4
 
 Nella seconda parte (capp. 4-5) proporremo uno studio su una di 
queste tecnologie, la rete Internet, che costituisce, secondo noi, una 
specie di framework riassuntivo di tutte le più importanti tecnologie 
legate al computer oggi esistenti e quindi un modello, sia pure ancora 
allo stato embrionale, di una loro massiccia integrazione in un unico 
mezzo di diffusione. Daremo perciò una descrizione della struttura e 
dei principali servizi della rete Internet, adottando contestualmente un 
approccio storico e accennando nel corso della trattazione ad alcune 
delle (attualmente prevedibili) prospettive future, sia in generale nel 
mondo che in particolare nel contesto italiano. 
 
Nella terza parte (cap. 6) infine, presenteremo i risultati di una nostra 
indagine empirica condotta, con il metodo dell’osservazione parteci-
pata, su un insieme di utenti della rete Internet membri di due liste di 
distribuzione postali (mailing lists). Lo scopo principale dell’indagine 
era quello di verificare se questo particolare uso di un medium come la 
posta elettronica può determinare differenze nell’interazione tra per-
sone e nella struttura dei gruppi che si formano rispetto a quanto si ve-
rifica tipicamente nell’interazione faccia a faccia. 
 5
 
 
 
 
 
 
 
 
PARTE I  
 La comunicazione come interazione 
 6
§2. Il paradigma trasmissivo 
 
 
 
 
 
 
 
 Il termine comunicazione assume tradizionalmente due significati 
principali, ed entrambi mettono l’accento sulla creazione di un qualche 
tipo di “comunanza” tra persone. 
 Il primo è di origine senz’altro più antica e fondamentale, ed è quel-
lo legato al “mettere in comune” gli oggetti (non le idee o i pensieri 
delle persone) o al “partecipare insieme” a un evento. E’ un significato 
che si richiama a strutture sociali comunitarie. 
 Solo secondariamente, e come metafora del primo, appare il signifi-
cato di “rendere comuni” idee e pensieri, più vicino al concetto odier-
no di comunicazione, il cui riferimento non è più la comunità intesa 
come dato scontato, ma gli individui come interlocutori pensati isola-
tamente. 
 Se si guarda alla storia della parola a partire dalla sua derivazione 
latina, si nota che il secondo significato ha acquisito, con l’andar del 
tempo, una sempre maggiore importanza, fino a diventare il significa-
to primario. 
 7
2.1  Un’analisi semantica del termine “comunicazione” 
 
 “Comunicare” deriva infatti dal latino communicare (dall’aggettivo 
communis, <<comune, che appartiene a parecchi>>, ma anche <<affa-
bile e cortese>> e, sostantivato <<comunità, nazione, bene comu-
ne>>). Il primo significato di communicare è appunto: <<mettere in 
comune qualche cosa>> e poi <<accomunare, dividere (cose tra per-
sone), fare o essere partecipe di, prender parte a, condividere>>. C’è 
sempre un accento sull’esistenza o sulla produzione di una comunanza 
fra persone.  
La base di tutto ciò era la communitas, ovvero la <<condizione comu-
ne>> dei membri di una comunità, data per scontata e connotata posi-
tivamente: communitas significa infatti anche <<socievolezza, 
affabilità>>.  
La comunanza poi è riferita prima di tutto a oggetti e solo secondaria-
mente a eventi o a comunicazioni, e questo è degno di nota per chi vo-
glia fare ipotesi sull’origine del modo di intendere la comunicazione 
come trasmissione o trasferimento di informazioni. Infatti i verbi latini 
transmittere e transferire, da cui hanno origine i nostri “trasmettere” e 
“trasferire”, si riferiscono prima di tutto proprio allo spostamento “da 
qui a là” di oggetti. 
 Solo il secondo significato di communicare (<<abboccarsi, consi-
gliarsi con uno>> e anche <<aver rapporti>>) ha a che fare con una 
comunicazione in un senso più simile al nostro, e precisamente con la  
 8
conversazione
1
. 
 In epoca paleocristiana e medioevale, prevale ancora il significato 
legato al mettere in comune e alla vita di comunità. Il termine commu-
nicare assume qui anche un preciso significato rituale, quello di <<av-
vicinarsi all’altare per prendere la comunione>>. 
 Durante l’epoca moderna, lo sviluppo dapprima dei mezzi di tra-
sporto di persone e cose, e poi di mezzi di trasmissione delle informa-
zioni, apre nuove possibilità per la “comunanza” tra persone. Di con-
seguenza, i nuovi mezzi assumono una connotazione comunicativa: si 
parla così di mezzi di comunicazione e vie di comunicazione. 
 Il riferimento originario alla comunanza permane ancora oggi, ma 
non più tanto nel senso di mettere in comune oggetti, quanto idee e 
pensieri. Nel 1941, il dizionario di italiano Zingarelli (VII Edizione, 
Zanichelli, Bologna 1942) definiva “comunicare” come <<far parteci-
pe, rendere comune ad altri, dividere insieme>> e “comunicazione” 
come <<partecipazione, mezzo di corrispondere, impulso, trasmissio-
ne, passaggio>>, prendendo esempi prima dalle vie di comunicazione 
ferroviarie, stradali e marittime, e poi da quelle telegrafiche, telefoni-
che e aree [Volli 1994, 17]. 
 Sotto la voce “Comunicazioni” del Grande Dizionario Enciclopedi-
co della UTET (2
a
 ed., 1954-1964, vol. III), vengono trattate prima di 
tutto le comunicazioni terrestri, per via acquea e aerea, poi quelle po-
stali e telegrafiche e alla fine le più recenti radio e televisione. 
                                          
1
 Per i termini latini citati vedi il Vocabolario della lingua latina di Luigi Castiglioni e Scevola 
 
 9
 Lo Zingarelli del 1970 (X Edizione, Zanichelli, Bologna 1974) de-
finisce “comunicare” come <<rendere comune, trasmettere>>, <<som-
ministrare o ricevere la comunione>>, <<essere in relazione, in 
comunicazione>> non solo di uomini ma anche di luoghi, <<condivi-
dere o trasmettere pensieri>>. I significati <<mettere qualcosa in co-
mune>> e <<far vita comune>> sono marcati come desueti. “Comuni-
cazione” è definita invece come <<atto del comunicare, trasmettere ad 
altri>>, oppure come <<collegamento>> nel senso di <<mezzo attra-
verso il quale persone e cose comunicano tra di loro>>. La XII edizio-
ne dello stesso vocabolario (lo “Zingarelli 1996”) aggiunge un signifi-
cato al termine “comunicazione” mantenendo inalterati gli altri. Tale 
significato è riferito agli elaboratori e recita <<processo mediante il 
quale si trasmettono informazioni, con appositi segnali, da un sistema 
all’altro>>. L’Enciclopedia Universale Garzanti ‘96 (ottobre 1995), 
spiega il termine “comunicazione” tramite la rielaborazione fatta da 
Roman Jakobson [1966] dello schema di un sistema di comunicazione 
di Shannon e Weaver [1983, 6], da lui adattato alla comunicazione 
umana. Tramite la sua rielaborazione, Jakobson definisce la struttura 
(elementi) e le funzioni della comunicazione, ma non fa distinzione tra 
segnale e messaggio, come nota anche Volli [1994, 21-24]. 
 
 Gradualmente, all’immagine della comunanza si è affiancata quin-
di, e con forza uguale se non superiore, quella del passaggio, del mo-
                                                                                                                   
Mariotti, Loescher, Torino, XXVI Edizione, 1980. 
 10
vimento, del trasferimento, dapprima di cose e persone e poi, per 
analogia, di informazioni. Alla base del paradigma trasmissivo sta 
quindi la metafora di un passaggio di oggetti o di uno scambio di 
“fluidi” (la famosa metafora idraulica) e di conseguenza l’ipotesi che 
la comunicazione consista nel trasferimento di un messaggio come se 
fosse un oggetto, ovvero nel “trasporto” di un contenuto di coscienza 
della sorgente nella coscienza del destinatario.  
 
 Mano a mano però l’idea di comunicazione si complessifica alquan-
to. I progressi più consistenti riguardano la crescente importanza teo-
rica data ai concetti di contesto della comunicazione e di aspettative 
dei comunicanti. In particolare queste ultime, che includono cono-
scenze, atteggiamenti, condizioni psicologiche momentanee e così via, 
non permettono di pensare ai codici comunicativi come a un qualcosa 
di indipendente dai soggetti. Diventa sempre più chiaro perciò che non 
si può pensare la comunicazione come se si trattasse di un semplice 
passaggio di oggetti. 
 La terminologia corrispondente però fatica un po’ ad adattarsi. In 
Ricci Bitti e Zani [1983] ad esempio troviamo che per avere un atto 
comunicativo sono necessari almeno sei fattori: <<l’emittente, cioè chi 
produce il messaggio, un codice, che è il sistema di riferimento in base 
al quale il messaggio viene prodotto, un messaggio, che è 
l’informazione trasmessa e prodotta secondo le regole del codice, un 
contesto in cui il messaggio è inserito e a cui si riferisce; un canale, 
cioè un mezzo fisico-ambientale che rende possibile la trasmissione 
 11
del messaggio, un ricevente (o ascoltatore) che è colui che riceve e in-
terpreta il messaggio>> (vedi sotto figura 2-a) e definiscono la comu-
nicazione <<in prima approssimazione (...), il processo che consiste 
nel trasmettere o nel far circolare delle informazioni, cioè un’insieme 
di dati tutti o in parte sconosciuti al ricevente prima dell’atto comuni-
cativo>> [id., 23]. Si dà per scontato che emittente e ricevente condi-
vidano lo stesso codice, perché solo così può aver luogo il processo di 
decodifica, cioè di comprensione del messaggio. Tale definizione, in-
troducendo i concetti di contesto e di interpretazione, supera un’idea 
puramente trasmissiva di comunicazione, ma non fa an cora una chiara 
 
Figura 2-A. Componenti della comunicazione secondo Ricci Bitti e 
Zani 
Fonte: Ricci Bitti e Zani [1983, 23] 
 
distinzione tra i concetti di informazione, segnale, messaggio e signi-
ficato, così come tra quelli di sorgente e trasmittente da un lato e di ri-
cevente e destinatario dall’altro. 
Emittente Messaggio
Ricevente
CANALE CONTESTO 
codifica decodifica 
(CODICE) 
 12
2.2  La comunicazione secondo Shannon e Weaver 
 
 Lo schema di un sistema della comunicazione riportato sopra, ha le 
sue origini nel fondamentale lavoro di Claude E. Shannon e Warren 
Weaver pubblicato nel 1949 col titolo The Mathematical Theory of 
Communication, che costituirà una delle basi della allora nascente 
scienza cibernetica [Wiener 1982]. Nella prima parte di tale opera 
Weaver dà una definizione generale della comunicazione come pro-
cesso di influenza, ovvero come comprendente <<i procedimenti at-
traverso i quali un meccanismo (...) entra attivamente in rapporto con 
un altro meccanismo>> e in un senso ristretto ai fenomeni umani 
<<tutti i procedimenti attraverso i quali un pensiero può influenzarne 
un altro. (...) di fatto, qualunque comportamento umano>> [Shannon e 
Weaver 1983, 1]. 
 La definizione (e quindi la teoria) è di portata generale ed ha potuto 
perciò essere adattata, per proprio uso, da molte discipline (biologia, 
psicologia, sociologia, linguistica, informatica e così via), ben al di là 
del campo di origine delle discipline ingegneristiche. Oltre alla gene-
ralità, un’altra ragione del grande successo transdisciplinare di cui ha 
goduto questa teoria è la sua definizione della comunicazione come 
processo di influenza, concetto in pratica equivalente a quello di cau-
salità. Secondo Weaver, infatti, <<per qualsiasi definizione sufficien-
temente ampia di comportamento appare chiaro che o la comunicazio-
ne determina un comportamento oppure risulta del tutto priva di qual-
sivoglia comprensibile e probabile effetto>> [Shannon e Weaver 1983, 
 13
4 corsivazione nostra]. Se a ciò aggiungiamo la pretesa dello stesso 
Weaver di ridurre i problemi della comprensione e dell’efficacia di 
una comunicazione all’esatta trasmissione di simboli, vediamo subito 
come il paradigma della comunicazione così inteso non sia altro che 
un semplice caso particolare del paradigma causa-effetto classico. 
 
 Con tali premesse, ci si poteva anche aspettare che i due paradigmi 
divenissero in fondo indistinguibili, che la comunicazione stessa cioè 
fosse intesa solo come un particolare processo causale e il sistema cor-
rispettivo come una macchina a stati determinati. Il nuovo paradigma 
cibernetico sarebbe stato così solo una versione un poco più comples-
sa (non unidimensionale e non lineare) del vecchio paradigma causale. 
 Ciò è avvenuto solo in alcune delle discipline (vicine alle cosiddette 
hard sciences) che hanno adottato tale modello della comunicazione, 
ma non in tutte. I motivi sono vari e riconducibili al contesto culturale 
generale dal quale la teoria matematica della comunicazione sorgeva e 
nel quale poi andava a impattare, in parte già preesistenti e in parte 
successivi alla sua comparsa. Tra essi, il rifiuto epistemologico della 
validità universale del principio di causalità lineare semplice, lo statu-
to epistemologico particolare della coscienza e della società come fe-
nomeni non spiegabili in modo naturalistico-causalistico (la fenome-
nologia trascendentale ad esempio), l’introduzione nella biologia del 
concetto di complessità e di modelli del vivente che non seguono il 
meccanicismo classico (degli animali-macchina alla Descartes, per in-
tenderci), la diversa complicazione dei differenti modelli cibernetici e 
 14
così via. Tutto ciò ha portato, fra l’altro, a un mutamento proprio dei 
concetti di influenza (ad esempio si distinguono “sistemi”, per cui ciò 
che avviene “dentro” non dipende in modo diretto da ciò che avviene 
“fuori”) e di macchina (ad esempio si distinguono macchine autopoie-
tiche da macchine allopoietiche) [per la definizione di autopoiesi e al-
lopoiesi vedi Maturana e Varela 1985 e 1987; per l’applicazione del 
concetto di autopoiesi alla sociologia vedi Luhmann 1987 e 1989; Lu-
hmann e De Giorgi 1992]
 2
. Ripercorreremo perciò brevemente i punti 
salienti di tale teoria, per mostrare come alcuni assunti semplificatori, 
del tutto leciti nel contesto in cui la teoria era nata (i laboratori della 
Bell Telephone Corporation) non siano accettabili se applicati alla 
comunicazione umana e sociale. Questa operazione ci servirà per co-
struire uno sfondo sul quale far risaltare le caratteristiche interattive 
della comunicazione, di cui parleremo nel prossimo capitolo. 
                                          
2
 Il paradigma causale e quello sistemico si possono vedere come metodi equivalenti di spiegazio-
ne degli eventi. Secondo il primo paradigma il mondo consiste di una catena di cause ed effetti che 
non può essere spezzata in nessun punto per dire che vi è un “dentro” e un “fuori”. Se si ammetto-
no confini e sistemi in questo paradigma, è solo per fini espositivi, ma senza rilevanza teorica, per-
ché per principio qualsiasi differenza interno-esterno può essere dissolta in una catena di cause 
(inputs e outputs). Il paradigma sistemico invece spezza la catena causale ponendo i confini già 
come concetti paradigmatici. In questo modo può tentare di semplificare le spiegazioni distin-
guendo tra cause esogene (che non vengono a loro volta spiegate) e cause endogene (che dipendo-
no dal sistema). 
 15
2.2.1  I problemi della comunicazione 
 
 Weaver scompone il fenomeno della comunicazione in tre livelli, 
ognuno con un suo specifico problema di riferimento: 
 ξ  Livello A trasmissione dei simboli. Problema “tecnico”: riguarda il 
grado di esattezza con cui si possono trasmettere i simboli della 
comunicazione. 
 ξ  Livello B trasmissione del significato. Problema “semantico”: ri-
guarda il grado di precisione con cui i simboli trasmessi trasferi-
scono il significato desiderato. 
 ξ  Livello C induzione di un comportamento. Problema 
“dell’efficacia”: riguarda il grado di efficacia con cui il significato, 
giunto al destinatario, induce un comportamento nel senso desidera-
to dalla sorgente [Shannon e Weaver 1983, 2]; 
 
 Weaver poi introduce lo schema base di un sistema di comunica-
zione distinto nelle sue componenti essenziali [Shannon e Weaver 
1983, 6]. Secondo tale schema, un sistema della comunicazione è 
composto da una sorgente di informazione, che sceglie un messaggio 
tra vari possibili e lo invia a un trasmettitore (o trasmittente, o emit-
tente), il quale lo codifica in un segnale, che viene inviato tramite un 
canale (o mezzo, ad esempio l’aria per un messaggio verbale) ad un 
ricevitore (o ricevente). Il mezzo (o medium), e di conseguenza il se-
gnale, normalmente viene disturbato da eventi casuali, cosicché il se-
gnale ricevuto sarà diverso da quello inviato. Ma se la codifica è stata 
 16
fatta in modo da tener conto di tale effetto, se la capacità del canale è 
adeguata e se il disturbo è probabilisticamente prevedibile
3
, si può ri-
durre il possibile equivoco a una quantità piccola a piacere
4
. Il ricevi-
tore decodificherà il segnale ricevuto ricostruendo così il messaggio 
iniziale, che invierà finalmente a destinazione (al destinatario). 
 
                                          
3
 A tale proposito, in cibernetica si fa una distinzione tra disturbo, che ha caratteristiche prevedibi-
li e quindi eliminabili, e rumore, che ha caratteristiche non prevedibili [Carlà 1967]. 
4
 Non ci sono limiti tecnici cioè, ma solo temporali ed economici: quanto più si vuol ridurre 
l’errore, tanto più lunga e costosa deve essere la codifica [vedi Shannon e Weaver 1983, 19]. Ciò 
significa in pratica che ci si deve accontentare di precisioni “accettabili” e che non si possono uti-
lizzare canali “troppo” disturbati.