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Capitolo primo 
L’uomo e la morte 
 
1.1 La coscienza della morte 
 
La specie umana, come sostiene Voltaire, «…è la sola che sa di dover morire, ed essa lo sa solo 
attraverso l’esperienza
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». Questa esperienza ci è fornita dalla morte altrui poiché si tratta di un 
evento che non possiamo sperimentare in prima persona. L’essere umano vive come se non 
dovesse mai morire: è conscio dell’esistenza della morte ma nel profondo nega che tale 
avvenimento possa riferirsi anche a sé stesso. Questo processo psichico è stato denominato 
negazione da Freud. Con la morte altrui si innesca un sentimento di apprensione, si fa esperienza 
dell’avvenimento e ci si rende conto che si è tutti soggetti al morire. Questo morire non viene però 
interpretato come un “io muoio” ma come un “si muore”. In pratica siamo coscienti di dover 
morire tutti prima o poi ma l’evento è riferito ad un anonimo “si” e non ad un “io” che ci riguarda 
in prima persona. Inoltre si tende sempre a considerare la morte come un qualcosa di naturale, 
che prima o poi avverrà ma che per il momento non ci minaccia personalmente. Questa ipotesi 
sarebbe troppo dolorosa per il nostro Ego ed è quasi impossibile da concepire consciamente in 
quanto la morte è assenza completa dell’Io. Dal momento in cui moriamo non cessiamo infatti di 
esistere, ma diveniamo assenti in quanto corpi morti. Anche per questo, quindi, è impossibile 
sperimentare la morte, che è qualcosa che va oltre la nostra esperienza e si tramuta in assenza. 
Qualcosa di ignoto e che assoggetta l’essere umano, il quale cerca di reprimere questo pensiero 
tenendosi sempre occupato in qualcos’altro. 
Questo nostro distacco dalla morte è esemplificato molto bene ne La morte di Ivan Il’ič, racconto 
scritto da Lev Tolstoj nel 1886. Nel primo capitolo alcuni magistrati vengono a conoscenza della 
morte di un collega, Ivan Il’ič Golovin. La notizia fa scalpore per pochi minuti e non tanto per il 
dispiacere arrecato dalla perdita, bensì per la curiosità dei colleghi che si domandano chi occuperà 
il suo posto. Poco dopo tornano tutti alle loro mansioni, grati di essere in buona salute e ben 
lontani dal morire. L’unico giudice che resta colpito dalla notizia più degli altri è Petr Ivanovic, che 
aveva studiato giurisprudenza con Ivan. Egli vuole fare le sue condoglianze alla vedova e recarsi 
alla funzione. Nota fin da subito che la famiglia è circondata da un clima di insofferenza e la vedova 
gli chiede di poter conferire in privato. Credendo che il suo intento sia quello di parlargli del marito 
defunto Petr accetta – di malavoglia – solo per senso del dovere. In realtà l’intento della vedova è 
un altro: essa non esita infatti a domandargli come poter aumentare la quota della pensione di 
reversibilità. Venuto a conoscenza dalla donna che l’amico aveva sofferto fino alla fine per dei 
dolori strazianti (probabilmente si trattava di cancro ma l’autore lo lascia solo intendere), Petr 
prova un senso di disagio che riesce infine a scacciare pensando che in fondo non è accaduto a lui. 
Durante l’intera funzione non riesce mai a posare il suo sguardo sul cadavere ed è uno dei primi ad 
uscire dalla camera mortuaria. Dopo essersi congedato cerca di lasciarsi tutto alle spalle, recandosi 
a casa di un amico per giocare a carte. 
La parte successiva del racconto è tutta incentrata sul defunto. Vengono descritti gli studi che Ivan 
ha compiuto, il suo pessimo rapporto con la moglie, il suo lavoro ed il diffondersi della malattia. 
Il giudice, dopo un periodo di crisi economica, ottiene un posto di lavoro ben retribuito a San 
Pietroburgo e decide di acquistare un nuovo appartamento, arredandolo come più gli piace, tanto 
                                                           
Voltaire, Dizionario filosofico, 1764.
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che impiega la maggior parte del tempo ad organizzare il progetto. Un giorno, mentre sta 
mostrando al tappezziere come gradisce piazzare le tende, cade dalla scala e sbatte un fianco 
contro la maniglia della finestra. In un primo momento prova solo un leggero dolore ma col 
passare del tempo iniziano delle fitte sempre più acute ed ogni medico gli da una diagnosi diversa. 
Ivan non capisce di quale male soffra ma la situazione peggiora progressivamente, il suo umore si 
intetrisce ed i rapporti con la moglie peggiorano sempre di più. Infine è costretto ad assumere 
oppiacei e ad aumentare sempre di più la dose perché il dolore diventa insostenibile. 
Ivan sa che deve morire e trova ingiusto doverlo fare soffrendo da solo, a causa di una tenda, con 
l’unica compagnia del suo devoto servo. La cosa che più lo innervosisce è che nessuno intorno a lui 
ammette che è un uomo morto; non ha la compassione di nessuno, né dei suoi cari né del medico 
che continua a non volergli dare il suo giudizio. L’unico che prova compassione per lui è il servo 
Gherassim, il quale si ferma nella sua stanza anche per tutta la notte, sorreggendogli le gambe per 
alleviare il dolore. 
Durante gli ultimi giorni Ivan riflette sul senso della vita. Teme di aver condotto la sua esistenza nel 
modo sbagliato. Per un istante è speranzoso di poter guarire ma subito dopo inizia un pianto 
straziante, seguito da tre giorni di urla e di dolore. È certo di aver vissuto nel modo sbagliato e 
l’unico rimedio è quello di non far più soffrire ai suoi cari una dolorosa agonia. Non teme più la 
morte. Essa sembra scomparire lasciando al suo posto una luce. Ivan muore ed il racconto si 
conclude con una morale cristiana: il protagonista ritrova la pace espiando le proprie colpe. 
La morte di Ivan Il’ič racconta dell’esperienza personale della morte in tutte le sue fasi, dalla 
scoperta della malattia allo spirare del protagonista. Questi riesce, alla fine, a convincersi della 
propria mortalità e passa dal “si muore” allo “io muoio”. Gli altri personaggi invece, essendo in 
ottima salute, non sono in grado di sviluppare questo pensiero e concludono che tutto sommato 
non è affar loro. Inoltre vi è un clima di insofferenza nei confronti del malato perché risveglia nei 
suoi conoscenti come una fastidiosa consapevolezza della morte. E questa negatività viene 
proiettata sul malato che si ritrova a soffrire da solo. 
Dal racconto emerge che l’esperienza della morte si fa attraverso quella degli altri, cioè mediante il 
lutto. L’esperienza del lutto ha la conseguenza di creare un senso di smarrimento nel gruppo dei 
superstiti, i quali provano individualmente un senso di insicurezza riguardo la propria esistenza. 
Per esorcizzare questo senso di angoscia entrano in gioco sia la componente mitico-religiosa sia 
quella rituale-operativa. Secondo la prima il defunto esiste sotto una nuova forma – ad esempio 
quella di antenato – e non tronca drasticamente i rapporti con la comunità, oppure continua a 
vivere nell’aldilà. La seconda componente invece riguarda i rituali del lutto e le norme 
comportamentali che ne conseguono e che sono in stretta correlazione con la prima. 
 
 
1.2 Il cordoglio 
 
Nel linguaggio comune “cordoglio” e “lutto” vengono spesso erroneamente considerati sinonimi. 
Entrambi indicano la conseguenza di una perdita o di un distacco che si ha con la morte di un caro. 
Tuttavia cordoglio e lutto si differenziano tra di loro in maniera molto sottile, ovvero entrambi si 
riferiscono ad atteggiamenti assunti di fronte ad una perdita con la differenza che il cordoglio 
riguarda la sfera psichica mentre il lutto è determinato da una serie di pratiche sociali e 
comportamentali finalizzate a superare tale perdita e ad esaurirsi nel tempo. Possiamo quindi dire 
che il lutto corrisponde alla quantità di cordoglio provato dalla persona interessata ed in base a 
questo avremo un certo tipo di comportamenti e di reazioni. Inoltre possiamo distinguere il 
cordoglio come fenomeno che agisce all’interno della psiche e il lutto come manifestazione 
esterna di esso. Etimologicamente “cordoglio” deriva dal latino cordolium, con cor che indica il
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soffrire interiore e il gesto di battersi il petto in segno di sofferenza e dolium che significa “dolere”. 
“Lutto” invece corrisponde in latino a luctus, che a sua volta deriva da lugere, cioè “piangere”. Le 
dinamiche del cordoglio sono state studiate e interpretate in sede psicoanalitica da Sigmund 
Freud, il quale nel 1917 pubblicò il saggio Lutto e melanconia. L’autore identifica come melanconia 
lo stato di depressione in cui si precipita quando si subisce un lutto. Secondo lo psicanalista il lutto 
è un fenomeno normale, mentre la melanconia è uno stato psichico patologico. Con la morte si ha 
la perdita del soggetto amato, si ha così un’invasione nei confronti della libido perché le nostre 
esigenze nei confronti di esso non possono più essere soddisfatte. Per questo motivo bisogna che 
avvenga una ri-soluzione del proprio legame con l’oggetto, cosa che necessiterà un tempo più o 
meno lungo. Secondo Freud vi sono tre possibili soluzioni che la psiche può decidere di adottare: 
mania, melanconia e lavoro del lutto. La mania è un meccanismo di difesa tramite il quale il 
soggetto nega la perdita dell’oggetto. Sceglie quindi una via più semplice ovvero nega l’esame di 
realtà e si rifiuta di elaborare il lutto, strada dolorosa ma che comunque implica la finale 
accettazione e il ritorno alla quotidianità. La negazione del lutto è inevitabile, come vedremo, nelle 
prime fasi del cordoglio, ma quando il fenomeno persiste e diventa una convinzione a livello 
cosciente si giunge ad una mania che sfocia nel patologico. 
Un’altra reazione della psiche è la melanconia, dove il soggetto non riesce a staccarsi dalla persona 
perduta. L’oggetto continua a persistere nei suoi pensieri e non si arriva mai ad un distacco da 
esso, che offusca l’Io. Il luttuato sprofonda in uno stato di annichilimento e di apatia e sospende 
tutte le normali attività vitali, come se si identificasse col morto stesso. 
Il lavoro del lutto, infine, è la strada più naturale e corretta da seguire pur essendo dolorosa e 
lunga. Passo dopo passo si scioglie il legame con l’oggetto perduto che assume il valore di un 
simbolo. Con la simbolizzazione della perdita si trova un compromesso tra mania e melanconia. Da 
un lato, trasformando la perdita in simbolo, non si deve più affrontarla come vuoto reale ma 
simbolico, dall’altro si mantiene viva la memoria dell’oggetto che comunque resta un ricordo e 
non va ad offuscare l’Io come nel caso della melanconia. 
Durante la fase del lavoro del lutto si può avere l’impressione che la persona morta sia ancora viva 
o può avvenire una sorta di identificazione con essa, per rendere meno dolorosa l’elaborazione 
della sofferenza. Vi è poi una tendenza verso l’auto-colpevolizzazione, che come vedremo si 
manifesta soprattutto nelle vedove nell’ambito delle culture rurali. In linea di massima, 
comunque, si ha sempre una ri-soluzione dei legami con l’oggetto perduto, che tende ad essere 
simbolizzato e mantenuto vivo dal solo ricordo. 
Secondo Elisabeth Kübler Ross, nel suo libro La morte e il morire del 1969, l’individuo colpito dal 
lutto o sconvolto dall’imminente diagnosi di una malattia grave attraversa cinque importanti fasi: 
 
1. Negazione o rifiuto: vi è il rigetto di una realtà che appare inconcepibile e fasulla. Esso può 
tornare utile alla persona in lutto che ha bisogno di tempo per accettare la perdita e intanto usa 
un meccanismo di difesa. 
2. Rabbia: si prova collera e vi è un atteggiamento colpevolizzante. Anche verso sé stessi. 
3. Negoziazione: si cerca di analizzare l’accaduto in modo razionale, si cercano risposte ed 
un’eventuale soluzione. 
4. Depressione: il soggetto si arrende e si deprime. 
5. Accettazione: si accetta l’accaduto e si elabora il lutto, tornando infine ad uno stato di 
normalità. In questa fase possono manifestarsi rabbia e depressione, che vanno poi a scemare. 
 
Le fasi elencate non seguono un ordine cronologico preciso e possono apparire alternatamente o 
simultaneamente e a volte possono manifestarsi più volte con diversa intensità. Questa teoria, 
comunque, risulta molto utile nell’aiutare i pazienti che attraversano un lutto ed è tuttora
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applicata in psichiatria, anche in ambiti di perdita differenti, per esempio nei divorzi, nei 
licenziamenti o nei casi di patologie più o meno gravi, come ad esempio la sterilità. In sostanza 
possiamo dire che nella maggior parte dei casi definiti “normali” il luttuato arriva ad accettare il 
principio di realtà, si adatta alla situazione e si ricrea una vita. Quando questo non avviene siamo 
di fronte a una mania depressiva considerata patologica. 
Quando il lutto diviene cronico possono emergere comportamenti autodistruttivi, come abbiamo 
visto nella melanconia. Il luttuato può instaurare degli atteggiamenti che fanno sembrare che il 
morto sia ancora vivo, adottando i suoi stessi comportamenti, presentando gli stessi sintomi e 
identificandosi in lui. Si ingloba il defunto nel proprio Io e spesso come tale si rinuncia alla vita. Per 
empatia si smette di mangiare, di dormire e di provare i normali impulsi vitali, che nel morto sono 
assenti. Possono emergere atteggiamenti auto-punitivi o autolesionisti che possono anche 
terminare col suicidio. Bisogna notare che questo atteggiamento autodistruttivo era riscontrabile, 
fino a non molto tempo, fa nelle culture rurali del mediterraneo, soprattutto nelle donne poiché le 
vedove, durante il lutto, potevano divenire veri e propri capi espiatori. Non solo vi era la naturale 
necessità di auto-colpevolizzarsi da parte della vedova, che in qualche modo era spinta a sentirsi 
responsabile: anche da parte dell’intero gruppo familiare vi era come un bisogno di placare l’ira 
del defunto, cercando la causa della sua morte nelle donne della famiglia e soprattutto nella 
vedova. In alcune culture essa poteva persino ricevere delle percosse, venire emarginata, costretta 
a lunghi digiuni, a non lavarsi né cambiarsi il vestito del funerale per tempi lunghissimi. Queste 
pratiche venivano adottate sia nelle culture indigene sia nei filoni cattolici dell’Europa e nei centri 
rurali italiani più lontani dalle aree industrializzate. Possiamo trovare esempi di lutto prolungato e 
anomalo anche nell’ambito nobiliare, come nel caso della regina Vittoria d’Inghilterra che visse un 
cordoglio di oltre quarant’anni alla morte del marito, il principe Alberto, senza mai volere 
risposarsi. Per tutto il resto della sua vita non si mostrò più in pubblico, vestì di nero, rinunciò al 
divertimento e alla musica e impose che venissero celebrate regolarmente le feste dedicate al 
defunto quali i compleanni, l’anniversario del loro fidanzamento, del matrimonio e della morte. 
Inoltre la camera del principe venne tenuta com’era, col suo ritratto sul letto di morte ed ogni sera 
veniva preparato il tè al suo “fantasma”. 
Finora si è trattato del cordoglio da un punto di vista prevalentemente individuale ma è 
importante precisare meglio la sua funzione sociale. Prima dell’urbanizzazione e 
dell’industrializzazione – e ancora oggi in alcune culture contadine – la cittadinanza partecipava al 
cordoglio dei luttuati garantendo loro il proprio appoggio e sostegno, non solo morale. Il lutto non 
coinvolgeva soltanto amici e parenti, ma anche l’intera collettività poiché tale evento richiamava 
alla mente di tutti il pensiero della morte. Di conseguenza, per mezzo della morte altrui, si 
rifletteva sulla propria e questo senso di inquietudine comportava un impulso solidale nei 
confronti dei luttuati. Il cordoglio diventava un fenomeno sociale perché la comunità interessata 
perdeva un punto di riferimento e vi era una maggiore collaborazione tra paesani un tempo, 
rispetto alle grandi città di oggi. Nelle città post-industriali, infatti, il lutto è visto come un evento 
privato ed è più difficile per chi subisce una perdita superarla senza la partecipazione di un gruppo 
che gli stia vicino. In certe società in cui persiste una cultura rurale invece vi è l’usanza di assistere i 
luttuati durante tutto lo svolgimento della veglia e del funerale e vi è da parte dei partecipanti 
l’impegno di rendere meno dolorosa la loro perdita. 
 
 
1.3 Il lutto: norme e tabuizzazioni 
 
Precedentemente si è puntualizzato come il lutto differisca dal cordoglio, ovvero come ne 
costituisca l’esternazione mediante comportamenti, rituali o tabuizzazioni. Uno degli aspetti del
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lutto è il suo carattere tabuizzante, rappresentato dall’obbligo di vestire certi colori, di digiunare 
immediatamente dopo un decesso, di rinunciare alle feste, ai giochi e ai banchetti. Questo 
fenomeno non si è ancora disperso del tutto nella nostra cultura, soprattutto in quella contadina. 
Tali rinunce sono dovute al fatto che i luttuati si adeguano al morto, perciò la non osservazione di 
queste regole comporterebbe una mancanza di rispetto nei suoi confronti. 
L’adozione di vestiti o colori particolari serve ad evidenziare il proprio stato di perdita e di 
avvilimento temporaneo, ma è anche un modo per mortificarsi. Nella cultura occidentale vi è 
l’adozione del nero negli abiti dei luttuati e durante le messe funebri di liturgia cattolica vengono 
adoperati paramenti di colore nero o viola. Nelle tradizioni più antiche, soprattutto in Sicilia e in 
Sardegna, l’utilizzo del nero non si limitava solo agli abiti ma veniva applicato anche in altri 
contesti. Fino a due secoli fa, infatti, si usava dipingere di nero anche le porte, le finestre, le tende, 
i mobili e gli specchi e si addobbava la camera mortuaria col medesimo colore. Perfino la barca del 
defunto veniva dipinta di nero e così restava per un anno intero. I segni del lutto venivano inoltre 
estesi agli animali. In alcune culture troviamo anche l’utilizzo del rosso e del bianco ma in quella 
occidentale prevale il nero, il quale ha radici molto antiche, risalenti ai Romani. Veniva adottato 
come colore di lutto in quanto poco prezioso, perché il buon senso bandiva l’utilizzo di colori 
sgargianti e sfarzosi. Era inoltre poco costoso e mortificante, quindi adatto all’evento. 
La durata del lutto varia da cultura a cultura e in base alla sua entità. Essa termina al compimento 
del processo di distacco dall’oggetto e con la de-colpevolizzazione dei luttuati, i quali non 
dovranno più osservare le varie norme e tabuizzazioni come forma di rispetto. Amici e parenti si 
liberano dal lutto spesso grazie a fattori esterni, rappresentati soprattutto dalle norme tradizionali. 
Nel culto ebraico il lutto durava per un periodo molto breve mentre per gli antichi Romani 
venivano stabilite delle norme che variavano di caso in caso. Per i bambini bisognava osservare 
una durata non inferiore ai tre anni, per gli adulti un massimo di dieci. In generale si manteneva 
tanti mesi quanto erano gli anni vissuti dal defunto e i bambini con età inferiore ai tre anni non 
venivano compianti. In passato l’intera durata del lutto veniva suddivisa in tre fasi: lutto grave, 
mezzo lutto e lutto leggero. In molte culture per le vedove vi era l’obbligo di non risposarsi prima 
che cessasse il periodo di lutto e in generale nessuno poteva partecipare a feste, a banchetti o ad 
eventi pubblici nella fase di lutto grave. Oggi la durata del lutto si è ristretta notevolmente e 
termina con il funerale. Ciò che si manifesta oltre la cerimonia funebre va a coinvolgere soltanto la 
sfera psichica individuale e solitamente si cerca di non estendere il proprio stato di sofferenza alla 
comunità. Il luttuato ritorna alla quotidianità e al suo lavoro, mentre in passato ogni attività veniva 
fatta cessare per un periodo che poteva coincidere con la durata dei funerali o protrarsi anche più 
a lungo. In tale periodo venivano abbandonate le attività lavorative, la cura del raccolto, del 
bestiame, della casa e poteva essere imposto il divieto di uscire, soprattutto alle donne. 
Nelle culture contadine e provinciali era ed è ancora oggi contemplata l’osservanza delle visite, di 
cui i luttuati tenevano molto conto. La mancanza di quest’obbligo nei confronti di amici e parenti 
costituiva un’offesa perché si pretendeva una reciproca solidarietà delle parti, nel senso che chi 
faceva la visita veniva a sua volta visitato nell’eventualità di un lutto. Il gruppo dei partecipanti 
poteva comprendere una cerchia ristretta e intima fino ad estendersi all’intera comunità. Per 
questo motivo, in Abruzzo, nel XIV secolo si stabilì una legge che moderava l’influsso 
incontrollabile delle folle. Chi avesse violato le condizioni causando sovraffollamenti e disordini 
avrebbe dovuto pagare una sanzione. Oggi invece la collettività non partecipa più alle 
commemorazioni funebri (con l'eccezione di personalità famose o importanti). Tutto si svolge nella 
sfera privata e il lutto non viene pubblicizzato al di fuori della cerchia dei parenti e degli amici. 
In passato, assieme al lamento spontaneo, vi era anche quello ritualizzato e gestualizzato grazie al 
quale i luttuati tentavano di adeguarsi alla condizione del cadavere, di allontanarlo e di scaricare il 
loro dolore attraverso vere e proprie “tecniche di pianto”. Questo fenomeno prendeva il nome di
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lamentazione funebre ed è tuttora osservato in alcune regioni del Sud Italia. Oltre che dai cari 
questa pratica poteva essere eseguita da vere e proprie addette alla lamentazione funebre, le 
quali prendevano il nome di prefiche, mestiere che ha origini antichissime e si può ritrovare nei 
culti greci, latini e nordici. Attualmente le prefiche sono scomparse anche se, fino a non molti anni 
fa, si potevano osservare delle rimanenze nelle aree periferiche italiane. In alcuni casi esse sono 
state sostituite da suore, da devote o da amiche dei parenti e molto spesso è stato lasciato ai 
parenti stessi e agli amici il compito di piangere il defunto. Le prefiche dovevano seguire dei 
moduli tradizionali e recitare delle formule prestabilite, in modo da accontentare il defunto e i suoi 
cari. Questo vero e proprio lavoro poteva essere anche retribuito in denaro o in alimenti. Durante 
la lamentazione funebre, oltre ad eseguire una sorta di canto o lamento, si potevano anche 
adottare dei gesti di carattere tragico, come cospargersi il capo di cenere, graffiarsi, strapparsi i 
capelli, percuotersi il petto e molti altri atti noti fin dall’antichità. Anche in questo caso la vedova 
poteva compiere gesti autolesionisti o subire percosse direttamente dalle prefiche o da altre 
donne, come avveniva ad esempio a Napoli: le visitatrici strappavano ciocche di capelli alla vedova 
e le gettavano nella bara del defunto, finché la sventurata non restava senza. A questo punto la si 
percuoteva e le venivano sfilati lembi di pelle per mezzo delle unghie. Durante questo supplizio 
veniva recitato un canto funebre con la ripetizione dell’espressione «Oh misera te!». 
Come già accennato il lutto ha un carattere tabuizzante e in tutta la sua durata o in certe fasi, 
soprattutto quelle iniziali, bisogna osservare dei divieti. L’osservazione di tali divieti è dovuta al 
fatto che le persone in lutto si vogliono distinguere da quelle comuni in quanto considerate 
impure perché sono entrate in contatto con un evento di morte e col cadavere stesso. Per questo 
motivo, per differenziarsi dal resto della comunità, si vestono con un certo tipo di abiti, rinunciano 
ad uscire di casa, a mangiare, a dormire o al loro lavoro. Tutte queste cose appaiono futili perché il 
luttuato si deve adeguare alla condizione del morto che non ha certo bisogno di tutto questo. In 
particolare il divieto di uscire è determinato dal fatto che al di fuori della propria casa il luttuato 
potrebbe venire distratto dall'elaborazione del lutto e, contemporaneamente, arrecare danno agli 
altri membri della comunità che verrebbero minacciati dalla sua impurità. 
Altri tabù trovano la loro risposta grazie a credenze popolari, come ad esempio il divieto di 
spazzare la casa dopo il tramonto, non solo in occasione di lutto, poiché si potrebbero spazzare via 
o danneggiare le anime dei defunti che si risvegliano in quella fascia oraria. Questa credenza era 
osservata in Bretagna e in alcuni paesi italiani. Un altro divieto diffuso in Europa riguardava gli 
specchi, i quali venivano coperti o girati per paura che il defunto vi rimanesse imprigionato o che 
attraverso di esso venisse rapito dal diavolo. Ambigua è l’usanza di chiudere o aprire tutte le porte 
e le finestre. In alcuni casi venivano chiuse per trattenere l’anima del morto, in altri aperte per 
liberarla. In altri casi ancora si scoperchiava il tetto o si toglieva una tegola in modo che l’anima 
potesse passarvi. In alcuni paesi, nell’idea che l’anima del defunto tornasse a casa affamata la sera 
dopo il decesso o anche permanentemente, si lasciava la tavola imbandita e non la si sparecchiava. 
Può però essere preteso il contrario a seconda della località. In molte culture vi era il divieto di 
lavarsi e di cambiare l’abito di lutto, di tagliarsi la barba, i capelli o le unghie e anche in questo caso 
si voleva insistere sul proprio stato di impurità. 
Un atteggiamento che si poteva riscontrare nel lutto era il contraria facere, che può accomunare il 
lutto al Carnevale. I luttuati facevano l’opposto rispetto a ciò che era per loro ordinario, per 
esempio chi usava radersi non si radeva, chi non si radeva lo faceva in quell’occasione. Le 
acconciature erano capovolte e anche i vestiti potevano essere indossati al contrario o sottosopra. 
Tutti questi comportamenti contrari alle normali consuetudini esprimevano il senso di disordine e 
di caos provocato dalla morte. 
In opposizione alle tabuizzazioni vi erano dei costumi volti a rinvigorire le pulsioni vitali. In risposta 
al divieto di mangiare abbiamo il consòlo, che consisteva in un’offerta di cibo da parte della
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comunità, degli amici o dei parenti dei luttuati che venivano così dissuasi o addirittura obbligati a 
mangiare. Dal momento che i luttuati si trovavano di fronte ad un obbligo da parte di esterni, 
avveniva una deresponsabilizzazione nei confronti del tabù e diminuiva il senso di colpa 
nell’infrangerlo. Il consòlo differisce dal banchetto funebre, le cui origini sono molto antiche e 
risalgono ai Greci e ai Romani. Questo banchetto veniva organizzato dalla famiglia del defunto ed 
era offerto alla comunità. In questa occasione si ostentava il potere della famiglia con l’offerta di 
cibi costosi ed avveniva un grande sperpero alimentare. La funzione del banchetto funebre era 
quella di onorare il defunto e di allontanare dai vivi la sua presenza nefasta. Poteva accadere, nella 
maggior parte dei casi, che durante il banchetto i presenti eccedessero nell’alimentazione e nel 
consumo di alcolici. 
Sempre allo scopo di sollevare i tabù e di confortare i luttuati si poteva ricorrere al gioco durante 
le veglie funebri. Questo costituiva un vero e proprio diversivo per fronteggiare la noia e il sonno e 
in Italia si poteva ricorrere al gioco della tombola o si ponevano degli indovinelli. Questo uso venne 
aspramente condannato dalla Chiesa Cattolica e lo è tuttora. In connessione al gioco troviamo 
l’uso di raccontare barzellette oscene, fare allusioni sessuali e danze provocatorie, per scatenare il 
riso dei partecipanti. 
Attualmente molti degli usi sopra riportati sono stati abbandonati e c’è stato un profondo 
mutamento negli usi e nei costumi riguardanti il lutto a partire soprattutto dalla seconda 
rivoluzione industriale. Mentre nelle realtà contadine alcuni usi non sono stati ancora del tutto 
abbandonati, nelle città si verifica una sorta di censura (e di rimozione) nei confronti del lutto, 
considerato un fenomeno strettamente privato a meno che non si tratti di qualche celebrità. Se 
prima il lutto aveva carattere tabuizzante, oggi è stato tabuizzato il lutto stesso. I funerali si 
svolgono il prima possibile e una volta seppellito il morto si cerca di dimenticare. Non vi sono più 
divieti, se non l’accortezza di non esternare troppo il proprio dolore. È stato abbandonato l’uso 
della veglia e il defunto viene visitato nel letto di morte o all’obitorio solo dai parenti più prossimi. 
Anche usufruire del proprio letto è diventato un fenomeno raro, in quanto capita spesso che il 
malato muoia nel freddo letto d’ospedale lontano dai suoi parenti. Perfino l’uso di vestirsi di nero 
si sta pian piano abbandonando assieme ad altri particolari. 
 
 
1.4 La morte sociale 
 
Il morire, oltre ad essere un fatto individuale, è anche un fenomeno sociale in quanto suscita una 
serie di comportamenti all’interno di un gruppo. Inoltre, sempre nell’ambito del gruppo, si 
sviluppano delle immagini, dei simboli e dei valori legati alle credenze di questo. Si può parlare così 
di una realtà socio-culturale. 
Con la morte di un membro di una comunità si crea una disgregazione che rompe l’equilibrio della 
vita sociale ma occorre specificare che ciò accadeva soprattutto nelle società arcaiche o 
preindustriali. Oggi il fenomeno è molto meno diffuso e lo si può osservare solo nell’ambito di 
paesini con uno scarso numero di abitanti o che hanno ancora una mentalità tradizionale. In tali 
casi si crea un vuoto sociale che va anche ad incidere sul funzionamento delle istituzioni o del 
lavoro, come ad esempio quando in una comunità agricola viene a mancare un uomo di mezza età. 
La morte è un fenomeno sociale in questo tipo di comunità anche perché vi era, da parte del 
morente, l’esigenza di essere assistito da più compaesani possibili, i quali si recavano a fargli visita 
soprattutto in luogo dell’estrema unzione. Questa esigenza riflette il timore di morire soli, cosa 
che purtroppo poteva capitare a chi viveva solo o era estremamente povero. Oggi morire soli è 
ancora più comune, in quanto il malato è gestito dallo staff ospedaliero che evita appositamente 
l’influsso dei visitatori. La morte ha subito una de-socializzazione e non vi è più la solidarietà di una