UNA PREMESSA
Perchè una storia della letteratura critica su Alighiero Boetti?
Fino a qualche mese fa, ad essere sincera,   non avevo mai sentito parlare di Alighiero 
Boetti. Nei quattro anni passati a studiare nell'università precedente mi erano mancate le 
basi della Storia dell'Arte che in questo ultimo anno a Roma mi sono state date. Durante 
una delle lezioni con la professoressa Subrizi,   tra le numerosissime immagini che ci 
venivano proiettate sullo schermo, la mia attenzione venne attratta da una in particolare. 
Si trattava di una vecchia foto in bianco e nero che raffigurava due persone molto simili 
che si tenevano per mano lungo un viale alberato. Il titolo era Gemelli. Mi sono chiesta 
chi saranno mai questi due gemelli che si tengono per mano? Alighiero&Boetti, fu la 
risposta.  Mi sembrava   un fatto  singolare,  una coppia  di  artisti   fratelli  e  per  di  più 
gemelli. Poi iniziai ad informarmi, senza alcun motivo apparente, leggendo qua e là su 
internet.   Sembrerà   sciocco,   ma   da   subito   ebbi   la   certezza   che   sarebbe   stato   lui   il 
protagonista  della  mia   tesi.  Poi  mi  capitò  di   andare   a  marzo  a  Venezia  per  vedere 
"Italics.  Arte  italiana tra tradizione e rivoluzione,  1968 2008",  curata da Francesco 
Bonami. La prima opera in mostra non si trattava di "All"(2008), di Maurizio Cattelan, i 
nove corpi coperti da un lenzuolo in marmo di Carrara, che ti accoglievano all'ingresso 
di  Palazzo Grassi.  Era,   invece,  proprio  un'opera  di  Boetti.  Non riuscendo a   trovarla 
dovetti chiedere. Mi risposero che si vedeva dalla finestra a fianco al guardaroba, che 
dava  direttamente   sul   canale.  A  quel  punto   lo  vidi,   il   suo  Autoritratto   (1993),  una 
scultura   in   bronzo,   a   grandezza   naturale,   surriscaldata   all'altezza   della   testa   da   un 
dispositivo di resistenze elettriche, le quali, a contatto con il getto d'acqua che fuoriesce 
da un tubo retto in mano, provocano nuvole di vapore. Nella didascalia c'era scritto che 
l'opera era   stata   ideata  negli  anni   '70,  ma  realizzata  solo nel  1993.  Avrebbe dovuto 
essere l'emblema della creatività della sua testa fumante, ma per uno strano scherzo del 
destino ha rappresentato anche un'amara riflessione sulla vita dell'artista, morto per un 
tumore al cervello nel 1994. Da quel momento ho deciso di scoprire di più della sua 
vicenda artistica, della sua vita, del suo pensiero, ed ho scoperto un mondo. Anzi ho 
scoperto una visione del mondo, molto più ampia e sfaccettata, una visione globale che 
ti insegna a prenderlo per ciò che è, e a cercare di migliorarlo con le piccole cose, i gesti 
minimi, le "felici coincidenze", come era solito chiamarle lui, quelle misteriose affinità 
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che si trovano al di sotto di tutto, quello scheletro, quel modo di funzionare che deve 
essere alla base di ogni cosa. Vederlo non è poi così difficile, basta aprire la propria 
mente a nuove esplorazioni, liberarsi dei preconcetti, delle gabbie del pensiero, delle 
limitazioni prestabilite, delle catalogazioni che cercano di continuo di inscatolare tutto 
l'infinito flusso della vita. Ma, poiché ho imparato che non si parla senza cognizione di 
causa, mi è sembrato interessante conoscere prima cosa è stato detto su di lui, in tutti 
questi anni, dalla prima mostra del 1967, fino ad oggi, sui quotidiani, sulle riviste d'arte, 
nei cataloghi. Pensieri dei critici per la maggior parte, ma anche di semplici giornalisti, 
di   altri   artisti   a   lui   vicini   o   che   a   lui   devono  molto,   come   ad   esempio  Francesco 
Clemente e Maurizio Cattelan. Ho così scoperto che Boetti, nel corso della sua attività, 
volle   raccogliere   le  opinioni  di  molte  persone nei   riguardi  del   suo   lavoro,  mentre   i 
discorsi   critici   specifici   gli   interessavano   meno.   Alla   vigilia   di   ogni   pubblicazione 
invitava amici e conoscenti a scrivere un breve saggio sull'insieme della sua attività o su 
un lavoro in particolare. Le divagazioni di  costoro venivano a loro volta a costituire 
un'opera all'interno del  volume.  Questo tipo di  approccio rende onore all'artista,  ma 
presenta alcuni limiti. Mentre tutti gli altri artisti della sua generazione dispongono di 
cataloghi voluminosi, che affrontano in modo puntuale la genesi e le ripercussioni del 
loro   lavoro,  da  questo  punto  di  vista   la  bibliografia  di  Alighiero  Boetti   si  presenta 
volutamente povera. È stato l'artista a volere così.
Questo breve scritto non è  altro che un piccolo tentativo di seguire  il   filo di queste 
innumerevoli divagazioni, interventi, pensieri sparsi, di tutti coloro che, chi più e chi 
meno, sono stati vicini all'artista, lo hanno conosciuto, hanno trascorso un tratto di vita 
con lui. È come se per voler conoscere una persona che non c'è più, magari un parente, 
scomparso quando si era ancora troppo piccoli, mi sia messa ad ascoltare tutti i racconti 
di coloro che l'hanno conosciuto, aneddoti, critiche, ricordi. Lo scopo non è fine a sé 
stesso.  Tutto  è   finalizzato a  quello  che sarà   il   tema della   tesi  di  Laurea Magistrale, 
sempre incentrata su di lui, ma in un modo più approfondito, più personale. Il presente 
lavoro, perciò, non vuole assolutamente avere la pretesa di essere esaustivo, ma vuole 
solo  essere  un   tentativo di  mettere  "ordine  nel  disordine"  degli   scritti  critici  che   lo 
riguardano.
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INTRODUZIONE
Tracciare un storia della letteratura critica riguardo Alighiero Boetti non è un'impresa 
facile.  Lo scopo della  mia ricerca,  come già  accennato,  è   tentare di  dare un ordine 
sistematico e cronologico agli scritti critici che di volta in volta hanno trattato un artista 
tanto eclettico quanto a tratti geniale, nell'arco della sua breve (19401994), ma intensa 
vita. Alla sua morte le 10000 cose che aveva realizzato  non erano che una piccola parte 
di quello che aveva in mente e che avrebbe voluto compiere. Porre l'attività artistica di 
Boetti   in   delle   schematizzazioni   non   sarebbe   rendergli   giustizia.   Il   suo   pensiero   è 
sempre andato in orizzontale, utilizzando tutte le forme d'arte e a volte inventandole. 
Tommaso Trini,  che ne è  stato uno dei critici più   lucidi,  nel descrivere la sua opera 
sintetizza:
"Un'opera che è  un'insieme di fatti disparati,  di eventi di tempo, di scarti 
continui che talvolta inanellano un ciclo di contraddizioni, di coincidenze. 
Manca in Boetti quell'unità spesso imposta che permette di verticalizzare il 
pensiero a scapito delle sue espansioni laterali. […] La descrizione del suo 
lavoro   può   terminare   qui:   è   una   delle   rare   opere   che   che   invita   a   una 
discussione in cui nulla sia taciuto o dato per scontato."1
 I suoi molteplici interessi, tra i quali la matematica, la filosofia, l'esoterismo, l'Oriente, 
rendono il quadro ancora più complesso. Con tutta probabilità da un studio rigoroso di 
tutta   l'enorme mole  del   suo   lavoro,  parte  del  quale  è   anche  spesso  andato  perduto, 
l'unica regola generale che si può ricavare è che Boetti non aveva regole. Amava il gioco 
e l'ironia e a volte ci rendiamo conto che forse è stato un giocatore molto più scaltro di 
noi, quando, ad esempio, ci arrendiamo di fronte all'impossibilità di risolvere uno dei 
suoi rebus. Per capire la sua opera è necessario lasciarsi tutte le conoscenze acquisite 
fino ad ora alle spalle, come suggeriva Giovan Battista Salerno nella prefazione di un 
dialogo a tre con Rinaldo Rossi e Andrea Marescalchi:
1 Tommaso Trini, Abeeghiiioortt, in "Data" n.4, maggio 1972.
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"Nessuno   di   noi   è   un   sacerdote,   il   custode   di   una   specie   di   ortodossia 
boettiana,  ma noi sappiamo di  parlare  di  un artista  unico proprio perchè 
quasi niente del nostro sapere precedente al suo incontro ci è stato utile per 
capire  la verità  della sua opera.  Ciò  sia detto a critica di quanti  usano a 
proposito di Boetti le categorie ermeneutiche dell'arte e dell'estetica..."2
Ciò che più lascia meravigliati di fronte a uno dei suoi lavori è l'incredibile semplicità 
dell'idea   di   fondo.   Citando   Maurizio   Fagiolo   Dell'Arco,   Boetti   "con   l'implacabile 
inventività del bambino lavora nella massima libertà e spregiudicatezza." L'essenzialità 
del suo lavoro risiede nella " gioia di scoprire il mondo intorno a sé".3
Ed è con le idee che più ama lavorare. Punta sulla creatività, trae le sue intuizioni dagli 
innumerevoli dati fornitegli dall'esperienza, costituendo in questo modo un database di 
spunti che non ha fine. La realtà è solo il punto di partenza che lo porta ad analizzare le 
infinite analogie tra   le cose più piccole, più elementari, i gesti minimi. Il percorso a 
ritroso lungo questi itinerari lo porta a svelare il senso profondo, più nascosto delle cose, 
provocandogli   un'esaltazione   continua   anche   per   ciò   che   siamo   ormai   abituati   ad 
esperire come il noioso e opaco quotidiano. Ed è proprio dall'inizio di queste azioni in 
apparenza banali che traccia una autoironica ma altrettanto seria cronologia dei suoi 
primissimi esordi:
"Nel 1948 strappai un grosso foglio di carta marrone ed ottenni piccoli pezzi 
quadrangolari,   che   ammucchiai   e   con   cui   eressi   una   colonna   piuttosto 
instabile. Nel 1954 lisciai un cartone ondulato che aveva la superficie di un 
metro   quadrato.   Invece   dal   1957,   interrottamente,   uso   lisciare   la   carta 
argentata delle scatole di sigarette.[…] Nel 1950 circa venti piccoli bicchieri 
da gelato, che avevo raccolto con difficoltà, furono incastrati l'uno con l'altro 
in modo da formare un arco. […] Un mucchio di sabbia alto circa 30 cm 
sorse nel 1949 ad Alasso, dove del resto scavai anche un grosso buco fino ad 
incontrare l'acqua. […]"4
2  Giovan Battista Salerno, Rinaldo Rossi, Andrea Marescalchi (a cura di), Alighiero e Boetti (catalogo mostra), 
Studio Gian Galeazzo Visconti, Milano, 8 marzo31 maggio 2006
3 Maurizio Fagiolo Dell'Arco, Boetti: il principio di non averne, in "Il Messaggero", Roma, 22 giugno 1975
4 Alighiero Boetti, testo pubblicato da Germano Celant nel 1967, in  Eine KunstGeschichte in Turin 19651983. UNA 
STORIA D’ARTE A TORINO 19651983 ölnischer Kunstverein, Köln, 8 ottobre13 novembre 1983
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Dall'esperienza dell'arte povera 
alla “nausea per l'oggetto”
In   realtà   la   prima   mostra 
personale   di   Alighiero   Boetti   si 
tenne alla Galleria Christian Stein 
di  Torino,  nel  gennaio del  1967. 
Le   opere   di   quel   periodo, 
potrebbero   essere   considerate 
vicino  al  minimalismo.  All'anno 
precedente risaliva l'opera  Lampada annuale (1966),  una luce che si accede una volta 
l'anno per 11 secondi in un momento imprecisato, in cui veramente l'idea è tutto e come 
egli   stesso   ha   definito   "espressione   non   dell'avvenimento,   ma   dell'idea 
dell'avvenimento". In mostra erano presenti anche il pannello con la scritta Ping Pong 
(1966), in cui l'alternarsi del movimento luminoso rimandava ad immagini e suoni che 
in realtà non c'erano, e Mimetico (1966), nient'altro che un tessuto mimetico stampato,  a 
suo dire un vero e proprio "ready made". È  Tommaso Trini a parlare di questo esordio, 
in un'intervista su "Domus", proprio del gennaio del '675. Il critico definisce l'opera di 
Boetti   come   un   "en   plein",   qualcosa   che   nel   calcolo   delle   probabilità   espressive 
rappresenta un risultato definito nell'ambito dell'infinito combinatorio. E' subito chiaro 
che il fruitore è costretto continuamente a cambiare prospettiva, poiché si trova di fronte 
ad opere indipendenti tra loro e che non si limitano ad un solo campo di valori: sono 
posti allo stesso livello valori plastici, cromatici e costruttivi. Vi sono opere, come la 
Scala (1966)  e la  Sedia (1966)  che mettono   in crisi il nostro rapporto con l'oggetto, 
poiché una manipolazione dell'artista ci rende l'oggetto quotidiano qualcosa di altro, non 
più utilizzabile per salire o sedere, ma sposta l'attenzione alla pura  fruizione estetica. Vi 
sono poi alcuni moduli costruttivi come il Mazzo (1966), la Catasta (1966) e il  Rotolo 
(1966) che per risultato non danno un' informazione esatta, ma costituiscono un accordo 
sulle   convenzioni   comunicative   del   linguaggio.   Tommaso   Trini   recensirà   la   mostra 
anche in "Bit"6, definendo la prima personale di Boetti come una mostra catalogo, in cui 
5 Tommaso Trini, Boetti o la ricostruzione non costruita, in "Domus", n. 457, Milano gennaio 1967.
6 Tommaso Trini, Alighiero Boetti, in "Bit", n. 1, Milano, marzo 1967 (recensione mostra)
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A I S N
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N S T
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vi sono tante idee quanti i pezzi. Al suo esordio l'artista si presenta con sei o sette idee, 
realizzate in quasi trenta pezzi diversi l'uno dall'altro. Un antisistema con il quale Boetti 
vuole   affermare   la   sua   non   adesione   a   nessun   sistema.   Rifiuta   di   porsi   all'interno 
dell'evoluzione   storica   e  di  dedicarsi   ad  un'univoca  evoluzione  personale.   In  questo 
modo l'opera è  condotta alle sue estreme conseguenze: l'aperto operare. Trini mette, 
però, in guardia Boetti, ricordando che una ruota di bicicletta, una pala da neve e un 
orinatoio hanno creato una categoria, il ready made, che è ancora la base intellettuale di 
quasi tutti i movimenti artistici.  Basterebbe solamente un'altra mostra fatta di oggetti 
tutti differenti per fare in modo che venga trovato il filo che li cuce, che l'antisistema 
venga sistematizzato. Sta solo  all'artista, perciò, fornire il suo filo, proprio così come ha 
fatto Duchamp.
Neanche a distanza di un anno Boetti espone nella sua seconda personale, alla Galleria 
la Bertasca di Genova. Già i primi commenti critici testimoniano come i fondamenti 
dell'opera di  Boetti   siano stati  ben recepiti.  Celant,  nello scritto  Per i  ciechi   tutto è  
improvviso7  punta   l'attenzione   soprattutto   sugli   aspetti   del   lavoro   dell'artista   che   lo 
avvicinano al gruppo dell'Arte Povera. Boetti, tra un'arte complessa ed un'arte povera, 
avrebbe scelto la "povertà", la semplicità, l'essenzialità degli elementi concreti dell'uomo 
e della natura. Il fine ultimo è quello di spogliare l'immagine della sua ambiguità, per 
sottolinearne il significato fattuale e primario. È   bene evitare di cadere nell'errore di 
cercare dietro le immagini dei significati simbolici, dei fini secondari che allontanino 
l'attenzione  da  ciò   che   l'oggetto   contestualmente  è.   Il   discorso,  però,   non   si   riduce 
neanche ad una semplice apologia dell'oggetto. Il materiale permette di sottolineare il 
senso compositivo,   la   formazione e  mai   l'effetto.  Queste  composizioni  non risultano 
essere nient'altro rispetto a ciò che sono. Di conseguenza l'unica azione  a cui ci si può 
limitare di fronte ad esse è la costatazione, l'analisi, senza mai tentare di pervenire ad 
una   sintesi.   Boetti   non   inventa   nulla,   poichè,   come   ricorda   Tommaso   Trini8, 
probabilmente non c'è più nulla da inventare. L'artista si limita a rivelarci come i suoi 
blocchi, o i cubetti, o i fogli di eternit, pur essendo oggetti apparentemente differenti tra 
loro, in realtà partecipano, sotto la superficie, ad uno strutturarsi di tutte le parti in un 
unico insieme. Sarà  Boetti stesso, in una intervista con Sandro Lombardi, a svelarci 
7 Germano Celant, "Per i ciechi tutto è improvviso", testo per il catalogo Galleria La Bertasca, ed Masnata 
n.5,Genova, dicembre 1967, pp.913.
8 Tommaso Trini, Blocchi che sbloccano, testo per il catalogo galleria la Bertasca, op. cit., pp.2125.
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questo piccolo segreto:
"[…] Bisogna capire che il meccanismo del mondo in definitiva è unico, e si 
sviluppa   attraverso   vari   procedimenti   e   attraverso   aspetti   diversificati   in 
qualsiasi realtà.[…] Bisogna allora riuscire a percepire questa unicità nelle 
cose,   invece   di   frammentarle   sempre   in   categorie   e   classificazioni,   e 
soprattutto in antitesi del tipo buono/cattivo,  bianco/nero etc. Le cose sono 
sempre estremamente miscelate."9
Henry Martin10 consta poi come di fronte a questi "elementi primi", Boetti opera in un 
modo altrettanto primario, accentuando ciò che questi materiali hanno di elementare. I 
concetti con cui lavora vengono trattati come se fossero appena stati scoperti. Boetti ci 
riporta indietro nel tempo e si identifica con l'uomo delle caverne di Bertrand Russel, 
quando per la prima volta si rende conto che i suoi piedi ed un paio di scoiattoli morti 
hanno   qualcosa   in   comune,   il   concetto   del   numero   due.   Ciò   su   cui   lavora   è   la 
modificazione concettuale interna di queste cose, che lo porta in quello stato di euforia 
dato dal costatare che il mondo è più grande e più ricco di come ci si era immaginati. Il 
suo desiderio, come lui stesso ha dichiarato, è di ricostruire quelle prime scoperte che 
portarono l'uomo da ciò che era a ciò che è, unito alla trasmissione del desiderio di fare 
nuove scoperte che porteranno l'uomo da ciò che è a ciò che vorremmo che fosse. Tutto 
questo è evidente nel suo lavoro, anche attraverso il rapporto tra le idee e i materiali e 
implicitamente nei materiali stessi. 
Tra   la   prima   personale   e   la   seconda   alla   Galleria   la   Bertasca   partecipa   a   tutte   le 
collettive dell'Arte Povera. A quella curata da Germano Celant e Aldo Passoni nella 
Galleria Civica d'Arte Moderna di Torino11, segue Arte poveraI'm Spazio, sempre alla 
Galleria la Bertasca di Genova.12 Con gli altri artisti del gruppo, in questa fase iniziale 
del suo viaggio, si trovava in sintonia, ma ad un certo punto li abbandona. Racconta in 
un'intervista a Mirella Bandini:
9 Sandro Lombardi (a cura di)  "Alighiero Boetti Dall'oggi al domani", ed L'Obliquo, Brescia, 1988.
10 Henry Martin, testo per il catalogo Galleria la Bertasca, op. cit., pp. 1520.
11 Germano CelantAldo Passoni (a cura di), Museo Sperimentale d'Arte Contemporanea, Galleria Civica d'Arte 
Moderna, Torino, dal 26 aprile 1967 
12 Germano Celant (a cura di), Arte povera. Imspazio, Galleria La Bertesca, Genova, 27 settembre20 ottobre 1967 
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