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INTRODUZIONE 
IL NUOVO PROCESSO ACCUSATORIO E IL RUOLO 
DEL PUBBLICO MINISTERO. 
 
Il 22 Settembre 1988 è stato approvato il testo del nuovo 
codice di procedura penale, la cui entrata in vigore è fissata un 
anno dopo la data della sua pubblicazione nella Gazzetta 
Ufficiale. Il nuovo codice si ispira ad una filosofia e ad una 
struttura profondamente diverse da quelle del codice 
precedente. Si tratta del primo codice dell'Italia repubblicana, 
che sostituisce, dopo quasi sessanta anni, il codice Rocco del 
1930. E non deve sorprendere che il primo codice che si è 
voluto varare sia proprio quello di procedura penale in quanto 
è nota l'interdipendenza tra processo penale ed ordinamento 
politico dello Stato. Non era, infatti, possibile lasciare ancora 
sopravvivere, dopo l‘instaurazione del regime democratico, un 
codice caratterizzato da una struttura inquisitoria, tipica dei 
regimi autoritari. Per la verità il codice Rocco del 1930, 
indubbiamente pregevole sotto il profilo tecnico, aveva non 
poche connotazioni liberali, dovute alla cultura dei giuristi del 
periodo prefascista, che in gran parte avevano collaborato alla 
sua redazione. Ma l'impronta politica del regime autoritario si 
rivelava in molte altre sue disposizioni e, soprattutto, nella 
scelta di una istruzione segreta e scritta, di evidente stampo 
inquisitorio, in cui veniva lasciato poco spazio al diritto di 
difesa ed erano notevolmente compressi i diritti di libertà del 
cittadino. E‘ bensì vero che su quella struttura si erano operati, 
mediante leggi speciali, numerosi innesti, diretti a garantire il
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diritto di difesa. Ma tale processo di «liberalizzazione», reso 
necessario anche per l'entrata in vigore della Costituzione 
repubblicana (1948), aveva creato inevitabili scompensi con l‘ 
originaria struttura inquisitoria del codice: tanto che qualche 
autore aveva parlato, a questo proposito, di «garantismo 
inquisitorio» o di «soave inquisizione». Si era trattato, peraltro, 
sempre di «piccole riforme», come quella realizzata con la 
legge 18 giugno 1955 n. 517, di sporadici interventi normativi 
o di disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte 
Costituzionale, perché in contrasto con i principi 
costituzionali. La situazione si era complicata ulteriormente 
per l'intervento di una serie di innovazioni legislative dettate 
dalla necessità di combattere il fenomeno del terrorismo e più 
in generale la criminalità organizzata. Queste nuove norme, 
generalmente denominate come «legislazione dell'emergenza», 
avevano introdotto, dal 1974 in poi, delle restrizioni 
estremamente pesanti ai diritti dell'imputato e, più in generale, 
alle garanzie difensive. Contro tali limitazioni non erano 
mancate critiche da parte della dottrina. Basterebbe ricordare, 
per fare solo un esempio, che per i reati più gravi era prevista 
una carcerazione preventiva che poteva giungere fino ad un 
massimo di dieci anni ed otto mesi, anche se, con una legge 
successiva del 1984,  tale limite era stato ridotto a sei anni. Su 
questo tema, come su altri - quali la disciplina della 
contumacia e la lunga durata del processo penale - anche la 
Corte Europea aveva avuto occasione di criticare la 
legislazione processuale penale italiana. Per di più, questo 
alternarsi e sovrapporsi di riforme di segno opposto, 
espressioni di tendenze diverse e contrastanti, aveva dato
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luogo ad un grave disorientamento nella pubblica opinione. 
Questi brevi cenni alle vicende subite dal codice di procedura 
penale del 1930 fanno capire come le istanze di riforma del 
processo penale fossero diventate, negli ultimi tempi, sempre 
più insistenti. Per la verità, l'esigenza di riforma era stata 
avvertita subito dopo il ripristino delle libertà democratiche. Si 
trattava però di scegliere se operare ancora sulla base dei 
codice del 1930, con interventi razionali e coordinati, ovvero 
optare per un codice ispirato ad un sistema del tutto diverso. 
Ecco perché, abbandonata l'idea di interventi parziali e 
settoriali, si cominciò a pensare ad una riforma radicale dei 
sistema. Il primo tentativo in questa direzione fu fatto, nel 
1962, da una Commissione Ministeriale presieduta dal prof. 
Francesco Carnelutti, che si concretò in una «bozza di 
Progetto», pubblicata nel 1963, ispirata al sistema accusatorio, 
ma incompleta e tale da non costituire una piattaforma valida 
per una effettiva riforma. Nel 1965 il Parlamento mise mano, 
invece, alla elaborazione di una «delega legislativa» al 
Governo, per l'emanazione del nuovo codice di procedura 
penale. Secondo il sistema della «delega legislativa» il 
Parlamento indica solo i «criteri direttivi» ai quali deve 
ispirarsi il Governo nella predisposizione dei nuovo codice: 
ma questa volta il Parlamento, dopo un lavoro protrattosi per 
tre Legislature, approvò una Legge-delega (3 aprile 1974 n. 
108) in cui venivano enunciate ben 84 direttive. Di particolare 
importanza era la premessa, secondo cui il nuovo codice di 
procedura penale doveva «attuare nel processo penale i 
caratteri del sistema accusatorio» ed inoltre adeguarsi ai 
«principi della Costituzione» ed alle «norme delle
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Convenzioni internazionali ratificate dall'Italia relative ai 
diritti della persona». A questo riguardo vale la pena di 
ricordare che la Costituzione italiana del 1948, analogamente a 
quanto fanno anche altre Costituzioni moderne, dedica molte 
disposizioni ai principi che devono regolare il processo, ed in 
particolare il processo penale. Basterà ricordare, tra gli altri, 
l'art. 13, secondo cui «la libertà personale è inviolabile» e «non 
è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o 
perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della 
libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità 
giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». Lo 
stesso articolo prevede che «la legge deve stabilire i limiti 
massimi della carcerazione preventiva». Non meno importante 
è l'art. 24 che proclama «la difesa è diritto inviolabile in ogni 
stato e grado del procedimento». Esso impegna, inoltre, il 
legislatore ordinario ad «assicurare ai non abbienti, con 
appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni 
giurisdizione», nonché a determinare «le condizioni e i modi 
per la riparazione degli errori giudiziari». Fondamentale è, 
altresì, la previsione secondo cui «nessuno può essere distolto 
dal giudice naturale precostituito per legge» (art. 25). La 
presunzione di innocenza dell'imputato è consacrata, infine, 
nell'art. 27 con la formula «L'imputato non è considerato 
colpevole sino alla condanna definitiva». Sulla base della 
Legge-delega del 1974 una Commissione Ministeriale 
predispose un Progetto preliminare di 653 articoli, diviso in 
due Parti e composto di undici Libri. Detto Progetto, 
pubblicato nel 1978, delineava un tipo di «processo di parti a 
struttura accusatoria», con una tendenziale eguaglianza di
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posizione tra P.M. e difensore dell'imputato; aboliva 
l'istruzione formale e la figura del Giudice Istruttore e spostava 
l'acquisizione della prova alla fase dibattimentale, che 
diventava il momento centrale del processo. Il Progetto del 
1978 era accompagnato da un'ampia relazione illustrativa, che 
dava conto delle radicali innovazioni apportate. Sennonché il 
Governo, dopo aver chiesto numerose proroghe, lasciò scadere 
il termine previsto dalla Legge - delega, senza tradurre in legge 
il Progetto. Tale comportamento può trovare la sua 
spiegazione nel difficile momento che l'Italia attraversava in 
quel periodo, a causa della grave situazione creata dal 
terrorismo e da altre forme di criminalità organizzata. Ma 
l'esigenza di avere un nuovo codice di procedura penale 
permaneva e diventava, anzi, sempre più urgente, per le gravi 
disfunzioni dell'amministrazione della giustizia. Si 
lamentavano, soprattutto, l‘ estrema lentezza dei processi, le 
lunghe - e spesso ingiustificate - carcerazioni preventive (la 
maggior parte dei detenuti era costituita da imputati in attesa di 
giudizio), la compressione dei diritti della difesa ed altre 
notevoli carenze. Cosicché il Parlamento si mise al lavoro per 
elaborare una nuova Legge - delega, che tenesse anche conto 
dei rilievi e delle critiche che erano state mosse alla precedente 
Legge del 1974 ed al Progetto del 1978. La nuova Legge-
delega veniva approvata dal Parlamento con Legge 16 febbraio 
1987 n. 81. Dopo aver premesso, ancora una volta, che il 
codice di procedura penale avrebbe dovuto attuare i principi 
della Costituzione e adeguarsi alle norme delle Convenzioni 
internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della 
persona nel processo penale, la nuova Legge-delega ribadiva
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che doveva essere adottato il sistema accusatorio, e fissava in 
105 punti le direttive alle quali doveva adeguarsi il nuovo 
processo.  Si stabiliva, innanzitutto, che il nuovo processo 
dovesse ispirarsi alla massima semplificazione delle forme e 
dovesse adottare il principio di oralità. Si affermava che 
accusa e difesa dovessero essere trattate su base di parità in 
ogni stato e grado del procedimento, con obbligo del giudice di 
provvedere senza ritardo sulle richieste delle parti e dei 
difensori. Si prevedeva il diritto dell‘imputato o del fermato di 
essere avvertito immediatamente della facoltà di nominare un 
difensore e di farsi assistere dallo stesso nell'interrogatorio e, 
in caso di carcerazione preventiva, di conferire con il difensore 
immediatamente o subito dopo la esecuzione del 
provvedimento limitativo della libertà personale. Si stabilivano 
precise garanzie per la libertà del difensore in ogni stato e 
grado del procedimento. Venivano previste misure alternative 
alla custodia in carcere e si fissava un termine massimo di 
quattro anni per la carcerazione preventiva, per i reati più 
gravi. Il testo del nuovo codice di procedura penale è stato 
predisposto da una Commissione ministeriale e sottoposto al 
controllo di «conformità alla delega» da una Commissione 
parlamentare presieduta dal prof. Marcello Gallo. Dopo 
l'approvazione del Governo, il Presidente della Repubblica, 
Francesco Cossiga, firmava il 22 settembre 1988 il Decreto 
Presidenziale n. 447, controfirmato dal Guardasigilli prof. 
Giuliano Vassalli
1
. È soprattutto la struttura del processo che è 
mutata, ispirandosi al modello accusatorio, anziché a quello 
                                                           
1
 Pubblicato, poi, nel Supplemento della Gazzetta Ufficiale del 24 ottobre 1988, che 
prevede il termine di un anno per l'entrata in vigore del codice.
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inquisitorio. Da più parti si sente ripetere, con insistenza degna 
di miglior causa, che il nuovo codice di procedura penale 
sarebbe una riproduzione del processo anglo-americano. 
Orbene, se si vuole soltanto significare che il nuovo processo 
penale italiano è ispirato al modello accusatorio, al quale si 
richiamano i processi di tipo anglosassone, si dice cosa esatta. 
Non v'è dubbio, infatti, che il nuovo processo italiano si 
allontana decisamente dal modello inquisitorio, al quale si 
ispirava il codice del 1930, e si presenta come un «processo di 
parti». Sennonché, a prescindere dall'ovvio rilievo che ogni 
processo, anche a prescindere dalla sua struttura, è modellato 
dagli usi e costumi, oltre che dall'ordinamento politico, 
giuridico e costituzionale del Paese in cui opera - per cui è 
assurdo pensare a trapianti che sarebbero ineluttabilmente 
destinati ad una reazione di rigetto - non possiamo non 
sottolineare che la scelta del modello accusatorio si riallaccia 
alla migliore dottrina italiana e, storicamente, alla genuina 
tradizione romanistica. Basta rileggere quanto scriveva Cesare 
Beccaria, nella sua immortale opera «Dei delitti e delle pene», 
nella quale si scagliava contro le accuse segrete e contro la 
tortura, strumento tipico del sistema inquisitorio, da lui 
considerato «mezzo sicuro per assolvere i robusti scellerati e 
per condannare i deboli innocenti». Ma, più ancora, vale la 
pena di ricordare quanto scriveva Francesco Carrara allorché si 
batteva, con parole roventi, contro l'istituto dei giudice 
istruttore e, più in generale, contro il sistema inquisitorio. «Sia 
abolito ogni segreto - egli ammoniva - anche nel primo 
periodo del processo criminale che dicesi inquisitorio. Tutto, 
anche qui, si faccia col metodo accusatorio puro, cioè in
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pubblico e nel costante contraddittorio dell'imputato e del suo 
difensore». Ecco perché la scelta di fondo del rito accusatorio, 
operata fin dalla prima Legge-delega dei 1974 e poi ribadita 
nella Legge-delega dei 1987, si ricollega alla migliore 
tradizione italiana. Certo, né la Legge-delega del 3 aprile 1974 
n. 108 e neppure la nuova Legge-delega 16 febbraio 1987 n. 
81, in attuazione della quale è stato redatto il nuovo codice di 
procedura penale, realizza un puro modello accusatorio: e 
neppure sarebbe stato possibile, non foss'altro perché questo 
avrebbe comportato anche il ripristino della «giuria», 
storicamente legata al processo di tipo accusatorio, mentre tale 
istituto è stato abolito in Italia e non si è inteso ripristinarlo. 
Del resto l'art. 2 della legge-delega 16 febbraio 1987 n. 81 
precisa - come già faceva quella del '74 - che il nuovo codice 
doveva attuare «i caratteri del sistema accusatorio secondo i 
principi e i criteri che seguono». E tra essi, mentre vengono 
indicati «l'adozione del metodo orale» e «la partecipazione 
dell'accusa e della difesa su basi di parità» (caratteri tipici, 
appunto, del sistema accusatorio), si elencano anche direttive 
che certamente non sono tipiche del sistema accusatorio 
(come, ad esempio, la presenza della parte civile, del 
responsabile civile e di altri soggetti sicuramente estranei alla 
pretesa punitiva dello Stato). Questo significa che il nuovo 
processo, anche se tendenzialmente ispirato al modello 
accusatorio, ha, nella stessa intenzione del legislatore 
delegante, una struttura propria originale, caratterizzata anche 
dalla esigenza, posta giustamente in primo piano dalla legge-
delega, di attuare i principi della Costituzione e di adeguarsi 
alle norme delle Convenzioni internazionali ratificate
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dall'Italia e relative ai diritti della persona. Le riforme in 
ordine di tempo da ultimo attuate hanno riguardato 
l‘introduzione di taluni principi volti a spostare ulteriormente 
l‘indirizzo del processo penale italiano verso il profilo 
accusatorio con la delineazione del ―giusto processo‖. I 
principi scritti nel nuovo art. 111 della Costituzione (legge 
costituzionale n. 2 del 1999) sanciscono non solo la necessità 
di una piena esplicazione del contraddittorio e quindi della 
difesa effettiva, ma anche la necessità di pervenire ad una 
decisione in tempi ragionevoli, rendendo in tal modo espliciti e 
più vincolanti i principi già implicitamente contenuti negli 
articoli 24 comma 2 e 27 comma 2 della Costituzione e 
traducendo in canoni oggettivi di legittimità del processo quei 
diritti che fino ad ora erano concepiti come garanzia 
individuale. Il nuovo testo dell‘art. 111 della Costituzione 
sancisce ora la parità fra accusa e difesa, il contraddittorio di 
fronte al giudice terzo ed imparziale, nonché la ragionevole 
durata del processo. Il contraddittorio rappresenta il cuore 
della riforma: la parità delle parti nel processo passa tramite il 
contraddittorio di fronte un giudice terzo ed imparziale, ossia 
in una posizione d‘indifferenza ed equidistanza rispetto alle 
parti. La nuova disposizione assicura che il soggetto indagato 
sia informato, in maniera riservata e nel minor tempo 
possibile, delle ragioni e della natura delle accuse elevate a suo 
carico. Quanto al diritto di difesa, l‘accusato deve disporre del 
tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua arringa 
difensiva. Tra le condizioni figura la possibilità di interrogare 
dinanzi al magistrato colui che ha reso dichiarazioni a suo 
carico. L‘imputato, inoltre, ha il diritto di ottenere la
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convocazione in aula e la deposizione davanti alla Corte o al 
Tribunale di testimoni a sua difesa nelle medesime condizioni 
dell‘accusa e l‘acquisizione di ogni altro strumento di prova a 
suo vantaggio. Il processo penale, inoltre, è regolato dal 
principio del contraddittorio nella formazione delle prove, 
parte importante della riforma, destinata a riflettersi sulla 
gestione sui pentiti. L‘articolo in esame sancisce, infatti, "la 
colpevolezza dell‘imputato non può essere provata sulla base 
di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre 
volontariamente sottratto all‘interrogatorio da parte 
dell‘imputato o del difensore". La legge, infine, regola tutti i 
casi in cui la formazione della prova non ha luogo in 
dibattimento per consenso dell‘imputato, per accertata 
impossibilità di natura oggettiva, per effetto di provata 
condotta illegale. Obiettivo primario dei nuovi principi inseriti 
nell‘articolo 111 Cost., pertanto, è la piena operatività del 
principio del contraddittorio nella formazione della prova, in 
quanto "fine primario ed ineludibile del processo penale non 
può che rimanere quello della ricerca della verità". Altro 
fondamentale enunciato è la durata ragionevole del processo, 
che deve essere inteso non in senso tecnico ma comprensivo 
anche della fase procedimentale, nella veste di garanzia 
oggettiva contro illogici ed ingiustificati pregiudizi per la 
tempestiva definizione dell‘attività giurisdizionale. La 
"ragionevole durata dei processi" rappresenta l‘elemento 
essenziale affinché il sistema giuridico sia in grado di regolare 
concretamente i rapporti che si costituiscono al suo interno. 
Del resto un sistema giudiziario veramente efficace e 
soddisfacente deve poter contare su strutture operative che
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garantiscano il rispetto delle leggi, evitando in tal modo che 
entri in crisi il servizio giustizia, con conseguente perdita di 
incisività e significato dell‘opera dei giudici. L‘introduzione 
nell‘art. 111 della Costituzione del principio della durata 
"ragionevole" del processo, che deve essere assicurata dalla 
legge ordinaria, unito a quello del contraddittorio, rappresenta 
sicuramente una novità interessante, da valutare attentamente e 
che impone di affrontare in modo diverso i vari temi della 
giustizia, da quello dell‘efficienza ai limiti ed alle modalità di 
esercizio del diritto al silenzio, per giungere alla rielaborazione 
di una deontologia professionale del magistrato e 
dell‘avvocato, rispondente alle esigenze del processo orale. 
Con la legge costituzionale n. 2 del 1999, peraltro, è stato 
esplicitamente inserito nella nostra Carta fondamentale un 
principio già espressamente previsto dall‘art. 6 della 
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell‘uomo e delle 
libertà fondamentali, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950 e 
ratificata dall‘Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848. Il citato 
articolo 6, par. 1 della Convenzione, infatti, riconosce ad ogni 
persona il diritto che "la sua causa sia esaminata 
imparzialmente, pubblicamente ed in un tempo ragionevole". 
Con la ratifica della Convenzione lo Stato italiano si è 
obbligato ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo 
tale da soddisfare l‘esigenza di garantire uno svolgimento 
celere delle cause, adeguando le strutture dell‘amministrazione 
della giustizia. Tuttavia, la lentezza dei processi, tipica del 
nostro Paese, si riflette in una cronica mancanza di 
funzionalità che spiega il motivo per cui il Comitato dei 
Ministri del Consiglio d‘Europa abbia posto sotto osservazione
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il nostro sistema giudiziario, nell‘ambito dei suoi compiti di 
sorveglianza. Concludendo, sicuramente l‘innovazione più 
significativa della riforma del 1988 è stata l‘introduzione della 
figura del pubblico ministero, l‘organo affidatario 
dell‘esercizio dell‘azione penale. Durante le indagini 
preliminari il P.M. è il soggetto attivo del procedimento – 
quale titolare delle indagini stesse – con il compito di 
raccogliere le informazioni e le conoscenze utili al fine 
dell‘esercizio dall‘azione penale
2
; deve svolgere anche 
accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona 
indagata (art. 358). Nella fase processuale o dibattimentale 
rappresenta l‘accusa trasformandosi da soggetto attivo a vera e 
propria parte processuale
3
: perde il ruolo di preminenza e 
assume una posizione di parità dialettica con la controparte 
imputato. La funzione del P.M. è pubblica ed obiettiva: 
pubblica perché l‘importanza degli interessi in gioco (come ad 
esempio la libertà personale) richiede che la funzione di accusa 
sia affidata ad un organo pubblico. E questo – appunto – per 
garantire l‘obiettività dell‘operato. Quest‘ultima può essere 
sintetizzata nella formula che il P.M. è un terzo nell’azione 
allo stesso modo in cui il giudice è un terzo nella 
                                                           
2
 L‘attività di indagine è svolta personalmente dal P.M., che può delegare il compimento 
di specifici atti alla polizia giudiziaria, a meno che si tratti di interrogatorio 
dell‘indagato o di confronti con il medesimo. Gli atti di indagine comprendono anzitutto 
quelli acquisitivi della notizia di reato derivanti da denuncia, querela, richiesta, istanza e 
referto; seguono gli atti investigativi per la ricostruzione del fatto reato e per la 
individuazione del colpevole. 
3
 Questa ―trasformazione‖ è la conseguenza del promovimento dell‘azione penale che 
segna l‘inizio del processo in senso stretto e che il P.M. può esercitare in uno dei modi 
contemplati dall‘art. 60. Alternativa all‘incriminazione è la richiesta di archiviazione 
consentita sia in caso di infondatezza della notizia di reato, sia quando manchi la 
condizione di procedibilità, il reato sia estinto, il fatto non sia previsto dalla legge come 
reato o quando sia ignoto l‘autore del reato.
16 
 
giurisdizione. I vari uffici del pubblico ministero sono 
strutturati in livelli organizzativi comprendenti: 
a) la Procura Generale presso la Corte di Cassazione; 
b) le Procure Generali presso le Corti di Appello; 
c) le Procure della Repubblica presso i Tribunali ordinari; 
d) le Procure della Repubblica presso i Tribunali per i 
minorenni. 
Nei rapporti tra i diversi uffici del P.M. non esiste una 
relazione di superiorità gerarchica, ma di mera sovra-
ordinazione, collegata alla progressione del processo al grado 
di giudizio successivo. La struttura unitaria dell‘ufficio ha 
comportato la sottrazione ai singoli magistrati addetti alla 
procura del potere di iniziativa, dovendo essi limitarsi a 
segnalare al titolare del proprio ufficio le notizie di reato a loro 
pervenute o comunque acquisite, spettando al dirigente la 
designazione del magistrato incaricato. Così pure spetta al 
titolare dell‘ufficio decidere sulla dichiarazione di astensione 
degli altri magistrati e provvedere alla loro sostituzione. Ciò 
vale anche nelle ipotesi di incompatibilità. In caso di contrasti 
negativi o positivi tra diversi uffici del P.M., ognuno dei quali 
declina la propria competenza, spetta al Procuratore Generale 
determinare quale ufficio deve procedere. In particolare, ai 
sensi dell‘art. 70, comma 3 dell‘ordinamento giudiziario ― i 
titolari degli uffici del pubblico ministero dirigono l‘ufficio cui 
sono preposti, ne organizzano l‘attività ed esercitano 
personalmente le funzioni … quando non designano altri 
magistrati addetti all‘ufficio‖. In base a tale norma il titolare 
dell‘ufficio può attribuire un procedimento ad un magistrato
17 
 
ovvero può esercitare personalmente le funzioni; anche se 
ormai si riconosce che la sostituzione può avvenire soltanto 
per motivi che attengo alla buona amministrazione. Il potere 
direttivo del titolare si attenua quando il magistrato si trova in 
udienza. In tal caso il magistrato del pubblico ministero 
esercita le sue funzioni con piena autonomia (art. 53, comma 
1). Il capo dell‘ufficio provvede alla sostituzione soltanto su 
consenso dell‘interessato ovvero se il consenso manca, in caso 
di grave impedimento o di rilevanti esigenze di servizio. Vi è 
l‘obbligo di provvedere alla sostituzione se il magistrato ha un 
interesse privato nel procedimento (art. 53, commi 2 e 3). In 
base alla regola esposta nell‘art. 51, comma 3, ogni ufficio del 
pubblico ministero è competente a svolgere le sue funzioni 
esclusivamente presso l‘organo giudiziario davanti al quale è 
costituito. A tale regola sono poste alcune eccezioni che danno 
vita a singole ipotesi di rapporti di tipo gerarchico. Il 
procuratore generale presso la corte di cassazione svolge una 
funzione di sorveglianza, nel senso che ha il potere di iniziare 
l‘azione disciplinare contro un qualsiasi magistrato requirente 
o giudicante; la decisione spetterà poi al Consiglio Superiore 
della Magistratura. Lo stesso Procuratore Generale può essere 
chiamato a risolvere un contrasto negativo o positivo tra uffici 
del pubblico ministero appartenenti a diversi distretti della di 
corte di appello (art. 54 e 54 bis). Il Procuratore Generale 
presso la Corte di Appello sorveglia tutti i magistrati requirenti 
del distretto. Inoltre in ipotesi tassativamente indicate dalla 
legge può avocare le indagini condotte da uno degli uffici 
inferiori.