2garantire un incremento produttivo nella moderna agricoltura, come l’allevamento 
e l’impiego di Apoidei Megachilidi, ripristinando contemporaneamente 
l’equilibrio ecologico alterato dalla pressione antropica, in particolare nelle aree 
degradate; 2) stimare la reale consistenza di specie di Apoidei pronubi nel nostro 
paese e, attraverso il loro censimento, valutare il grado di complessità ambientale 
in relazione all’uso reale del territorio e alla sua gestione. E’ opportuno precisare 
che, nell’ambito di tale progetto, la linea di ricerca riguardante il censimento dei 
pronubi sul territorio nazionale risulta del tutto innovativa per l’Europa. 
Nella sfera internazionale, fin dal 1995 si sono costituiti gruppi di lavoro composti 
da ricercatori americani ed europei al fine di definire le priorità scientifiche e di 
ricerca nel settore della protezione degli Apoidei, riconosciuti fondamentali per il 
ruolo da essi rivestito nell’impollinazione delle colture agrarie e spontanee. 
Recentemente, nel novembre del 1997, nell’ambito di uno workshop 
Internazionale finanziato dalla F.A.O., tenutosi in Olanda a Tilburg, è emersa la 
necessità di volgere gran parte degli sforzi economici verso studi riguardanti le 
seguenti tematiche: 1) le dinamiche e gli equilibri che questi importantissimi 
insetti instaurano tra loro e con l’ambiente circostante; 2) il contributo da essi 
fornito, con la loro biocenosi associata, alla biodiversità di ecosistemi naturali, 
agroecosistemi e ecosistemi urbani; 3) la struttura, la forma e la frammentazione 
degli ambienti nel tempo, riassumibili con il termine di “Environmental 
fragmentation”. 
L’argomento centrale di questa tesi di laurea, il biomonitoraggio ambientale, si 
può quindi considerare, alla luce di quanto detto, non solo come un ramo della 
ricerca scientifica attualmente in pieno sviluppo, sia a livello nazionale che 
internazionale, ma anche come una materia di studio che presenta le più svariate 
sfaccettature: d’altra parte, numerosi e diversi sono i tipi di inquinamento che un 
3ricercatore può andare ad analizzare, a partire dagli effetti provocati da un uso 
irrazionale di fitofarmaci fino ad arrivare a quelli provocati da un errato utilizzo 
delle risorse di un territorio.
* * * 
Vorrei qui ringraziare tutti coloro che in qualche modo hanno contribuito allo 
sviluppo di questo lavoro: innanzi tutto il Dr. Mauro Pinzauti, per 
l’interessamento che esprime sempre per tutti gli studenti e per il fatto di avermi 
fatto  avvicinare e appassionare all’affascinante mondo delle api. Desidero inoltre 
ringraziare il Dr. Antonio Felicioli, per avermi costantemente seguito in tutte le 
fasi di questo lavoro, il Dr. Cesare Biondi per l’importante collaborazione datami 
nel riconoscimento delle specie vegetali raccolte durante i transetti e dei pollini 
presenti nei campioni di miele e il Dr. Marino Quaranta per i validi insegnamenti 
nell’ambito della tassonomia degli Apoidei. Un apprezzabile aiuto mi è stato 
offerto anche dai tecnici del Centro di Fisica Sanitaria dell’ospedale “S. Chiara” 
di Pisa, per l’esecuzione delle analisi radiometriche e per l’interpretazione dei 
relativi risultati. 
Un grazie particolare va alla mia cara amica Sabrina, per l’importante 
collaborazione pratica fornitami nel lavoro svolto con gli Apoidei, per il suo 
carattere allegro e per avermi sempre sostenuto moralmente nei momenti più 
difficili, sdrammatizzandoli. Grazie anche a Stefano, Lucia e Mario che, 
inconsapevoli di quanto li attendeva, sono stati coinvolti nell’esecuzione dei 
transetti, ai tecnici Luciano e Massimiliano e al Dr. Paolo Pescia per la loro 
disponibilità, ai cari Piero e Giovannella Martini che mi hanno trasmesso con 
piacere gli insegnamenti dell’apicoltura pratica e la passione per le piante.  
4Il ringraziamento più caro va ai miei genitori, ai quali questa tesi è dedicata, 
poiché mi hanno sostenuto moralmente in questo lavoro e spesso sono stati 
coinvolti in prima persona nelle mie “escursioni” in campo, a Michele che ha 
partecipato “emotivamente” a questa mia esperienza sopportando le mie ansie e i 
miei momenti di stress, a mio fratello Andrea, che, pur essendo lontano 
fisicamente mi è sempre stato molto vicino, e infine agli “eterni” amici Patrizia, 
Cristiano, Francesco e Valeria. 
Poiché, infine, con questo lavoro si chiude un particolare capitolo della mia vita, 
desidero ringraziare gli amici e colleghi che, percorrendo con me questo 
cammino, hanno contribuito alla mia “crescita” personale e professionale: 
Cristina, Laura, Tiziana, Ilaria, Paola, Francesca, Luciana, Gabriele, Paolo, 
Angelo e Mariassunta.
5INTRODUZIONE
L’inquinamento ambientale 
L’inquinamento si può definire come quel complesso di alterazioni arrecate 
all’ambiente (atmosfera, acqua, suolo) che ne modificano le caratteristiche 
chimiche, fisiche o biologiche in senso sfavorevole alla vita dell’uomo e delle 
altre specie viventi, animali o vegetali (Gerletti, 1994). Esso rappresenta un 
fattore di stress per gli organismi, definito anche per legge (art.1 della legge 
13/7/1966). Le cause dell’inquinamento sono numerose e coincidono con 
l’introduzione nell’ambiente di sostanze contaminanti. Queste ultime sono da 
considerarsi tali sia per la loro intrinseca tossicità sia perché sono immesse negli 
ecosistemi in dosi eccedenti la loro naturale capacità di autodepurazione. 
Alcune sostanze tossiche erano presenti nell’ambiente umano (cibi, abitazioni, 
ecc.) fin dai tempi di tecnologie primitive. Quando circa 4.000 anni fa venne 
realizzata la lega del bronzo (i cui componenti principali sono rame e stagno), 
l’uso che ne venne fatto per realizzare vasellame, destinato a conservare o a 
preparare cibi, produsse un cronico avvelenamento da rame. I Romani usavano 
contenitori di piombo per conservare vino, olio ed altro ancora. Dallo studio delle 
loro ossa è risultato che esse contengono una quantità di piombo tale da ritenere 
che la maggior parte della popolazione ne fosse intossicata (Moroni e Faranda, 
1983). L’inquinamento però comincia ad assumere una dimensione sempre più 
vasta a partire dalla prima Rivoluzione Industriale, che ebbe inizio nel XVIII 
secolo in Inghilterra e che si diffuse in seguito, con differenti modalità, nei paesi 
del continente europeo e in alcune regioni del continente americano. Lo storico 
statunitense D.S. Landes la descrive con queste parole: “La rivoluzione industriale 
6inaugurò un’avanzata cumulativa e autopropulsiva della tecnica, le cui 
ripercussioni dovevano avvertirsi in tutti gli aspetti della vita economica. I 
cambiamenti generarono cambiamenti: le macchine richiesero nuove fonti di 
energia, la lavorazione dei manufatti creò l’esigenza di nuove sostanze chimiche, 
le grandi quantità di materie prime da far giungere in fabbrica e di merci prodotte 
da portare sui mercati rese necessarie nuove soluzioni al problema dei trasporti.”  
Da questa epoca in poi il rapporto uomo-ambiente non è stato più lo stesso. 
All’inizio degli anni sessanta, infatti, il problema ambientale ha cominciato ad 
imporsi su scala mondiale, quando vennero riscontrate tracce di DDT nei corpi 
degli orsi dell’Artide e delle balene che vivevano nelle acque della Groenlandia 
(Molesti, 1984). Queste spiacevoli scoperte hanno avuto il merito di portare 
l’opinione pubblica a conoscenza del processo di concentrazione di determinate 
sostanze durante il loro passaggio attraverso le catene alimentari. Gli inquinanti 
introdotti nell’ambiente in modo continuativo e incontrollato interferiscono con 
queste attraverso la cosiddetta “amplificazione biologica” o “biomagnificazione”: 
essa consiste nel progressivo accumulo, nei tessuti degli organismi appartenenti a 
una certa catena alimentare, di molecole che per loro struttura chimica non 
vengono facilmente escrete o metabolizzate.   
Un esempio di questo tipo di inquinanti è costituito, oltre che dagli insetticidi, dai 
radioisotopi, la cui emissione proviene per la maggior parte dalle centrali nucleari. 
Queste ultime rappresentano un grosso rischio ambientale, non solo per i Paesi 
che le ospitano, ma anche per le nazioni confinanti o relativamente vicine. Si è 
potuto constatare infatti che “la contaminazione ambientale non rispetta i confini 
di comuni, regioni e nazioni” (Dall’Aglio, 1981) e ciò è risultato evidente in 
seguito all’incidente di Chernobyl. Quest’ultimo non è stato semplicemente un 
disastro come altri che l’umanità ha sperimentato nella sua storia, ma un evento 
7del tutto nuovo, con ripercussioni sull’ambiente a livello globale: tale episodio è 
stato caratterizzato da migliaia di “profughi ambientali” e dalla contaminazione a 
lungo termine di terra, acqua e aria (Šþerbak, 1996). 
L’aspetto più inquietante del problema è costituito dall’ignoranza quasi totale sul 
livello di contaminazione ambientale da parte delle numerosissime sostanze 
organiche, prodotte e disperse dall’umanità, e sulla tossicità di tali sostanze per 
esposizioni prolungate a dosi basse o molto basse (Dall’Aglio, 1981). 
E’ possibile raggruppare gli interventi negativi dall’attività umana sulla biosfera 
in tre categorie: 
1) l’introduzione di nuove sostanze chimiche nell’ambiente, alcune delle 
quali hanno già costituito un ciclo biogeochimico a livello biosfera; 
2) l’incremento quantitativo di cicli biogeochimici di metalli pesanti, limitati 
per natura; 
3) la riduzione della diversità biologica, che incide negativamente sui 
processi omeostatici naturali. 
Basti considerare che il nostro pianeta non solo è afflitto da flagelli quali l’effetto 
serra, la riduzione dello strato di ozono stratosferico, le piogge acide, 
l’eutrofizzazione, i danni ecologici della civilizzazione, ma anche da sorgenti 
inquinanti localizzate e diffuse come le discariche, le industrie, le centrali 
termoelettriche, le centrali nucleari, i centri urbani con rifiuti di ogni genere (sia 
elementi stabili tossici che composti organici tossici), i mezzi di trasporto con i 
loro gas di scarico. 
Per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico, una forma di contaminazione 
ambientale che appare in costante crescita è costituita dagli ossidi di azoto (NO
x
),
emessi specialmente dai motori a combustione interna dei veicoli (Lorenzini et
al., 1988). In particolari condizioni climatiche in presenza di elevata radiazione 
8solare, questi composti innescano una serie di reazioni chimiche che portano alla 
formazione di composti ossidanti, in particolare ozono (O
3
), caratterizzati da 
spiccata biotossicità. Questo O
3
 che “ristagna” nella bassa atmosfera, quindi, 
riveste un ruolo completamente diverso da quello, invece utilissimo, svolto 
dall’ozono stratosferico che costituisce un filtro per le radiazioni ultraviolette a 
corta lunghezza d’onda (Lorenzini et al., 1988). Le condizioni che favoriscono 
queste reazioni sono le giornate calde e soleggiate, unite alla presenza di masse 
d’aria relativamente stagnanti, a seguito delle quali si formano e accumulano, 
oltre all’ozono, nitrato di perossiacetile (PAN), aldeidi, chetoni, e una serie di 
aggregazioni minori: il tutto va a costituire quel complesso ed eterogeneo sistema 
chimico chiamato “smog fotochimico” o “fotosmog” (Lorenzini, 1999). Questo 
fenomeno ha una genesi tipicamente urbana e metropolitana, poiché è in tali 
ambienti che vengono rilasciati nell’aria i precursori delle reazioni chimiche sopra 
menzionate, ma bisogna precisare che elevati livelli di ossidanti sono stati più 
volte rilevati anche in aree rurali e forestali poste a distanze notevoli dai maggiori 
centri di emissione. Ciò dimostra come tale tipo di contaminazione possa 
raggiungere anche dimensioni regionali (Lorenzini et al., 1988). 
Anche il settore agroalimentare, impiegando su vasta scala fitofarmaci non 
sempre adeguatamente selettivi, ha contribuito in maniera determinante 
all’aumento dell’inquinamento della biosfera, con conseguenze facilmente 
intuibili. A ciò fa riscontro la scarsa educazione alimentare del consumatore, che è 
indirizzato verso tipi di alimenti per la realizzazione dei quali sono necessarie 
particolari tecniche di forzatura, di concimazione, di conservazione. L’agricoltura, 
pertanto, allontanandosi dai suoi schemi tradizionali, si orienta sempre più verso 
forme di monocoltura specializzata che esigono il ricorso sempre più frequente a 
interventi di concimazione, lotta antiparassitaria e diserbo. 
9Si è ormai reso necessario attribuire un valore economico alle risorse naturali, 
poiché non sono inesauribili. Spesso invece accade che gli uomini trascurino di 
valutare nei costi i danni ambientali causati dalle loro azioni e riparabili solo in 
parte e in tempi molto lunghi. Fortunatamente, negli ultimi anni, le discutibili 
politiche economiche miranti esclusivamente alla massima produzione stanno 
lentamente cedendo il passo a nuovi approcci più rispettosi dell’ambiente, poiché 
finalmente ci si è resi conto della valenza anche economica del danno ambientale. 
E’ ormai opinione diffusa che l’industria deve adottare misure urgenti atte ad 
assicurare maggior affidabilità degli impianti e maggior controllo sui residui e 
quindi sugli scarichi e che l’agricoltura deve integrarsi con il territorio che la 
ospita e non sconvolgerlo e trasformarlo completamente con l’uso irrazionale ed 
eccessivo di prodotti chimici. Anche se spesso concetti nuovi e importanti come 
l’agricoltura biologica e la lotta integrata subiscono notevoli strumentalizzazioni, 
è molto importante il fatto che si stiano diffondendo a livello politico globale 
concetti di questo tipo, alla base dei quali risiede quello del cosiddetto “sviluppo 
sostenibile”, in base al quale l’affannosa ricerca di stili di vita sempre più 
confortevoli, specialmente dei paesi industrializzati, deve necessariamente 
rientrare nei “range” ecologici della terra (Pearce, 1998). Il concetto di sviluppo 
sostenibile, espresso nel rapporto Il futuro di noi tutti redatto dall’ONU, esprime 
la necessità di trovare un compromesso tra le attività umane e la salvaguardia del 
territorio. La protezione delle risorse ambientali non riproducibili, a vantaggio 
delle future generazioni, è possibile a patto di non ritenere la sostenibilità dello 
sviluppo economico e dell’agricoltura come un problema suscettibile di 
semplificazione (Iacoponi, 1996). La presa di coscienza della questione 
ambientale rappresenta il passaggio da una visione riduzionistica e deterministica 
della conoscenza, ad una visione che deve tener conto dell’interazione fra la 
10
tecnologia, la società e l’ambiente: in altre parole, il passaggio dal paradigma 
della semplificazione a quello della complessità (Morin, 1993).  
E’ sulla base di queste considerazioni che risulta fondamentale la valutazione del 
tasso e del tipo di inquinamento in ogni ambiente vitale, compresi gli 
agroecosistemi, in modo tale da consentire l’adozione tempestiva di adeguati 
provvedimenti. 
Certamente non bisogna cadere nell’errore di demonizzare la tecnologia, perché 
nessuno, oggi, rinuncerebbe ai vantaggi da essa indubbiamente apportati. E’ la 
mentalità, la cultura dell’uomo moderno che deve essere trasformata, al fine di 
ritrovare il giusto equilibrio con la natura, di cui peraltro fa parte. 
11
Il monitoraggio dell’ambiente 
La necessità di avere a disposizione strumenti precisi per poter rilevare 
qualitativamente e quantitativamente le caratteristiche dell’inquinamento in esame 
ha spinto l’uomo a cercare di porre rimedio alle conseguenze prodotte dalle 
innovazioni tecnologiche con la tecnologia stessa. Attualmente, infatti, esistono 
strumenti complessi totalmente automatizzati e molto affidabili che rilevano 
l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo. A titolo di esempio, basti 
ricordare l’utilizzo di reti di monitoraggio costituite da centraline nelle quali 
vengono misurate le concentrazioni di alcuni inquinanti (anidride solforosa, 
biossido di azoto, polveri, etc.) e che ormai sono ampiamente diffuse in quasi tutte 
le grandi città. Questi strumenti, tuttavia, operano un rilevamento quasi sempre 
puntiforme, limitato a piccoli volumi di aria (o di acqua) che interessano 
direttamente solo una determinata strumentazione posta in un luogo ben definito. 
Essi, inoltre, si limitano a registrare il rispetto o meno degli standard di qualità 
relativi a un ristretto numero di sostanze e non forniscono informazioni dirette 
sull’effetto provocato dalle sostanze inquinanti sugli ecosistemi. Ancora, i limiti o 
le soglie di attenzione vengono scelti arbitrariamente e pertanto sono modificabili 
quando risulta più comodo. Del resto, “poichè gli esseri umani stanno 
contaminando da millenni l’atmosfera, è difficile individuare la composizione 
chimica “normale” dell’aria a livello della terra” (Lorenzini, 1999) e quindi 
diventa più complicato stabilire a priori quando un certo elemento o componente 
ha raggiunto un livello da considerare allarmante. 
Modelli matematici di diffusione e di dispersione consentono poi di estendere le 
informazioni ottenute con queste apparecchiature ad aree più vaste. Tali modelli, 
12
poichè si basano su parametri ambientali caratterizzati da notevole variabilità, 
possono condurre a conclusioni imprecise o addirittura errate. 
Da queste considerazioni si evince l’enorme difficoltà che comporta la lettura dei 
complessi problemi legati all’inquinamento.  
In questo contesto assumono importanza notevole gli indicatori ambientali, 
organismi viventi animali o vegetali che rispondono in maniera sensibile alle 
variazioni ambientali causate dall’interazione tra le sostanze inquinanti che 
vengono continuamente immesse nella biosfera.  
13
I bio-indicatori 
Generalità 
Un indicatore biologico è, per definizione, un organismo che reagisce in maniera 
osservabile, macroscopica o microscopica, visuale o strumentale, alle 
modificazioni della sua nicchia ecologica, o più in generale del suo biotopo (Celli, 
1992). Principale vantaggio di un bioindicatore è quello di consentire di tener 
conto di interazioni sinergiche e, in alcuni casi, di svelare la presenza di sostanze 
immesse in maniera abusiva nell’ambiente. Altre prerogative sono rappresentate 
dalla capacità di reagire sia a un singolo che a un complesso di fattori e dal fatto 
di possedere una sorta di “memoria” attraverso la quale offrono una risposta 
riferita sia al presente che al recente passato (Celli e Porrini, 1991).  
In teoria, qualsiasi organismo vivente può essere considerato un indicatore 
biologico, poiché ognuno reagisce in maniera caratteristica, anche se in misura 
diversa, alle variazioni delle condizioni ambientali. In realtà un indicatore 
biologico deve possedere certi determinati requisiti come adattamento, 
reperibilità, economicità di impiego, ecc. (Celli e Porrini, 1991). Uno dei più 
antichi suggerimenti riguardo alla possibilità di ricorrere a degli organismi per 
ottenere informazioni sullo stato di salute  di un certo ambiente è il celebre caso 
della Biston betularia, il lepidottero geometride che fu protagonista in Inghilterra 
alla fine del secolo scorso del fenomeno del melanismo industriale (Celli et al.,
1987). La popolazione del lepidottero presentava due forme cromatiche: una con 
ali bianche punteggiate di nero e l’altra nera punteggiata di bianco, considerata in 
precedenza assai rara e denominata per il suo colore “carbonaria”. In seguito 
all’incremento delle attività industriali verificatosi con la Rivoluzione industriale 
si verificò l’aumento degli individui con le ali nere. Queste ultime infatti 
14
sfuggivano meglio delle altre ai predatori, poiché si mimetizzavano meglio con le 
cortecce degli alberi, annerite dall’immensa quantità di scorie scaricate dalle 
industrie carbosiderurgiche nei boschi limitrofi. Nelle zone lontane dalle industrie 
prevaleva invece la forma bianca che in tal caso indicava un ambiente più sano 
(almeno per le scorie industriali) rispetto a quello dei boschi con prevalenza della 
forma nera (Bishop e Cook, 1975). 
In base al tipo e all’entità della reazione si possono distinguere, in accordo con 
Fossato (1980), Ravera (1980) e Grodzincky e Yorks (1981), tre categorie di 
bioindicatori:
I. specie indicatrici: organismi vegetali o animali, la cui presenza o assenza 
in un ambiente può essere associata in modo specifico a un determinato 
tipo di inquinamento; 
II. indicatori veri: organismi che manifestano modificazioni morfologiche e/o 
strutturali in seguito alla presenza di un determinato inquinante; 
III. accumulatori e/o collettori: organismi accumulatori di particolari 
inquinanti. 
Le “specie indicatrici” reagiscono con variazioni popolazionistiche a un 
determinato tipo di inquinamento. Gli “indicatori veri”, in seguito al contatto con 
l’agente inquinante, subiscono modificazioni morfologiche e strutturali e, quelli 
migliori, rispondono in modo proporzionale alla dose incontrata. Gli 
“accumulatori e/o collettori” si rivelano estremamente utili nei casi in cui le 
sostanze inquinanti sono presenti in dosi molto basse, poiché le concentrano nei 
loro tessuti senza subire conseguenze letali e rendendole disponibili per l’analisi 
chimica. 
Concludendo, le tecniche di biomonitoraggio non devono essere considerate come 
“alternative” al monitoraggio strumentale, ma come “complementari” ad esso. 
15
Per una completa “diagnosi” sull’ecosistema studiato, è consigliabile adottare, 
unitamente all’uso tradizionale delle analisi chimiche che forniscono un’alta 
precisione analitica, quello degli indicatori biologici che forniscono un’alta 
capacità di sintesi.  
I licheni 
I licheni sono consorzi mutualistici o associazioni simbiotiche costituite 
dall’intima unione di ife fungine con alghe. Le alghe appartengono di norma alle 
alghe verdi e alle alghe azzurre e si ritrovano in natura anche come forme libere. I 
funghi invece appartengono per lo più agli ascomiceti e più raramente ai 
basidiomiceti ma, al contrario delle alghe, non possono condurre vita 
indipendente. Insieme costituiscono un tessuto vegetativo chiamato tallo, 
completamente diverso da quello dei due organismi che lo compongono: lo 
dimostra il fatto che i due organismi uniti in simbiosi possono vivere in ambienti 
particolarmente inospitali (aride regioni desertiche o regioni polari) dove 
isolatamente nessuno dei due potrebbe resistere (Spampani, 1982). 
I licheni sono stati forse i primi bioindicatori ad essere studiati. Le prime 
pubblicazioni al riguardo risalgono a circa la metà del secolo scorso. Alcuni 
ricercatori, Grindon nel Lancashire, in Inghilterra, nel 1859 e Nylander a Parigi 
nel 1866, osservarono una diminuzione della frequenza dei licheni nei grandi 
centri urbani e in aree fortemente industrializzate (Nimis e Castello, 1990). A 
riprova dell’importanza di questi organismi per lo studio della qualità dell’aria, al 
primo Congresso europeo sull’influenza dell’inquinamento atmosferico sulla 
salute delle piante e degli animali, tenutosi a Wageningen nel 1968, venne 
adottata la seguente risoluzione: «Le crittogame epifite dovrebbero essere 
particolarmente raccomandate per un loro uso generale come indicatori biologici