2 
 
 Introduzione al folklore di guerra 
Il folklore di guerra costituisce un terreno d’indagine estremamente 
vario e ricco di sfaccettature, soprattutto in relazione al periodo che 
prenderemo in considerazione. La Grande Guerra portò ingenti masse di 
soldati, provenienti da ogni parte d’Italia a convivere e sopravvivere in un 
nuovo scenario, quello della modernità. La Prima Guerra Mondiale infatti, 
come la definisce Eric Leed in Terra di nessuno, fu un gigantesco e 
sanguinoso rito di passaggio, attraverso cui il vecchio mondo, quello 
ottocentesco, veniva lasciato alle spalle per battezzare impetuosamente il 
nuovo
1
. Fu una frattura, un trauma in ogni aspetto della vita associata, ed 
anche nella soggettività di coloro che vi parteciparono: la Grande Guerra, 
come prima di questa quella russo-giapponese
2
, presentò una combinazione 
così tanto complessa di tecnologia e produzione di morte, di principio di 
efficienza ma anche distruzione, tale da essere vista come la guerra 
industrializzata per eccellenza. L’organizzazione delle energie umane e 
materiali, di ricambio e recupero delle risorse investite, di preparazione e 
massimo sfruttamento del materiale umano disponibile, di strategie di 
controllo sui corpi e sulle menti, evidenzia come il fattore biologico e quello 
meccanico-tecnologico siano stati uniti in una combinazione inedita. Per tutti 
divenne una violenta esperienza di modernità industriale; la guerra esaltava 
il ruolo dello Stato, delle classi egemoni, le quali diventarono una presenza 
costante nella vita privata e interiore di ciascun cittadino e allo stesso tempo 
utilizzava e potenziava le nuove tecnologie
3
. La soppressione del confine fra 
vita e morte, tra umano e disumano si presenta come perdita di distinzione 
 
1
 Cfr. A. Gibelli, L’officina della guerra, Bollati Boringhieri, 2007, p. 9. 
2
 Cfr. Ivi. p.18. 
3
 Cfr. Ivi. p.10.
3 
 
tra il corpo e la macchina: l’omologazione e la standardizzazione dei soldati, 
la loro riduzione a materiale di consumo e poi di scarto ne sono tratti 
significativi
4
. Come sottolinea Antonio Gibelli, la discontinuità venuta a 
crearsi non si delinea come un dato psicologico provvisorio ma come l’inizio 
di nuove forme di esistenza sia esterne che interiori, sia individuali che 
collettive
5
.  Basti pensare al cambiamento subito dal paesaggio visivo e 
sonoro, sfondo della vita di ogni giorno dei soldati in trincea: un paesaggio 
per certi versi disegnato dal predominio impersonale delle artiglierie, dalla 
potenza devastante dell’elemento meccanico e tecnologico che esse 
incarnano, dall’altro dall’uso di mezzi di amplificazione della luce e del 
suono
6
. È nel contesto di un paesaggio come questo, sia reale che mentale, 
nel reticolo labirintico di questa esperienza del tutto nuova che i soldati 
smarrirono la loro identità, vissero l’esperienza tipicamente moderna dello 
sdoppiamento di personalità, l’interruzione della continuità esistenziale, la 
percezione dell’essere dominati da un meccanismo totalizzante che non 
poteva essere eluso, senza possibili relazioni con la vita precedente. I soldati 
divennero attori, e a volte comparse, in un teatro senza scampo: da qui il 
tema dell’irriconoscibilità del combattente, della sua estraneazione, 
dell’indicibilità dell’esperienza di guerra. Questo grande evento portò il 
singolo ad esistere su due piani: quello privato, sempre più esiguo e 
assediato, e quello del mondo esterno, in cui non si è più se stessi, non si 
conta più nulla. La guerra fu esaltazione del potere delle macchine, essendo 
macchina essa stessa, che operò senza tenere conto della volontà dei singoli, 
 
4
 Cfr. A. Gibelli, Fonti medico-psichiatriche e antropologiche per la storia dell'esperienza di guerra, 
1986, pp. 50-56. 
5
 Cfr. A. Gibelli, L’officina della guerra, pp. 43-44. 
6
 Cfr. A. Gibelli, Fonti medico-psichiatriche e antropologiche per la storia dell'esperienza di guerra, p. 
60.
4 
 
anzi, la sovrastò e la inglobò in sé
7
.        
 Per ciò che concerne il folklore di guerra è bene notare sin da subito 
come ogni soldato che era chiamato alle armi portava con sé al fronte il 
proprio bagaglio culturale, appartenente alla sfera delle tradizioni, il quale 
poi andava ad intersecarsi e rimodellarsi in base al vissuto sul campo di 
battaglia e agli influssi esterni; difatti il folklore, per definizione, designa un 
complesso generico di materiali della tradizione, come miti, leggende 
popolari, racconti, proverbi, indovinelli, superstizioni, giochi, ecc. trasmessi 
oralmente
8
. Possiamo parlare di "folklore di guerra" in quanto il conflitto 
creò nuove credenze, canti, come anche nuove superstizioni.    
 La Prima Guerra Mondiale, in quanto grande manifestarsi della 
modernità, ha dunque portato i soldati a legare culti ancestrali (diverse dalla 
religiosità ufficiale o a loro intersecate) ad oggetti propri del nuovo scenario 
bellico, adattandoli a pratiche di carattere folklorico. Nel presente lavoro 
andremo ad analizzare in primis questo aspetto, assieme al rapporto della 
disciplina antropologica con il conflitto mondiale, concentrandoci sulle 
principali opere prodotte (gli studiosi che nel corso della Grande Guerra si 
interessarono a questo aspetto furono relativamente pochi e, almeno in Italia, 
questa tradizione di studi venne lasciata cadere e non fu ripresa per molto 
tempo) e i dibattiti che si aprirono intorno all’argomento; in seguito 
prenderemo in esame uno dei temi più studiati del folklore, i canti dei soldati.  
 
 
 
7
 Cfr. A. Gibelli, Fonti medico-psichiatriche e antropologiche per la storia dell'esperienza di guerra, pp. 
62-65. 
 
8
Cfr. A. Dundes, Folklore, in Enciclopedia Treccani, Enciclopedia delle scienze sociali, 1994.
5 
 
Capitolo 1 
1.1 Contributo dell’antropologia allo scoppio della Prima 
Guerra Mondiale 
 In Italia l’interesse degli antropologi per la Grande Guerra fu 
relativamente scarso, nonostante, come vedremo a breve, la stagione di studi 
etnologici e altri di impianto positivistico sul folklore delle varie regioni era 
stata negli anni precedenti il conflitto piuttosto intensa e vivace. Altri 
intellettuali al loro posto, come ad esempio il medico e psicologo Padre 
Agostino Gemelli, andarono a sopperire la carenza di osservazioni sul 
campo, raccolta di materiale e analisi dell’avvenimento; la guerra infatti, agli 
occhi di chi la osservò, si presentò subito come un grande laboratorio 
antropologico. Un filtro per analizzare e cercare di comprendere il rapporto 
fra l’antropologia e la Prima Guerra Mondiale è appunto questo piccolo 
corpus di studi, prodotto da outsiders sul folklore di guerra: sugli usi, le 
credenze, i canti, i sistemi simbolici e le pratiche culturali sviluppate al fronte 
dai soldati. Durante e dopo il conflitto le indagini iniziate si interessarono 
principalmente ai nuovi fenomeni e comportamenti legati al contesto bellico, 
il cui scopo spesso era l’analisi al fine di disciplinare al meglio le grandi 
masse di uomini chiamati a combattere al fronte e provenienti da regioni 
diverse della stessa Nazione.  
 Dunque, a che punto era la disciplina antropologica quando il conflitto 
ebbe inizio? In Italia venne fondata istituzionalmente nel 1869 da Paolo 
Mantegazza con una cattedra universitaria nel Palazzo Nonfinito di Firenze, 
sede dell'Istituto di Studi Superiori, affiancata poi nel 1871 dalla Società 
Italiana di Antropologia e Etnologia (SIAE), dalla rivista “Archivio per
6 
 
l’Antropologia e l’Etnologia” e dal Museo Nazionale di Antropologia. Alla 
fine dell’800 in altre nazioni, come Francia o Gran Bretagna, gli studi 
etnologici e il corpus di opere prodotte riguardavano essenzialmente 
l’esperienza coloniale; in Italia tale fenomeno fu tardivo e limitato, per 
questo motivo l’interesse degli antropologi si riversò sulle origini delle 
istituzioni civili, avendo alle spalle una ricca tradizione di studi riguardante 
la storia classica, greca e romana
9
. Nella seconda metà del sec. XIX, in Italia, 
all’antropologia “fisica” di Mantegazza, la quale sottoponeva al dominio 
biologico i fatti e i comportamenti culturali, si affiancò l’interesse per le 
tradizioni popolari regionali, nello specifico i canti e le fiabe (argomento di 
studi inaugurato dalla tradizione romantica), esaminati e raccolti da figure 
illustri come Alessandro D’Ancona , Costantino Nigra e Angelo De 
Gubernatis, il quale nel 1893 fondò la Società Italiana per le Tradizioni 
Popolari italiane, a favore di una concezione più culturalmente coesa. Anche 
l’operato di Giuseppe Pitré, medico palermitano, si inserì nella ricerca di un 
approccio organico alla disciplina; coniò lui il termine “Demopsicologia”
10
, 
confermato dalla cattedra omonima che tenne dal 1911 nella sua città. 
All’inizio del ’900 si tenta di trovare dunque punti di convergenza fra i vari 
campi d’indagine antropologica; il metodo fisico-naturalistico mostrava i 
suoi limiti in quanto non riusciva a coprire tutti i fenomeni della vita umana, 
le razze non determinavano le culture e gli elementi somatici si slegavano da 
quelli culturali. Nel 1905 Lamberto Loria, grande etnografo e naturalista 
italiano, affermò che non vi era bisogno di allontanarsi per studiare gli usi e 
i costumi dei popoli se ancora non si conoscevano quelli dei propri 
 
9
 Cfr. F. Dei, P. De Simonis, Folklore di guerra: l’antropologia italiana e il primo conflitto mondiale, 
Lares, LXVIII (3), 2012, p. 406-407. 
10
 Disciplina che ha per oggetto lo studio della psicologia dei popoli, o di grandi gruppi sociali, 
documentata nelle loro tradizioni e nei loro costumi.
7 
 
connazionali, uniti politicamente ma aventi mescolate nel sangue mille 
eredità diverse
11
.            
Conseguenza di questo cambio di prospettiva fu nel 1910 la creazione 
della Società di Etnografia Italiana, la quale il 24 ottobre dell’anno 
successivo inaugurò a Roma il Primo Congresso di Etnografia Italiana (in 
cui si tennero discussioni accese segnate da una volontà di apertura e 
innovazione), assieme a una grande Mostra di Etnografia Italiana, la quale si 
inseriva nel contesto dell’Esposizione Universale che celebrava i 
cinquant’anni dell’Unità d’Italia. Dopo il Congresso tuttavia vi fu un 
sostanziale ristagno della disciplina; i reperti della Mostra, che avrebbe 
dovuto da subito trasformarsi in Museo Nazionale di Etnografia, furono 
sistemati completamente solo nel 1956. Questa stasi fu anche aggravata della 
scomparsa di figure di rilievo come Loria e Pitré, il primo deceduto nel 1913 
e il secondo nel 1916. Motivi di ordine generale, che vedremo fra poco, a 
loro volta influirono nel distacco degli antropologi nei confronti della Grande 
Guerra; come già detto furono psicologi, letterati a operare per primi nella 
raccolta di dati sul terreno e questo portò a interventi ex-post da parte degli 
antropologi, in particolar modo vanno ricordati quelli di Raffele Corso.  
 La marginalità del folklore può essere infatti ricondotta anche a cause 
quali la messa in secondo piano, come fossero ancelle, delle discipline 
sociali, operata già da fine ‘800 dalla filosofia crociana, e la successiva 
adesione, non superficiale ma utilitaristica, al regime fascista; del folklore 
vennero poste al centro d’interesse le accezioni più retrive, conservatrici e 
funzionali all’ideologia e alla propaganda del potere politico: nazionalismo, 
ruralismo, localismo, etc.
12
 Così l’antropologia fra le due guerre andava a 
 
11
 Cfr. L. Loria, Del modo di promuovere gli studi di Etnografia Italiana, in Per la etnografia italiana, 
estratto da “Rassegna contemporanea”, III, 1911. 
12
 Cfr. F. Dei, P. De Simonis, Folklore di guerra, pp. 409-410.
8 
 
legarsi al fascismo;  gli interventi e gli scritti di quel periodo, per questo 
motivo, andranno filtrati e letti con particolare attenzione al contesto che li 
ha prodotti (sia gli interventi di Raffaele Corso che l’operato di Cesare 
Caravaglios). L’antropologia in quegli anni peccò dunque di “distanza” nei 
confronti della guerra: gli etnologi la percepirono come un evento troppo 
contemporaneo, slegato dal contesto delle forme di vita popolari.  
 Come già detto fu l’opera di Agostino Gemelli, Il nostro soldato, 
pubblicato nel 1917, a dare il primo contributo al folklore di guerra; fu 
seguito da Canti di soldati raccolti da barba di Piero di Piero Jahier nel 
1919; l’anno seguente uscirono i due resoconti (Folk-lore di guerra e I vivi 
ed i morti nell'ultima guerra d'Italia) dell’attività di collezionista ed etnologo 
di Giuseppe Bellucci. Nel 1922 uscì un’opera promossa dall’Ufficio Storico 
Militare dello Stato Maggiore, I canti del fante di Mario Griffini. Andando 
avanti negli anni, fino a giungere alla fine del ‘20, uscirono le opere del 
giovane etnologo Giuseppe Cocchiara (L’anima musicale del popolo 
italiano nei suoi canti) e dell’etnomusicologo Cesare Caravaglios (I Canti 
delle trincee: contributo al folklore di guerra). La breve serie di studi si 
chiuderà nel 1937 con l’opera di Giulio Mele Guerra e Folklore, lavoro 
molto descrittivo, senza particolari inclinazioni disciplinari. Fatta questa 
breve panoramica si può notare quello che in precedenza si era accennato: 
gran parte di questi contributi vennero realizzati da outsiders, e l’interesse o 
la raccolta di materiale non avvenne equamente in tutti i settori del folklore: 
furono i canti ad essere in parte privilegiati, rispetto agli amuleti o la raccolta 
di testimonianze di pratiche superstiziose
13
.  
 
13
Cfr. Ivi. pp. 417-419.
9 
 
1.2 Il primo corpus sul folklore di guerra: Agostino Gemelli, 
Giuseppe Bellucci e Cesare Caravaglios 
Nel 1931, Giuseppe Vidossi, studioso di linguistica e di tradizioni 
popolari, sulla rivista «Il folklore italiano» pubblicò l’articolo: “Folklore di 
guerra. Ex voto italiani”. Nel breve scritto l’autore sottolineava per prima 
cosa come la ricerca e la raccolta sul folklore di guerra, ad eccezione dei 
canti, fosse stata carente; solo Dolfo Zorzut, raccoglitore di fiabe e novelline 
friulane, ha richiamato l’attenzione sulle leggende formatesi nel corso 
dell’ultimo conflitto. La ricerca, dice Vidossi, riprendendo lo studioso 
friulano,  
è da condurre tra i combattenti e nei luoghi che furono teatro della guerra, ancorché 
leggende di guerra possano essere nate e sono nate anche fuori dalla cerchia dei 
combattenti e degli spettatori immediati della guerra
14
. 
Ma come ben tende a sottolineare il folklore di guerra non comprende 
solo canti e leggende ma anche facezie, motteggi, parlar figurato, gergo, 
usanze, pratiche e credenze superstiziose; infatti  
la guerra creò con la sua psicologia e con il suo movimento di masse condizioni 
straordinarie che consentirono, come in tanti altri campi anche in quello del folklore, che 
sviluppi, richiedenti normalmente lunghi cicli d’elaborazione, maturassero in breve 
spazio d’anni
15
. 
Uno dei primi ad occuparsi della raccolta di superstizioni e leggende 
anche se da un punto di vista principalmente psicologico ma con cognizione 
anche ai problemi folklorici, come dice Vidossi, fu Gemelli nell’opera Il 
nostro soldato.  
 
14
 Cfr. G. Vidossi, Folklore di guerra. Ex voto italiani, in "Il folklore italiano", VI, 1931, p. 277. 
15
 Cfr. Ivi, p. 278.