1 
 
 
Introduzione 
Il presente elaborato ha alla base lo studio dei principi attraverso i quali il 
governo e la cultura degli Stati Uniti hanno preteso di legittimare l’espropriazione 
delle terre dei nativi americani, ponendo un’attenzione specifica alle misure 
giuridiche e giudiziarie sulle quali questo processo è stato fondato per più di un 
secolo. Attraverso un approccio cronologico la presente tesi cerca di dimostrare 
come la politica dell’Indian Removal dell’Ottocento negli Stati Uniti sia stato il 
risultato di un complesso percorso storico – politico-economico e culturale - iniziato 
con la “scoperta” del continente americano da parte di Cristoforo Colombo nel 
1492. La politica di espulsione dei nativi americani dalle loro terre risulta la 
sommatoria di vari fattori influenzati in modo preponderante dalla religione 
cristiana cattolica prima, e protestante puritana poi, ben espressi nei diversi approcci 
delle amministrazioni presidenziali che si sono susseguite nel XIX secolo negli Stati 
Uniti.  
Nel primo capitolo viene analizzato il momento della “scoperta” del 
continente americano, premessa del processo di espansione territoriale dei futuri 
Stati Uniti d'America. La conquista europea del territorio, passando dai 
conquistadores spagnoli, ai Padri Pellegrini inglesi ed infine al governo 
statunitense, ebbe ragioni ideologiche profondamente radicate nella cultura 
cristiana europea di matrice greco-romana. L’attenzione viene posta sulla modalità 
di conquista inglesi, servendoci di quelle spagnole come metro di paragone per 
sottolinearne le differenze e le analogie e per completare quel quadro complesso 
che porterà prima allo sterminio e poi all’assimilazione dei nativi americani. In 
questo capitolo viene posta l’attenzione sulla dottrina puritana, la quale servì da 
mezzo legittimante della conquista inglese, riuscendo a costruire le fondamenta dei 
futuri principi che caratterizzeranno la società bianca statunitense, come 
l’individualismo, la proprietà privata e il senso di predestinazione di un gruppo di 
individui rispetto all’umanità tutta. L’obiettivo dell’analisi di questo capitolo è la 
ricostruzione del percorso attraverso il quale il nativo è stato considerato 
l’immagine perfetta del Nobile ed Ignobile Selvaggio. Immagine che occuperà per
2 
 
più di due secoli l’immaginario anglo-americano, in ambiti che spaziano dal 
politico a quello scientifico. 
Nel secondo capitolo viene analizzata l’idea di selvaggio e del concetto di 
razza nel XIX secolo negli Stati Uniti d’America. L’analisi viene condotta 
analizzando gli approcci filosofici e sociologici che hanno aiutato la nascita della 
teoria razzista del XIX secolo. L’attenzione viene posta su due autori in particolare, 
Thomas Hobbes e John Locke, indicati come i fondatori della concezione 
dell’”individualismo possessivo”. L’individualismo possessivo ha accompagnato il 
XVIII e il XIX secolo nella creazione di tesi e ideologie razziste che hanno posto al 
vertice dell’umanità la razza bianca europea. In queste pagine si analizza come, in 
questo contesto storico, l’individualismo lockiano si sia amalgamato a teorie come 
quella monogenista, la quale individuava in un ceppo unico l’origine dell’umanità; 
e di contro alla teoria poligenista, la quale derivava l’esistenza di diverse razze 
umane da altrettante differenti origini dell’umanità. La teoria poligenista conoscerà 
la sua massima espansione e il suo più ampio consenso con l’affermarsi della teoria 
dell’evoluzione dello scienziato Charles Darwin, riletta in termini di Darwinismo 
sociale. Nel capitolo, questa ideologia viene coniugata al “problema indiano” degli 
Stati Uniti, i quali proprio all’inizio del XIX iniziano ad attuare la politica 
dell’Indian Removal. Vengono analizzati i diversi principi legittimanti che sono 
serviti a costruire quei fondamenti ideologici dell’azione di rimozione dalle terre, 
applicato con strumenti giuridici, uno su tutti il trattato di negoziazione. A sostenere 
questo quadro politico e culturale, la diffusione della teoria del Destino Manifesto 
degli Stati Uniti, con matrici religiose puritane legate alla teoria della 
predestinazione alla salvezza dell’anima, sosteneva la mitizzazione della funzione 
storica della Nazione statunitense come culla e tutrice di tutte le libertà.  
Nel terzo capitolo vengono infine approfonditi la comparsa e il ruolo del 
trattato di negoziazione nella consuetudine giuridica dell’Indian Policy 
dell’Ottocento, con la sua connotazione, fin da Thomas Jefferson, di assimilazione 
nei confronti dei nativi americani. L’intero capitolo è costruito su fonti giuridiche, 
quali trattati tra il governo statunitense e le Nazioni Indiane, e su sentenze delle 
corti americane, che hanno aiutato a chiarire la posizione del governo degli Stati 
Uniti nella questione. Ponendo come centrale L’Indian Removal Act del 1830, nel
3 
 
capitolo si tenta di ricostruire il prima e il dopo di questa riforma che avrebbe 
rivoluzionato per sempre i rapporti tra gli Stati Uniti e le Nazioni indiane. Filo 
conduttore di tutte le fonti analizzate è l’obiettivo del governo statunitense di 
abbattere le società indiane, organizzate in tribù, rimuovendole dalle loro terre 
ancestrali e tentando di assimilarle nella società bianca dominante. La creazione 
dell’Indian Territory ad Ovest del fiume Mississippi prima, e la creazione del 
sistema delle riserve poi, ebbero la funzione di disgregare il tessuto sociale dei 
nativi, considerati non come comunità indipendenti e sovrane, ma come mera 
somma di individui con in comune la sola appartenenza all’umanità. 
L’espansionismo territoriale americano cesserà con l’approvazione, nel 1887, del 
Dawes Act il quale definirà la condizione di quelle popolazioni, costrette a vivere 
in riserve composte di territori assegnati individualmente, anziché in territori 
assegnati alla tribù. Applicando la concezione liberale statunitense della proprietà 
privata individuale, il nativo non è riconosciuto come un membro di una specifica 
comunità sovrana, ma un individuo al quale è riconosciuta solo un’appartenenza 
razziale ad un determinato gruppo e nessuna “dignità politica”. Fu in questo modo 
che il “problema indiano” venne risolto, perché a quel punto non c’era più nessuna 
identità “indiana” da assimilare.
4 
 
1. Le origini dell’espansionismo americano: la conquista del Nuovo 
Mondo 
 
1.1 Le modalità dell’invasione delle terre “indiane” 
Il rapporto tra il futuro governo statunitense e i nativi americani fu 
indubbiamente influenzato dalla lunga e costante presenza europea, per più di due 
secoli, sul territorio del Nuovo Mondo. Presenza che instillò in modo permanente 
“conceptions about the Indians and numerous examples of policies and programs 
concerning the interaction of the two cultures”
1
. È necessario, quindi, per 
comprendere quella che sarà la politica statunitense di rimozione dei nativi dalle 
loro terre, analizzare come avvenne la conquista europea dei futuri territori degli 
Stati Uniti.   
La conquista dell’America ha suggellato l’incontro-scontro dell’io con 
l’altro, costruendo una ideologia per la quale l’altro è sostanzialmente un problema 
a cui trovare una soluzione. L’America sarà vista dai conquistatori europei come 
una pagina bianca dove scrivere il proprio volere, una terra vergine. Anthony 
Pagden, nella sua opera La Caduta dell’uomo naturale, riporta le parole di Padre 
Alonso O’Crovery del 1774: “La conquista delle Indie riempì tutto il mondo 
indistinto degli spazi immaginari dell’uomo”. Questi “spazi immaginari”, continua 
Pagden, “erano occupati da fenomeni naturali fantastici tratti dalla letteratura del 
Medioevo”. Questi fenomeni “costituivano un vero e proprio bagaglio mentale, un 
complesso di immagini che si riteneva appartenessero alla realtà”.
2
 La superiorità 
culturale che discese da questa modalità di osservare il mondo fece sì che 
l’invasione dell’America trovasse le sue giustificazioni alla luce del fatto che, come 
scrive Stannard, “la cultura occidentale ha volontariamente frainteso l’esistenza 
storica dei popoli nativi del continente americano”. Si presentò come una necessità, 
quella di dover collocare gli Indiani “into the intellectual patterns ot the Western 
European mind, and practical conventions for dealing with them had to be 
 
1
 Francis Paul Prucha, The Great Father: The United State Government and the American Indian, 
Vol. I, University of Nebraska Press Lincoln and London, 1984, p. 5. 
2
 Anthony Pagden, La caduta dell’uomo naturale. L’indiano d’America e la nascita dell’etnologia 
comparata, Einaudi, Torino, 1991, p. 3.
5 
 
developed”
3
. La percezione del Nuovo Mondo come “una sorta di nuova 
creazione”
4
 fece sì che “gli imperi europei d’America diventassero oggetto di 
un’approfondita indagine storica. Parte di essa aveva toni apertamente trionfalistici 
e un’ispirazione esplicitamente nazionalistica”
5
.  
Per comprendere meglio le modalità con cui la Corona inglese conquistò i 
territori americani, è utile avviare un confronto con quelle che furono le modalità 
seguite dalla Corona spagnola, la quale esportò i principi della religione cristiana e 
cattolica per la costruzione dell’immagine europea dell’Indiano d’America. Le 
modalità di conquista di entrambe le Corone furono profondamente influenzate dal 
modello imperiale dell’antica Roma, rispetto al quale “non solo vi era la 
convinzione che si fosse trattato del più vasto e potente organismo politico del 
mondo, ma una serie di scrittori gli avevano attributo una speciale finalità, cui non 
era talvolta estranea l’ispirazione divina”
6
. La differenza più evidente tra la 
modalità spagnola di conquista e la modalità inglese fu che quest’ultima operava in 
modo che “the English relations with the Indian groups was replacement of the 
Indians on the land by white settlers”
7
, mentre l’invasione spagnola mirava ad una 
“conversion and assimilation of the Indians into European colonial society”
8
. La 
differenza apparve come una divergenza di intenti delle due Corone europee: “The 
Indians did not present the same usefulness to the English that they did to the 
Spanish”
9
, poiché i coloni britannici non necessitavano di forza lavoro, perché 
“English came to settle and cultivate the land”
10
 e per fare del Nuovo Mondo la loro 
nuova patria. Dagli spagnoli invece appresero che “oltre a non essere cristiani, gli 
indiani erano anche incivili e forse nemmeno pienamente umani”
11
, e la 
conversione alla religione cristiana fu solo un mezzo per ottenere “le terre di cui 
sentivano di avere bisogno, per delimitarle e recintarle a loro piacimento”
12
. I coloni 
 
3
 Francis Paul Prucha, The Great Father, cit., p. 6. 
4
 Voltaire citato in Anthony Pagden, Signori del mondo: ideologie dell'impero in Spagna, Gran 
Bretagna e Francia, 1500-1800, il Mulino, Bologna, 2005, p. 23. 
5
 Ibidem. 
6
 Ivi., p. 38. 
7
 Francis Paul Prucha, The Great Father, cit., p.11. 
8
 Ibidem. 
9
 Ivi., p. 12. 
10
 Ibidem.  
11
 David E. Stannard, Olocausto Americano, cit., p. 379. 
12
 Ibidem.
6 
 
iberici, una volta approdati nel Nuovo Mondo, “si consideravano spagnoli in una 
cultura inferiore”
13
. Per questo motivo educarono in modo coercitivo i nativi 
all’educazione cristiana cattolica, organizzarono quella società come lo specchio di 
quella spagnola, riorganizzando intere comunità. I coloni britannici, invece, 
“semplicemente annientarono i nativi che incontrarono, perché si consideravano 
uomini nuovi, in una nuova terra”
14
 che sarebbe divantata la loro. Difatti “solo gli 
spagnoli trovarono delle popolazioni abbastanza numerose da poter essere sfruttate. 
Gli inglesi tendevano, per una serie di motivi collegati, a escludere gli indigeni 
americani dalle proprie colonie, oppure ad avvicinarli come partner commerciali”
15
. 
Come scrive David Stannard nella sua opera L’Olocausto Americano: 
Sebbene avessero portato con loro i più di mille anni di repressione, intolleranza e 
violenza che avevano guidato le azioni dei conquistatori spagnoli, nelle loro 
esplorazioni e nel processo di colonizzazione che seguì, gli inglesi si lasciarono 
alle spalle e allo stesso tempo si confrontarono con mondi materiali profondamente 
diversi da quelli spagnoli. Per le loro vittime non contò molto
16
. 
 
1.1.1 Le modalità dell’invasione spagnola delle terre americane 
Attorno alla Conquista si svilupparono, fin dai primi decenni del 
Cinquecento, profondi dibattiti giuridici, filosofici e morali. Il tema principale era 
dimostrare, o confutare, l’uguaglianza dei nativi d’America rispetto ai conquistatori 
spagnoli e quindi derivarne, o meno, diritti uguali appartenenti a tutti gli uomini, 
poiché “il nuovo mondo viene pensato come un allargamento o un’appendice del 
vecchio, destinato ad essere in esso integrato e da esso sottomesso”
17
. Diventa 
centrale nel processo di colonizzazione riuscire a definire in termini giuridici il 
ruolo della guerra nel processo di conquista. “La guerra diventa un problema ed è 
tematizzata come una questione con il cristianesimo, nella misura in cui il 
 
13
 Ivi., p. 381. 
14
 Ibidem. 
15
 Anthony Pagden, Signori del mondo, cit., p. 118. 
16
 David E. Stannard, Olocausto Americano, cit., p. 379. 
17
 Luigi Ferrajoli, L’America, la conquista, il diritto. L’idea di sovranità nel mondo moderno, 
“Meridiana”, n. 15, 1992, pp.17-52 (p. 18). http://www.rivistameridiana.it/files/Ferrajoli,-L-
America,-la-conquista,-il-diritto.pdf.
7 
 
messaggio evangelico è chiaramente e apertamente contrario non solo alla guerra 
ma a qualsiasi violenza”
18
. Si prefigura il concetto di guerra giusta.
19
  
Culmine della discussione riguardante i parametri coretti entro i quali 
collocare il fenomeno colonizzatore della Conquista è il dibattito tra Juan Ginés de 
Sepúlveda, apologeta della Conquista
20
, e Bartolomé de Las Casas, difensore delle 
ragioni degli indigeni
21
. Gli scritti di Las Casas sono rivolti ai conquistadores, i 
quali, con la scusa dell’evangelizzazione, perpetuano violenze sui popoli indigeni. 
Las Casas è contro tale violenza, ma allo stesso tempo definisce la sua religione 
come l’unica e vera. Ma non è già questa una violenza? Di fronte a questo 
paradosso, il vescovo cattolico fa un passo ulteriore, sostenendo la colonizzazione 
pacifica. Un ossimoro. Invece dei soldati, si dovrebbe operare tramite i religiosi 
 
18
 Giuseppe Tosi, La teoria della guerra giusta in Francisco de Vitoria e il dibattito sulla Conquista. 
https://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/tosi.htm. 
19
 Francisco De Vitoria fu colui che pose le basi giuridiche per giustificare i metodi di conquista del 
regno spagnolo. Alla base della sua teorizzazione giuridica si pone lo jus gentium, derivato dal diritto 
naturale, del quale sono titolari non gli individui ma le popolazioni. Vitoria definisci alcuni diritti 
“divini” proveniente dallo jus gentium. Uno dei primi è lo "jus praedicandi et annuntiandi 
Evangelium": il diritto, e il dovere, di ogni popolo cristiano di diffondere il Verbo del Vangelo. Di 
seguito riporta il diritto divino del “defensio innocentium”: il riconoscimento del diritto-dovere di 
difendere gli individui vittime di violenze scaturite dalla “moralità ripugnante” degli indiani.  
L’ultimo e il più importante è il diritto, che conclude l’intera costruzione giuridica di legittimazione 
alla guerra giusta, ovvero “il diritto degli spagnoli, ove gli indios non si persuadessero di queste loro 
buone ragioni, di difendere i loro diritti e la loro sicurezza anche con le misure estreme della violenza 
e della guerra”. Luigi Ferrajoli, L’America, la conquista, il diritto, cit., p.28. 
20
 Juan Ginés de Sepùlveda scrisse un’opera intitolata Democrates secundus sive de justis causis 
belli apud Indios, la quale fu “la requisitoria più violenta e radicale che fosse mai stata scritta a 
favore dell’inferiorità degli indiani d’America” Anthony Pagden., La caduta dell’uomo naturale, 
cit., p. 141. Ciò che Sepùlveda mirava a dimostrare con la sua opera era che “gli indiani non vivevano 
in una società e quindi non potevano beneficiare di alcun diritto”, poiché per lo scrittore spagnolo la 
titolarità di diritti derivava dall’appartenenza ad una società, la quale era caratterizzata dal diritto di 
proprietà: “la terra, e diritti sui relativi prodotti, erano stati concessi agli uomini in uso e non in abuso 
e che gli indiani, incapaci di coltivare la terra, chiaramente abusavano dei doni di Dio”. Con questa 
opera, Sepùlveda intende difendere “la conquista istituzionale come una necessità e un dovere, 
perché la Spagna aveva un dovere morale a dirigere, con la forza se necessario, delle popolazioni 
locali ritenute immature”. Anthony Pagden, La caduta dell’uomo naturale, cit. 
21
 Bartolomé de Las Casas, durante la Controversia arriverà a mettere in discussione l’assolutezza 
del principio del defensio innocentium cristiano, affiancandolo ad una prudente valutazione degli 
effetti prodotti dall’uso delle armi: “è regola della retta ragione, e quindi del diritto naturale che ogni 
qual volta ci si trovi di fronte a due scelte che sono entrambe dei mali, si debba optare per il male 
minore”. Per Las Casas il cannibalismo e il sacrificio umano non sono da considerarsi “barbarie 
assolute”, i quali invece erano la legittimazione dell’uso delle armi per Sepùlveda. Las Casas va 
oltre: riconosce agli indiani d’America il diritto a difendersi contro chiunque voglia conquistarli. Il 
dovere di difendere gli innocenti, per il vescovo, sarà sempre subordinato al comandamento negativo 
del “non uccidere l’innocente e il giusto, che deve essere osservato in ogni circostanza e non può 
essere violato in nessun luogo e in nessuna maniera”. Luca Scuccimarra, Proteggere l’umanità. 
Sovranità e diritti umani nell’epoca globale, il Mulino, Bologna, 2016, p. 182.
8 
 
spagnoli, accompagnati da contadini-coloni che dovrebbero condurre la 
colonizzazione “con dolcezza”.
22
   
Nonostante la sua originalità, questa rilettura deve essere quindi accostata 
alla posizione del suo avversario nella Controversia, cioè al concetto di 
civilizzazione-evangelizzazione. Così, il dibattito tra Sepùlveda e Las Casas è stato 
riletto come una “dialettica dell’universalismo”,
23
 in quanto centrale è 
l’universalismo unilaterale dei propri valori cristiani incapace di concepire 
l’esistenza di altri valori, di altre credenze e di altri costumi e di un altro modo di 
vivere. “In pratica, ambedue le posizioni giustificavano comunque il dominio 
spagnolo”.
24
  
Gli spagnoli, i quali avevano sostenuto la legittimità della colonizzazione in 
termini sia di conquista dei territori che di diritti naturali di occupazione, “erano 
disposti ad ammettere un fatto: le loro rivendicazioni iniziali potevano alla fine 
rivelarsi giuste o meno, ma nel tempo potevano essere sostenute grazie a 
un’occupazione prolungata”
25
. La componente “tempo” prendeva forza 
legittimante dal diritto romano di usucapione, il quale “prevedeva che una lunga 
occupazione de facto venisse riconosciuta de iure come un caso di dominium”
26
. 
Da questo diritto sarebbero derivati quelli di proprietà e giurisdizione dei territori 
occupati. Questa modalità di argomentazione non accoglieva così il concetto di res 
nullius, per il quale “le terre libere restavano comune proprietà dell’umanità intera 
fino a quando venissero destinate a un certo uso, di solito di tipo agricolo”
27
, poiché 
oggettivamente le terre di cui entrarono arbitrariamente in possesso non erano 
libere. Il rapporto giuridico che intercorse tra gli spagnoli e gli indigeni era basato 
sull’autorità, derivante da due istituti utilizzati dai conquistadores. Il primo fu 
quello che venne definito il Requerimiento, un testo cui si riconosceva un valore 
 
22
 Saverio Di Liso, B. de Las Casas, J.G. de Sepúlveda, La controversia sugli indios. 
https://www.juragentium.org/books/it/lascasas.htm. 
23
 Luca Scuccimarra, Proteggere l’umanità, cit., p. 184. 
24
 Marco Della Pinna, La controversia di Valladolid in Europa e nel mondo dall’età moderna all’età 
contemporanea, pp. 1-4 (p. 2). 
http://omero.humnet.unipi.it/matdid/1033/10.%20La%20controversia%20di%20Valladolid.pdf 
25
 Anthony Pagden, Signori del mondo, cit., p. 155. 
26
 Ibidem. 
27
 Ivi., p. 135.
9 
 
giuridico. Il testo si apre con il racconto della genesi dell’umanità, il cui punto più 
alto è la nascita di Gesù Cristo, colui che è “capo della stirpe umana”
28
.  Fissato 
questo punto di partenza, ne consegue lo sviluppo del racconto degli eventi 
successivi: Gesù Cristo ha trasmesso il suo potere a San Pietro, questo ai papi, tra i 
quali l’ultimo ha donato le terre americane alla Corona spagnola. Si viene a formare 
così la base giuridica del dominio spagnolo sulle terre del Nuovo Mondo. Una volta 
chiarita la posizione spagnola, si presentava solo la necessità di “informare” gli 
indiani della situazione venutasi a istituire, e ciò avveniva attraverso la lettura 
pubblica del Requerimiento. Dopo la lettura, i nativi potevano mostrarsi convinti (e 
ciò determinava, ovviamente, la loro completa sottomissione), per cui il diritto 
spagnolo di farli schiavi decadeva; invece, si sottolineava nel testo, di fronte ad una 
resistenza dei nativi nei confronti di “questa interpretazione della loro storia, 
saranno severamente puniti”
29
.  
Il secondo istituto utilizzato dai colonizzatori spagnoli fu l’encomienda, 
un’istituzione caratterizzata dalla presenza di un encomendero, il quale 
amministrava il territorio e gli indigeni che lo abitavano riscuotendo le tasse in 
nome della Corona spagnola, in cambio della sua protezione e indottrinamento 
religioso. Nel 1499 Cristofo Colombo la introdusse con il nome di repartimiento e 
il suo scopo fu “di procurare alle miniere e alle fattorie delle isole una manodopera 
praticamente gratuita”
30
.  
 
1.1.2 Le modalità dell’invasione inglese delle terre americane 
I nascenti imperi in America “erano nati all’ombra di un’antica e medievale 
eredità di universalismo, di un presunto diritto al dominio del mondo intero; perfino 
gli inglesi, le cui tradizioni di common law li avevano in qualche misura isolati dalla 
sfera di influenza del diritto romano, non poterono mai davvero sfuggire 
all’ambizione di creare per sé un autentico Imperium Britannicum”
31
. I primi viaggi 
 
28
 Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Einaudi, Torino, 2014, p. 
178. 
29
 Ibidem. 
30
 Anthony Pagden, La caduta dell’uomo naturale, cit., p. 34. 
31
 Ibidem.