposte della 
società civile alla mafia, anche se eterogenee e discontinue nel tempo, sono 
state numerose; al loro interno, la componente femminile è presente fin dai 
primi anni ’80.  
 
 15
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
PARTE PRIMA 
LA MAFIA: UN FENOMENO COMPLESSO 
 16
Capitolo Primo 
 
Il nome e il concetto 
 
 
1. Mafia 
 
   Le origini della parola mafia sono tuttora incerte; è certo però che, fin 
dalla metà dell’Ottocento, in numerose fonti di vario tipo, si trova 
testimonianza della presenza di raggruppamenti mafiosi in Sicilia; tra 
queste fonti ci sono principalmente racconti di viaggiatori, analisi di 
studiosi e funzionari dello Stato, composizioni letterarie e documenti 
giudiziari e di polizia. 
   La menzione più antica di sodalizi mafiosi nell’isola risale al 1838; essa è 
contenuta in un rapporto scritto dal Procuratore Generale del Re, Pietro 
Calà Ulloa, al Ministro della Giustizia del Regno borbonico delle due 
Sicilie (Tessitore, 1997; Paoli, 2000). 
Analoghe considerazioni vengono fatte anche da Leopoldo Franchetti, 
l’aristocratico liberale toscano che, insieme a Sidney Sonnino, si reca nel 
1876 in Sicilia per studiarne le condizioni. Nel volume pubblicato l’anno 
seguente, Franchetti nega l’esistenza di un’unica setta segreta di malfattori, 
ma segnala la presenza di numerose associazioni regolarmente costituite 
con statuti, regole per l’ammissione, sanzioni penali, associazioni destinate 
all’esercizio della prepotenza e alla ricerca di guadagni illeciti (Lupo, 1993; 
Paoli, 2000). 
 17
   I riferimenti più rilevanti a gruppi mafiosi strutturati sono stati trovati in 
una serie di articoli e volumi pubblicati negli ultimi due decenni 
dell’Ottocento, scritti da diversi osservatori, la maggior parte dei quali 
ruota attorno alla “Scuola di Antropologia Criminale” di Lombroso. 
Nonostante le tesi esplicative proposte siano oggetto di numerose critiche, 
questi studiosi forniscono dei resoconti dettagliati e generalmente 
attendibili delle compagnie mafiose scoperte e sottoposte a giudizio in quel 
periodo. Nella prima edizione del libro “La Maffia” l’ufficiale di polizia 
Giuseppe Alongi
 
descrive le associazioni di malfattori attive lungo le coste 
dell’isola, mentre la seconda edizione viene ampliata riportando i casi 
giudiziari del tempo. Tra questi, troviamo i sodalizi mafiosi che nel corso 
degli anni Settanta dell’Ottocento spadroneggiano nella zona settentrionale 
della Conca d’Oro; da queste testimonianze emergono alcune similitudini 
tra i rituali e la struttura organizzativa di queste associazioni mafiose e 
quelli descritti dai collaboratori di giustizia dei nostri giorni (Paoli, 2000)
1 
.  
   Recentemente, Lupo ha scoperto un documento inedito di grande 
interesse, conosciuto come il “Rapporto Sangiorgi”, che consiste in una 
collezione di trentuno rapporti di polizia stilati tra il novembre del 1898 e il 
febbraio del 1900 dall’allora Questore di Palermo Armando Sangiorgi con 
l’intenzione di delineare un quadro d’insieme della criminalità mafiosa nei 
dintorni della città. L’agro palermitano, afferma il Questore, è funestato da 
una vasta associazione di malfattori, organizzati in sezioni, divisi in gruppi, 
ognuno dei quali regolato da un capo; a queste compagnie di malviventi è 
                                                 
1
 Se si desiderano informazioni più accurate sulle notizie contenute in questi documenti, si consiglia di 
consultare i seguenti volumi: L. Franchetti, Condizioni politiche ed amministrative della Sicilia, 
Vallecchi, Firenze, 1974; C. Lombroso, L’uomo delinquente Bocca, Torino, 1896; G. Alongi, La maffia, 
Sellerio, Palermo, 1977. 
 18
preposto un capo supremo. Secondo questo rapporto, le cosche sono dotate 
di regole precise e formali e di un personale amministrativo; gli aderenti 
pagano regolarmente una quota associativa e si riuniscono per prendere 
tutti insieme le decisioni più importanti circa gli affari del gruppo. 
   Già dalla prima metà dell’Ottocento esiste, quindi, una serie di fenomeni 
eterogenei, ma per certi versi complementari, ai quali non è stato ancora 
attribuito un nome preciso. Tessitore (1997) ritiene che nella società 
siciliana, ancora prevalentemente rurale, sono già presenti molti dei 
connotati di quello che modernamente viene definito fenomeno mafioso, la 
cui nascita va collocata in epoca anteriore al 1860, mentre l’uso del 
vocabolo mafia e dei suoi derivati, sia pure con un’accezione diversa 
rispetto a quella abituale, comincia a diffondersi, a Palermo, più tardi nel 
tempo. D’altra parte, sarebbe un errore clamoroso pretendere che alle prime 
embrionali forme di manifestazione di una varietà variegata e composita 
come quella mafiosa, debba necessariamente corrispondere subito l’utilizzo 
del nome che le sarebbe stato, in seguito, concordemente attribuito. Sempre 
secondo lo studioso esiste la cosa (il fenomeno mafioso) ed esiste il nome 
(mafia): il matrimonio tra i due è celebrato da Giuseppe Rizzotto su un 
palcoscenico del teatro Sant’Anna nel 1863. Il primo ad utilizzarla in una 
fonte certa e documentabile sembra, infatti, essere stato il capocomico 
Giuseppe Rizzotto autore, con la collaborazione del maestro elementare 
Gaetano Mosca, dell’opera dialettale “I mafiusi de la Vicaria” ambientata 
presso le Grandi Prigioni del capoluogo isolano
2
. Anche Gambetta (1993) 
sostiene che l’origine più probabile del vocabolo mafia sia legata all’opera 
                                                 
2
 Il testo integrale della commedia è rinvenibile in S. Di Bella, Risorgimento e mafia in Sicilia: “I mafiusi 
della Vicaria”, Cosenza, 1991. 
 19
teatrale di Rizzotto; secondo una fonte, probabilmente apocrifa, l’idea di 
utilizzare questo termine viene all’autore quando sente per caso, in una 
strada di Palermo, una voce irritata che dice: “Chi vurrissi fari u mafiusu cu 
mia?” (Vuoi fare il prepotente con me?).  
   I protagonisti dell’opera di Rizzotto godono di un rispetto particolare da 
parte dei compagni di reclusione e possono imporre, nell’ambiente 
carcerario, norme di comportamento poiché membri di un’associazione con 
determinate usanze e fortemente gerarchica. Ma, fatto tutt’altro che 
trascurabile, nell’opera si parla sempre dei “mafiosi” e mai della “mafia”, 
ancora realtà non ben precisa e conosciuta. Rizzotto delinea il mafioso 
come un malandrino e ne descrive le forme e le regole di vita, il gergo e le 
abitudini, la mentalità ed il costume stesso nel vestire e nell’atteggiarsi. 
  Molti autori ritengono quindi che quest’opera sia responsabile della 
diffusione di una parola che oggi è entrata a far parte del linguaggio 
comune; le ragioni di tale espansione si devono, in gran parte, al grande 
successo della rappresentazione che viene riprodotta per cinquantacinque 
volte soltanto nel 1863, e messa in scena almeno duemila volte nel corso 
dei ventuno anni di tournée nei teatri meridionali e romani. 
   Lo Monaco (1990) sostiene, a sua volta, che il sostantivo “mafia” deriva 
dall’aggettivo “mafioso”. Usato al maschile, “mafiusu”, nella Sicilia 
dell’Ottocento, significa prepotente, arrogante, ma anche impavido, 
intraprendente e orgoglioso. L’esistenza di parole simili, nei dialetti del 
Piemonte e della Toscana, potrebbero indicare altre strade attraverso cui il 
termine ha attecchito nel resto d’Italia. In piemontese l’aggettivo “mafiun” 
significa, tra le altre cose, rozzo, zotico, ostinatamente silenzioso, 
 20
incurante, mentre in fiorentino il sostantivo mafia significa miseria: queste 
parole possono essere facilmente fuse con il significato che il termine ha 
nell’opera di Rizzotto. 
   Si può giungere alla conclusione che, se da un lato la parola “mafia” ha 
avuto origine da una fonte letteraria che si è vagamente inspirata al 
fenomeno reale, dall’altro lato non è errato affermare che la parola ha 
contribuito alla creazione del fenomeno in almeno due maniere. In primo 
luogo, essa ha fornito agli individui un nome con cui identificare un 
conglomerato indistinto, facendo così in modo che se ne potesse parlare. In 
secondo luogo, il nome ha creato un vero e proprio “marchio di qualità”, 
rendendo così possibile associarsi ad una entità che gode di una 
reputazione, negativa per gli esterni, ma altisonante per i potenziali affiliati. 
Nonostante il vocabolo, molto probabilmente, sia stato inventato 
dall’esterno, non significa che esso non possa essere stato adottato da 
coloro che vi si identificavano: l’identità di gruppo si rafforza in rapporto 
agli esterni, anche quando gli appartenenti al gruppo non hanno contribuito 
alla definizione del fenomeno cui sono partecipi (Gambetta, 1993).