assistenza e beneficenza) e le associazioni, queste ultime a loro volta 
classificabili in riconosciute e non riconosciute. Appare evidente come 
possa essere arduo dettare una normativa organica di incentivazione per  
una realtà tanto complessa e polimorfica. Come prevedere una normativa 
fiscale uniforme per un’associazione non riconosciuta e per una grossa 
fondazione? un semplice strumento di controllo finalizzato alla verifica 
della destinazione delle attività può essere opprimente per la prima ed 
insufficiente per la seconda. 
La classificazione in base allo scopo evidenzia caratteristiche importanti 
dell’ente che dovrebbero condizionarne la disciplina. Secondo questo 
profilo gli enti non profit si differenziano, infatti, in assistenziali e 
mutualistici. I primi operano per fini pubblici o caritatevoli nei confronti 
di tutta la collettività; i secondi perpetuano, quale scopo sociale, la 
creazione di benefici diretti esclusivamente ai propri membri o a gruppi 
per il cui servizio sorgono o che rappresentano. La meritorietà dei 
secondi, differentemente da quella dei primi, insita nella natura dei fini 
perseguiti per definizione, risulta dipendente dalla necessarietà di 
protezione espressa dai gruppi tutelati o rappresentati. 
Allo scopo di assicurare strumenti utili per poter comprendere appieno il 
significato dello slogan “più società meno Stato”, tanto in voga in 
seguito alla crisi del “welfare state” ed esplicativo di ciò che il non 
profit può rappresentare per la società del futuro, è opportuno osservare 
brevemente l’evoluzione storica della gestione dei servizi sociali, in 
continuo fermento dal medioevo ai giorni nostri, dando risalto allo spazio 
che le diverse istituzioni pubbliche hanno lasciato all’autorganizzazione 
della società civile. 
                                                                                                                                                                                                 
1
 DE CARLI, Lezioni ed argomenti di diritto pubblico dell’economia, Padova, 1995, pag.340. 
 1.2. STATO E SOCIETA’ CIVILE: PROFILO STORICO. 
 
Dal medioevo allo stato assoluto del 1700. 
 
Durante il periodo medioevale si assiste al particolare fenomeno della 
frammentazione delle autorità in campo civile
2
. Nel medioevo maturo ciò 
non dà luogo, come potrebbe sembrare, ad una civiltà conflittuale, senza 
regole e punti di riferimento; al contrario il succedersi ed il comporsi di 
molteplici autorità per diversi aspetti della vita dell’uomo conduce ad 
una forte armonia e costruttività sociale. In epoca medioevale anche 
durante le più profonde trasformazioni vi è sempre un “ordinamento 
politico di riferimento”, dapprima il sistema feudale, poi, con 
l’affacciarsi impetuoso del fenomeno dell’urbanesimo, il costituirsi dei 
“comuni”, successivamente il formarsi delle “signorie” ed infine dei 
“regni”. Gli ordinamenti politici qui ricordati riconoscevano l’esistenza 
di altre autorità dotate di sovranità quali il papato, l’impero, le 
corporazioni delle arti e dei mestieri, e non pretendevano di regolare, se 
non per limitati aspetti, la vita dei cittadini. In questo contesto l’intreccio 
dei poteri appariva complesso e tollerante e l’attività-autorità delle 
corporazioni veniva tollerata dalle istituzioni pubbliche. 
Nel XVI° e nel XVII° secolo assistiamo ad un lento ma progressivo 
concentrarsi dei poteri sovrani; i “regni” si impongono progressivamente 
nei confronti delle minori organizzazioni loro interne (i comuni, le 
signorie e le corporazioni) e disconoscono le autorità sovraminenti e a 
loro esterne delle formazioni universalistiche (il papato e l’impero). Ciò 
                                                           
2
 Le notizie storiche sono tratte da DE CARLI, Lezioni , cit., pag.5, ss. 
 
nonostante, lo Stato assoluto del Settecento, non si contrappone 
violentemente alle formazioni della società civile così come farà lo Stato 
successivo alla rivoluzione francese, perché il primo, a differenza del 
secondo, non si propone di svolgere ogni servizio non direttamente 
espletabile dal cittadino. Questa tolleranza dello Stato assoluto 
settecentesco dipende forse dal fatto che esso è ancora uno Stato 
patrimoniale e non censitario, non possiede quindi i mezzi per far fronte 
alle spese che una politica statalista inevitabilmente comporta. 
 
La rivoluzione francese, lo statalismo liberale, lo stato sociale. 
La Rivoluzione Francese porta ad un radicale attacco alle formazioni ed 
agli enti intermedi fra Stato e cittadino. La legge Le Chapelier, emanata 
in Francia nel 1791, sopprimeva infatti corporazioni, società benefiche 
ed educative, organizzazioni di lavoratori, società artigiane, 
organizzazioni politiche e di fatto,  sconvolgendo l’assetto della società 
civile e lo stesso sistema delle fonti normative e contrastando la 
legittimità di ogni fonte diversa dalla norma statuale
3
. 
Durante l’Ottocento, gli effetti distruttivi dello statalismo liberale nei 
confronti degli istituti della “società civile” sono evidenti e rilevanti 
anche in Italia: dal campo dell’istruzione (legge Buoncompagni, riforma 
del conte Gabrio Casati) al campo degli enti ecclesiastici (leggi Siccardi), 
a quello degli enti benefici ed assistenziali (legge 17 luglio 1890, 
n.6972)
4
. 
I primi del Novecento vedono il sorgere dello “Stato sociale”: esso si 
sviluppa facendo un uso strumentale delle istituzioni create dalla società 
                                                           
3
 Le notizie sono tratte ancora da DE CARLI, Lezioni , cit.,  pag.283, ss. 
4
 Con la legge citata vennero ricondotte sotto il controllo e la tutela pubblica opere pie ed enti 
morali, ai quali veniva attribuita la nuova qualificazione di Ipab, a prescindere dalla 
appartenenza e titolarità del patrimonio. 
civile. Grande è, sicuramente, il debito dello “Stato sociale” nei 
confronti delle precedenti istituzioni della società civile. 
Lo Stato apparato, dunque, dopo aver annientato le istituzioni della 
società civile ne prende il posto, facendosi carico delle funzioni dalle 
stesse svolte in precedenza. Prova dei nuovi compiti che lo Stato ha 
deliberatamente deciso di assumersi, sono le grandi leggi in materia di 
previdenza: il r.d. 31 gennaio 1904, n.51, in tema di infortuni degli 
operai sul lavoro, la legge 17 luglio 1910, n.520, istitutiva della cassa di 
maternità, e la legge 17 aprile 1925, n. 473, relativa alla istituzione della 
assicurazione obbligatoria per l’invalidità e la vecchiaia. 
 
L’avvento della Costituzione Repubblicana: dallo statalismo liberale al 
pluralismo sociale. 
Con la Costituzione repubblicana si determina nell’ordinamento 
giuridico una storica inversione di tendenza: lo “Stato” è costretto a 
riconoscere al proprio interno l’esistenza e la rilevanza di una “società 
civile” con propria capacità autoregolamentativa. Il varco 
all’introduzione della società civile nel corpo dello Stato fu storicamente 
aperto da partiti e sindacati, protagonisti della lotta di liberazione e 
determinati, in sede Costituente, ad ottenere il proprio riconoscimento
5
. 
Il quadro istituzionale, formatosi in seguito all’entrata in vigore della 
Costituzione, consentiva una reale mutazione della dinamica Stato-
società ed una valorizzazione delle potenzialità della “società civile” 
tracciando, a fianco dei diritti riconosciuti ai singoli, diritti e prerogative 
delle aggregazioni sociali naturali. La Costituzione dimostrò, infatti, 
                                                           
5
 DE CARLI, Lezioni, cit., pag.284, ss. 
estrema “generosità” nel riconoscere il principio associativo ad ogni 
livello dell’attività umana
6
. 
La Costituzione, in definitiva, compie una concreta operazione di 
reinserimento, nell’ordinamento dello Stato sovrano, di una “società 
civile” alla quale viene riconosciuto valore autonomo ed antecedente alla 
stessa struttura statuale. Questa valorizzazione della società civile si 
presenta, nella dottrina sociale cattolica, come la logica conseguenza 
dell’attuazione del principio di “sussidiarietà”, che animò le proposte 
dei costituenti cattolici ed anima ancora le norme costituzionali che, in 
parte, tali proposte hanno recepito. Secondo il principio di sussidiarietà le 
formazioni sociali più ampie non devono sostituirsi a quelle più piccole 
ma devono sostenerle nella loro autonomia, ed eventualmente essere di 
integrazione e sostegno quando riscontrano che le stesse non riescono ad 
adempiere alle loro funzioni 
7
. 
Il dettato costituzionale riconosceva uno spazio alla società civile che, in 
seguito, l’opera del legislatore ordinario avrebbe dovuto riempire e 
specificare. Ai partiti toccava la funzione storica, in concreto mai 
espletata, di veicoli della società civile, dei suoi ideali e delle utilità dalla 
stessa già espresse. Sarà questo il compito storico che essi mancheranno 
di adempiere negli anni cruciali del dopoguerra. Prova di questo 
fallimento, risulta essere, la constatazione che nessuna norma della 
Costituzione, riguardante i soggetti sociali, ha ricevuto attuazione, dalla 
disciplina dei sindacati a quella dei partiti a quella delle cooperative
8
. Lo 
Stato continua a mantenere, in concreto, il compito di occuparsi 
direttamente di ogni bisogno dei cittadini senza incentivare gli stessi ad 
organizzare direttamente i servizi delegabili. 
                                                           
6
 DE CARLI, Lezioni, cit., pag.285. 
7
 FASINELLI, Gli enti non commerciali e le Onlus, il fisco, 1998, pag. 3371. 
 La crisi del “welfare state”. 
Dopo gli anni Settanta la crisi dello stato sociale coincide con la crisi di 
rappresentatività politica dei partiti, i quali si staccano progressivamente 
dalla società civile e dalle idealità in essa espresse per farsi portatori 
degli interessi materiali di “lobby” e clientele. Attraverso accordi di 
potere (neo-contrattualismo) essi riescono ugualmente a controllare la 
società, “l’uomo di partito” diventa un mediatore degli interessi di 
gruppi organizzati ai quali assicura protezione in cambio di voti
9
.  
I partiti occupano le sedi del potere perché si ritengono la “casta” 
professionalmente competente a gestirlo e, attraverso l’uso della 
contrattazione con i gruppi, privatizzano la gestione del potere stesso, 
togliendo quelle garanzie di legalità ed imparzialità da sempre inerenti 
all’esercizio di funzioni pubbliche. La contrattazione con i gruppi va 
determinando, infine, lo spostamento del momento formativo della 
volontà politica dalle sedi istituzionali a sedi parallele legate ai partiti:  
“vertici di maggioranza”
10
. 
L’infausta situazione descritta è, naturalmente, da considerarsi una 
tendenza di massima e non una realtà uniforme, essa, infatti, non esclude 
la permanenza di sporadici barlumi delle originarie idealità 
caratterizzanti i partiti del primo dopoguerra. 
Il mutamento del ruolo politico dei partiti si connette strettamente con la 
crisi del “welfare state”. 
Come già accennato, malgrado la nuova tendenza manifestatasi con la 
Costituzione, la linea dello “statalismo sociale”, cioè dell’accrescimento 
delle funzioni sociali svolte dallo Stato-apparato, prosegue nel 
                                                                                                                                                                                                 
8
 DE CARLI, Lezioni, cit., pag. 286. 
9
 DE CARLI, Lezioni, cit., pag.286. 
dopoguerra a causa del comportamento inadempiente del legislatore 
ordinario nei confronti delle indicazioni costituzionali. 
Il rapporto perverso fra partiti ed interessi di gruppi spinge i primi a 
mostrarsi arrendevoli nei confronti delle crescenti richieste dei secondi, 
assumendo quale criterio di priorità delle scelte non la valutazione della 
legittimità degli interessi e la loro compatibilità reciproca e con 
l’interesse comune, ma la forza contrattuale dei diversi gruppi
11
. La 
dipendenza contrattuale dei partiti si riverbera nello stesso 
comportamento del governo; l’effetto è quello noto dell’espansione 
incontrollata della spesa pubblica. I pubblici poteri, impotenti ad arginare 
le richieste dei gruppi, sono costretti a far ricorso al peggiore rimedio 
possibile, l’inflazione
12
. 
È inevitabile a questo punto constatare come la combinazione di due 
componenti quali l’accentramento in mano pubblica di tutti i servizi 
sociali ed il sorgere delle problematiche relative al contrattualismo dei 
poteri pubblici abbiano condotto al fallimento, quantomeno sotto il 
profilo economico, del “welfare state”. Come invertire la tendenza?  
quali sono le prospettive per la società del futuro? come organizzare e 
soprattutto a chi delegare funzioni finora svolte dallo Stato? 
                                                                                                                                                                                                 
10
 DE CARLI, Lezioni, cit., pag. 288. 
11
 DE CARLI, Lezioni, cit., pag..289. 
12
 Il Governo, composto da rappresentanti di partiti politici, dovette accontentare le più 
disparate richieste, nonostante la coscienza che l’accoglimento delle stesse avrebbe creato delle 
vere e proprie voragini nei bilanci dello Stato, perché negli anni del confronto all’ultimo voto 
tra D.C e P.C.I, accontentare le richieste di un gruppo avrebbe potuto comportare la vittoria 
delle elezioni successive. Il deficit primario di bilancio, in questo modo creato, venne 
finanziato con l’aumento del debito interno, per incentivare la sottoscrizione del quale fu 
necessario aumentarne la remunerazione sotto forma di interesse. Questo comportò un aumento 
del costo del denaro e a catena un incremento dei costi di produzione e dei prezzi al consumo, 
l’inflazione. DE CARLI, Lezioni, cit., pag..288. 
 1.3. IL SETTORE NON PROFIT NEL MONDO 
OCCIDENTALE ATTUALE. 
 
In passato, Stato e imprese hanno coperto quasi interamente la 
produzione di beni e servizi, di cui ogni società necessitava, in 
proporzione variabile sia nel tempo che nello spazio, ma comunque, nel 
complesso, in misura quasi esaustiva. Dallo stato liberista a quello 
comunista, da quello liberale a quello sociale hanno, di fatto, consentito 
al primo ed al secondo settore, rispettivamente l’impresa e lo Stato, di 
mantenere un ruolo egemone rispetto agli altri settori della società; si è 
verificata una sorta di colonizzazione del terzo settore da parte del primo 
e del secondo. Lo stesso nome: “terzo settore”, ne sottolinea l’aspetto 
residuale, esso delinea infatti tutto ciò che non è né Stato né impresa
13
. 
Oggi, in seguito alla crisi dello stato sociale, il terzo settore, rivela un 
dinamismo ed una capacità progettuale, all’interno della società globale, 
tali da far ritenere che stia per diventare un settore preminente 
dell’assetto sociale. La presenza e la crescita del terzo settore ha creato 
l’aspettativa diffusa che possa rappresentare la risoluzione di molti dei 
problemi della nostra società: uno dei più accreditati studiosi del settore
14
 
ha potuto affermare che l’avvento di tale settore della vita sociale 
potrebbe costituire uno sviluppo paragonabile per importanza all’avvento 
degli Stati nazionali alla fine del secolo
15
. O anche con parole forse meno 
                                                           
13
 DE CARLI, Lezioni, cit., pag.281. 
14
 SALAMON E  ANHEIER, Il settore emergente: il settore non profit in una prospettiva 
comparata. Una prospettiva panoramica, in quaderni occasionali n.6 ( novembre 1994) del 
progetto internazionale di ricerca “Il settore non profit: un’analisi comparata”. 
15
 FASANELLI, Gli organismi non profit nella società italiana, un caso di solidarietà 
efficiente: L’Elis, il fisco, 1995, pag. 42. 
enfatiche, si afferma
16
, più semplicemente che “il privato sociale è per 
così dire il sintomo e l’anticipazione della riorganizzazione complessiva 
della società, cioè della società civile post-moderna”
17
. 
Le aspettative, circa il ruolo che il terzo settore dovrebbe occupare nella 
società del futuro, sono a dir poco pesanti, ma la realtà del settore è 
ancora, almeno in Italia, di ridotte dimensioni. 
Il settore non profit rappresenta in Italia il 2% del P.I.L. contro il 15% 
negli Stati Uniti ed il 9% in Francia. Indici adatti a raffigurare l’entità 
rappresentata dal non profit nel mondo, non sono, tuttavia, le percentuali 
di P.I.L dallo stesso prodotte, in quanto non è certo il dato economico ad 
avere importanza per il settore. Per valutare lo sviluppo del non profit nei 
vari paesi sembra appropriato utilizzare indici quali: la percentuale di 
occupati nel settore rispetto al totale e, rispetto al totale degli occupati 
nel settore dei servizi, in quanto è proprio il comparto dei servizi quello 
di maggior interesse per gli enti non profit. 
 
OCCUPAZ. NEL  NON-PROFIT           % (del tot.)        % (del tot. servizi ) 
 
                STATI UNITI                                      6,8                                  15,4 
                FRANCIA                                            4,2                                  10 
                REGNO UNITO                                  4,0                                    9,4 
                GERMANIA                                        3,7                                  10,4 
                GIAPPONE                                          2,5                                    8,6 
                ITALIA                                                1,8                                    5,5 
                UNGHERIA                                         0,8                                    3,0 
                                   Fonte Salamon  e  Antheier (1995).Prospettiva comparata del terzo settore. 
Indagine, Istituto di studi Politici della John Hopkins University, Baltimora. 
                                                           
16
 DONATI, Il problema della “regolazione promozionale” del Terzo settore: una prospettiva 
relazionale, 1995. Per gli atti del trentennale dell’Associazione Elis. 
17
 FASANELLI, Gli organismi, cit, pag.42. 
 Osservando questi dati possiamo constatare la differenza abissale 
esistente tra la realtà italiana e quella statunitense o di altri paesi 
dell’Europa occidentale. 
E’ inoltre rilevante chiedersi quali siano i settori di attività in cui la forza 
lavoro del non profit trova il suo impiego:  
 
SETTORI DI ATTIVITA’ DELLE ORGANIZZAZIONI NON-PROFIT 
(in % dell’occupazione tot. del settore) 
        SOCIALE   EDUCAZ.  SANITA’  CULT.   BUSINESS 
18
   ALTRO 
STATI UNITI       10 %       53 %         23 %        3 %               5 %                 6 %       
FRANCIA             29 %       14 %         25 %       18 %               0 %               11 % 
REGNO UNITO   12 %         4 %         43 %        21 %              7 %               13 %       
GERMANIA         23 %       35 %         12 %         8 %               5 %               18 % 
GIAPPONE           14 %       28 %         40 %         1 %             11 %                6 % 
ITALIA                  25 %      17 %          22 %         9 %             23 %                4 % 
UNGHERIA           25 %        1%            4 %        57 %            10 %                3 % 
                                   Fonte Salamon  e Antheier (1995).Prospettiva comparata del terzo settore. 
Indagine, Istituto di studi Politici della John Hopkins University, 
 Baltimora. 
 
Altro dato interessante al fine di avere un quadro generale del non profit 
in Italia è certamente il numero di enti Onlus costituitesi e la loro 
diversificazione per struttura: 
                                                           
18
 Per business si intendono le attività commerciali svolte dagli enti non profit. 
 TIPOLOGIA DI ENTI N° ASSOLUTO % (rispetto al tot.) 
ASSOCIAZIONI/ENTI RICONOSCIUTI      10.200        30 %  
ASSOCIAZ. /ENTI NON RICONOSCIUTI      20.443        59 % 
COOP. SOCIALI        2.960          8 % 
FONDAZIONI           422          2 % 
O.N.G.           160          1 % 
TOTALE ONLUS      34.185      100 % 
   
 1.4. SEGUE. IL SETTORE NON PROFIT NEGLI STATI UNITI. 
  
La comparazione è un utile strumento mediante il quale risulta possibile 
apprendere gli effetti di talune politiche e valutarli. Lo scopo di tale 
attività è di considerare la possibilità di translare le normative, che 
vengano ritenute idonee al raggiungimento dello scopo prefissato, verso 
altre realtà idonee a recepirle. 
Alcuni paesi come Stati Uniti, Francia e Spagna hanno saputo adottare 
strumenti idonei allo sviluppo del settore non profit che vale la pena di 
analizzare alla vigilia delle auspicate riforme strutturali che, in Italia, 
stanno interessando il settore. 
Negli Stati Uniti, la crisi del “welfare state” ha avuto un impatto 
particolarmente attenuato grazie alla presenza massiccia del terzo settore 
economico, volto ad assicurare fini sociali attraverso l’opera dei soggetti 
privati
19
. 
Dopo il 1930 e sino, grosso modo, al 1980 (inizio dell’amministrazione 
Reagan) si è sviluppata la institutional view of social welfare, secondo la 
quale,  in una società industriale, occorre offrire a tutti i fondamentali 
bisogni dell’uomo una risposta pubblica. Tale risposta pubblica tiene 
ovviamente conto del terzo settore, ma tuttavia assegna ad esso un ruolo 
residuale rispetto all’iniziativa propriamente pubblica. In costante 
dialettica con tale concezione è sempre coesistita la residual view of 
social welfare, ossia la concezione tradizionale  statunitense, secondo la 
quale “residuale” è il compito pubblico e statale in rapporto ai compiti e 
al ruolo della società
20
. Questa filosofia è tornata ad essere assolutamente 
                                                           
19
 DE CARLI, Lezioni, cit., pag.339. 
20
 DE CARLI, Lezioni, cit., pag.339. 
prevalente dal 1980 con l’amministrazione Reagan, anche per la 
necessità di contenere le spese per servizi sociali
21
.  
Veniamo ora ad un più dettagliato esame del modello statunitense. Il 
Revised Model Non Profit Corporation Act propone una fondamentale 
distinzione fra:  
a) public benefit  corporation, enti non profit che operano per fini 
pubblici o di carità; 
b) mutual benefit corporation, enti rivolti al beneficio dei membri o dei 
gruppi per il cui servizio sorgono o che rappresentano; 
c) religious corporation, enti che operano esclusivamente per fini 
religiosi. 
Il Revised Model non offre alcuna definizione di cosa siano i fini 
"pubblici", "caritativi”, “mutualistici” o “religiosi”. E’ l'ente, o meglio 
la persona fisica che per esso agisce e chiede l’incorporation come non 
profit, che definisce l’ente e decide di sottoporlo ad una delle diverse 
discipline previste per i tre tipi di enti sopracitati. Un elemento 
fondamentale di cui tenere conto nella scelta del modello è il trattamento 
fiscale allo stesso riservato. Infatti, possono godere dell’esenzione dalle 
imposte sui redditi e della deducibilità fiscale per i donatori di un 
importo corrispondente al valore del bene donato, soltanto le public 
benefit corporation e le religious corporation in quanto le mutual benefit 
corporation possono, di norma, distribuire utili o beni in sede di 
liquidazione
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.  
                                                           
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 SALAMON e ABRAMSON, The Federal Budget and the Nonprofit Sector, Washington 
D.C., The Urban Institute Press, 1982. 
22
 DE CARLI, Lezioni, cit., pag.340.