1 
 
Introduzione 
 
 
Il 28 ottobre 1922 circa cinquantamila camicie nere entrarono 
prepotentemente nella capitale per forzare il sovrano ad affidare il nuovo 
governo a Mussolini. La Marcia su Roma proseguì senza incontrare resistenza 
da parte delle forze dell’ordine o dell’esercito, per volere del re Vittorio 
Emanuele III, il quale rifiutò di firmare il decreto di stato d’assedio per 
difendere la città, spianando quindi la strada all’avvento del fascismo. 
L’intervento dell’esercito e di pochi carabinieri sarebbe stato sufficiente a 
fare sì che l’irruzione delle squadre fasciste potesse essere facilmente 
stroncata. Ciò che mancava quindi non erano i mezzi, ma la volontà. 
L’atteggiamento del sovrano, che non ordinò di intervenire, mirò ad impedire 
un ulteriore bagno di sangue che avrebbe indotto il paese ad un’altra guerra 
civile. Il sovrano si piegò così, di fronte alla minaccia dei fascisti, e Mussolini 
venne nominato presidente del consiglio, prendendo legalmente un potere che 
avrebbe mantenuto dispoticamente fino al 1943
1
. 
Ma in che modo Mussolini è riuscito a garantirsi per vent’anni un vasto 
consenso popolare? Può una sanguinosa dittatura mostrarsi come un 
complesso Stato corporativo, nel quale il governo è paternamente vicino alla 
popolazione, o come una nuova religione laica che riempie d’orgoglio 
nazionalista e unitario un intero paese? Quanto e come hanno inciso i mezzi di 
comunicazione di massa nella percezione che il popolo ha avuto del proprio 
sistema politico? Molti sono stati gli interrogativi che mi hanno entusiasmato 
nell’intraprendere questa tesi sul consenso e sulla rappresentazione del regime 
fascista in Italia. 
Appena giunto al potere, conscio d’averlo conquistato grazie ad una mossa 
                                                 
1  Sulla storia del fascismo, cfr. S. Lupo, Il fascismo: la poltica in un regime totalitario, 
Roma, 2000; O. Malagodi, F. Cammarano (a cura di), Il regime liberale e l’avvento del 
fascismo, Catanzaro, 2005; M. Palla, Mussolini e il fascismo, Firenze, 1993; e A. Petacco, 
Storia del fascismo, Roma, 1981.
2 
 
azzardata, Mussolini si preoccupò innanzitutto di consolidare la sua posizione: 
tranquillizzò chi vedeva in lui un avventuriero, dando di sé un immagine 
moderata e ragionevole, rassicurando soprattutto la borghesia. Presentò poi il 
fascismo come un regime di tipo conservatore, in grado di risanare il paese 
dalla piaga del trasformismo e di metterlo al riparo da sconvolgimenti 
rivoluzionari. Il suo primo governo fu quindi un governo di coalizione, ma 
continuò ad oscillare abilmente tra legalità ed illegalità, utilizzando 
ripetutamente la violenza squadrista come arma di pressione politica. 
Lo squadrismo, in realtà, fu l’essenza stessa del fascismo, e la violenza 
restò sempre un elemento fondamentale della propaganda attuata da 
Mussolini, nonché un ingrediente indispensabile alla conquista e al 
consolidamento del suo potere. Egli creò in seguito il Gran Consiglio del 
Fascismo, che avrebbe progressivamente esautorato il parlamento, e legalizzò 
le squadre d’azione trasformandole in milizia personale. Per garantirsi 
l’appoggio delle forze conservatrici del paese decise l’ingresso dei nazionalisti 
nel partito fascista. Riformando poi la legge elettorale con la «legge Acerbo», 
assegnò i due terzi dei seggi al partito di maggioranza relativa, blindando 
ulteriormente il suo potere.  
Molte furono le accuse e le proteste che Mussolini dovette subire nell’aver 
intrapreso tali misure, e fu proprio nei giorni immediatamente successivi 
all’assassinio di Giacomo Matteotti che il fascismo vide vacillare fortemente il 
consenso ottenuto affrontando una grave crisi. Nel giugno del 1924 il deputato 
socialista osò infatti denunciare apertamente il clima di intimidazioni e brogli 
in cui si era svolta la consultazione elettorale dell’aprile precedente. 
Finalmente i partiti di opposizione reagirono in modo deciso e per protesta 
lasciarono il parlamento. Per frenare il moto di rivolta contro il fascismo 
Mussolini ricorse ad un ulteriore atto di forza: nel famoso discorso alla 
Camera del 3 gennaio 1925, egli ammise pubblicamente la piena e totale 
responsabilità politica e morale del delitto, e annunciò l’avvio della dittatura 
fascista, con la creazione delle cosiddette «leggi fascistissime».
3 
 
Questa prima fase della politica mussoliniana quindi, fu principalmente 
caratterizzata da una mise en scène della violenza, atta a reprimere qualsiasi 
indizio di ribellione. Fu questa campagna a costituire la prima forma di 
propaganda messa in atto dal regime per assicurarsi il consenso delle masse. 
Ad esse ricorse anche in altre due fasi durante il ventennio: in quella che va 
dalla preparazione dell’intervento militare in Africa orientale allo scoppio 
della Seconda Guerra Mondiale, e in quella della guerra stessa. Il tema della 
violenza fu quindi, costantemente presente nella propaganda fascista. Un ruolo 
fondamentale fu dapprima riservato al «culto dei caduti», con la 
monumentalità e la sacralizzazione dei luoghi della guerra. Ma fu con 
l’organizzazione della memoria dello squadrismo e della Marcia su Roma che 
l’esaltazione della violenza e la sua narrazione divennero una pratica 
permanente, specie nel momento in cui il sistema propagandistico fascista 
risultò essere in forte crescita
2
. 
Una volta consolidato il proprio potere, obiettivo di Mussolini fu quello di 
far «durare» il più a lungo possibile il regime fascista e naturalmente la sua 
leadership al suo interno. Per riuscire nell’intento egli capì che non poteva 
certo continuare a servirsi soltanto della forza e delle minacce, perché non 
sarebbe stato accettato da milioni di persone, e il consenso di un’ampia parte 
della popolazione era ritenuto necessario.  
Così decise di affidarsi ad un tipo di propaganda moderna, molto più 
sofisticata ed imponente, in cui si potenziano i meccanismi della persuasione 
per ottenere il consenso funzionale al dominio totalitario sulle masse. In che 
modo? Promettendo, in situazioni storiche ed economiche estremamente 
critiche, il miracolo della soluzione rapida di ogni problema, soffocando ogni 
libera forma di cultura, e monopolizzando i mass media per addormentare la 
coscienza critica dei cittadini.  
                                                 
2  Sul tema della violenza all’interno dell’ideologia fascista, cfr. E. Gentile, Il culto del 
littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma-Bari, 2005; e P.G. 
Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, 
Bologna, 1985.
4 
 
Nella mia tesi mi sono soffermata proprio su questa seconda forma di 
propaganda, definita di «integrazione» dal sociologo francese Jacques Ellul. In 
particolar modo ho tentato di illustrare il procedimento attraverso cui il regime 
fascista cercò di modificare un popolo nel suo insieme, di ottenere dei 
comportamenti di massa e non più di raggiungere solo alcuni individui 
particolarmente influenti. Mussolini era infatti perfettamente consapevole di 
dipendere dall’opinione pubblica e conosceva meglio di chiunque altro come 
ottenere i risultati che desiderava.  
Il percorso tracciato dal mio lavoro parte quindi dalla definizione del 
concetto di propaganda, inserito nel quadro storico di riferimento, e in 
rapporto all’uso che il regime ne fece nel mondo della cultura e 
dell’istruzione. In seguito ho tentato di analizzare come, accanto all’apparato 
repressivo tipico dei regimi dittatoriali, per tutto il ventennio si vennero 
sviluppando e perfezionando tecniche moderne di organizzazione, 
comunicazione e informazione che assicurarono al fascismo una presa sempre 
più forte sulla società fino a racchiuderla entro un sistema monolitico, 
pressoché impermeabile alle influenze esterne. 
Queste nuove tecniche furono particolarmente evidenti nei mezzi di 
comunicazione di massa, che durante la dittatura fascista vennero potenziati e 
modernizzati al massimo, in modo da garantire un vasto consenso popolare, 
intorno soprattutto alla figura carismatica del duce Mussolini che ricoprì 
costantemente un ruolo di primo piano, sia come artefice, sia come immagine 
stessa di propaganda. La sua abilità fu quella di scoprire prima di altri il forte 
potere persuasivo che i mezzi di comunicazione di massa come la radio, il 
cinema e i giornali, potevano avere sulle persone. Al contempo cercò di 
utilizzare la comunicazione di massa per creare una serie di manifestazioni 
collettive, cosicché il popolo potesse partecipare attivamente, e possibilmente 
con entusiasmo, condividendo la diffusione di quei miti, riti e simboli che 
caratterizzavano l’ideologia fascista. 
In questa visione della politica di massa il «mito» aveva infatti un ruolo di
5 
 
primaria importanza, costituendo l’idea cardine della cultura fascista, 
immagine e simbolo capace di suscitare nelle masse emozioni, entusiasmo, 
volontà di agire e perché no, una fede collettiva
3
. 
 Nella mia tesi ho tentato di illustrare in particolar modo l’assidua presenza 
del mito dell’«uomo nuovo», della «nuova Italia» e soprattutto del mito 
venutosi a creare intorno alla personalità di Mussolini. 
Attraverso l’analisi di diverse fonti ho tentato quindi di proporre un’ampia 
panoramica sulle caratteristiche tecniche ed ideologiche dell’ambiziosa e 
multiforme macchina propagandistica del fascismo, il cui compito era sì 
quello di «fabbricare il consenso», ma anche quello di creare l’illusione che 
essa ci fosse, quando ciò non era possibile. Tale panoramica ha lo scopo di far 
comprendere come tutte le scelte politiche e le azioni del regime avessero una 
qualche valenza retorica, usando temi e miti di sicuro effetto, nel creare un 
clima generale in cui il maggior numero possibile di italiani potesse 
agevolmente identificarsi e integrarsi con il fascismo. E ciò sollecitando la 
fierezza per la grandezza e la gloria della propria patria e il rinnovamento di 
una forte identità nazionale, avvalendosi non solo dei mass media, ma anche 
dell’istruzione scolastica, delle manifestazioni di massa, della graduale 
«fascistizzazione» della vita pubblica, dell’attività sportiva, della realizzazione 
di monumenti e persino della fondazione di nuove città. E proprio questi sono 
gli argomenti che ho preso in esame nel mio lavoro. 
 
                                                 
3   Sulla questione del simbolismo politico, cfr. D.I. Kertzer, Riti e simboli del potere, Roma-
Bari, 1989.
1 
 
CAPITOLO 1. 
Propaganda, istruzione e cultura: i primi passi nella 
“fabbrica del consenso”
1
. 
 
 
 
1.1 Il concetto di propaganda e la sua accezione nella 
politica fascista. 
 
 
Esistono numerose definizioni di propaganda date da studiosi di diversa 
formazione ideologica e culturale, e risalenti per lo più al XX secolo, periodo 
in cui questa attività ebbe un enorme sviluppo grazie all’insorgere di 
determinati fattori politici e sociali, quali per esempio il forte aumento della 
concentrazione della popolazione nelle città e la comparsa di efficaci mezzi di 
comunicazione. 
Ma che cos’è la propaganda? Il sociologo francese Jacques Ellul nel 
tentativo di darne una giusta definizione ha affermato: 
La prima difficoltà che si incontra quando si parla di propaganda è il 
doverne dare una definizione. Questa difficoltà diventa ancora più grande 
quando si tenta di tracciarne la storia, in quanto non è neppure possibile 
servirsi a tal fine della definizione ottenuta attraverso l’osservazione della 
propaganda quale oggi si presenta. La propaganda attuale, infatti, ha 
caratteristiche che non trovano riscontro nel passato: o si è quindi 
obbligati a scegliere una definizione molto vaga, che non corrisponde 
appieno alla realtà contemporanea, oppure, se si parte da questa, si è 
costretti a concludere che, a rigore, non c’è mai stata propaganda nel 
passato
2
.  
La propaganda può essere definita una forma di comunicazione volta ad 
influenzare l’opinione pubblica e ad “imprimere negli individui valori, 
credenze e codici di comportamento atti a integrarli nelle strutture istituzionali 
della società di cui fanno parte”
3
.  
                                                 
1  Termine coniato dallo psicologo Edward Bernays, nipote di Sigmund Freud, che agli inizi 
del XX secolo, insieme al giornalista Walter Lippman, fu il primo a codificare ed 
applicare in maniera scientifica le tecniche della propaganda; cit., www.wikipedia.it. 
2  J. Ellul, Storia della propaganda, Napoli, 1983, p. 7.  
3  P. Castagnetti, Il presente come storia, Milano, 1998, p. 32.
2 
 
Nonostante l’attività propagandistica originariamente non avesse alcuno 
scopo mistificatorio, ad essa in seguito venne associato sempre più il concetto 
di persuasione e di manipolazione, nel ricercare il consenso degli incerti o dei 
contrari e nel confermare l’adesione di quelli già convinti. In tal modo, 
sostiene Ellul, essa mira a far partecipare attivamente o passivamente alla sua 
azione una massa di individui psicologicamente unificati attraverso 
manipolazioni psicologiche, ed inquadrati in un’organizzazione
4
.  
Essa rappresentò anche, e rappresenta tuttora, uno degli strumenti più 
efficaci di lotta e di affermazione politica, quale divenne in modo permanente, 
a partire dalla Rivoluzione d’ottobre
5
, e i regimi totalitari vi fecero ampio 
ricorso: il nazismo in Germania e il fascismo in Italia istituirono appositi 
apparati, e persino veri e propri ministeri atti a svolgere questa funzione.  
Il fascismo fu forse il primo ad utilizzare la moderna «arma» della 
propaganda. Mass media, manifesti, cinematografia: tutto rivolto a 
magnificare l’operato del regime e la figura del duce.  
Mussolini mise in atto un’intensa e straordinaria opera d’organizzazione del 
consenso, tentando di orientare e irreggimentare i modi di pensare, la 
mentalità, la vita pubblica e le stesse abitudini quotidiane degli italiani.  
Fu realizzato in primo luogo un pieno controllo dell’informazione e dei 
mezzi di comunicazione di massa. Vietata la stampa antifascista, anche i 
grandi quotidiani di informazione, come il «Corriere della Sera» e «La 
Stampa», ebbero proprietà e direttori favorevoli al regime, o almeno non ostili 
ad esso. Venne fondato un ente radiofonico, l’EIAR, che gestiva e controllava 
le trasmissioni di questo nuovo potentissimo mezzo di comunicazione: dal 
1933 i discorsi di Mussolini alla radio vennero trasmessi con altoparlanti sulle 
piazze; l’Istituto LUCE, alle dirette dipendenze del capo del governo, produsse 
i famosi cinegiornali che ogni gestore di sala cinematografica, a partire dal 
1926, ebbe l’obbligo di proiettare; attraverso il Ministero della cultura 
                                                 
4  Ellul, Storia della propaganda, cit., pp. 94-95.  
5  Ibid., p. 126.
3 
 
popolare infine, si posero sotto controllo tutti gli aspetti della vita culturale che 
interessavano grandi masse di persone. 
Ellul distinse due diverse forme della propaganda fascista che vennero usate 
a seconda degli obbiettivi e delle esigenze imposte dalla politica mussoliniana: 
la «propaganda di agitazione» e la «propaganda di integrazione»
6
. 
Inizialmente il regime si servì di una propaganda di agitazione che, 
attraverso l’uso della violenza e di metodi sovversivi, mirava a raggiungere gli 
obiettivi in modo rapido e strategico servendosi di strumenti relativamente 
semplici, come manifesti, opuscoli e comizi. Questa prima forma faceva 
riferimento al periodo compreso tra il 1919 e il 1922, per la lotta al potere 
avviata da Mussolini; a quello cruciale tra il 1924 e il 1926, per affrontare la 
crisi dovuta all’assassinio Matteotti; e ripresa infine, nel 1935-36 e durante la 
Seconda Guerra Mondiale, per esigenze di politica estera. Nonostante, col 
passare degli anni, la propaganda di agitazione potesse contare su di un 
apposito organismo, essa non ebbe mai a disposizione un raffinato e moderno 
apparato propagandistico, che fece la sua comparsa soltanto dopo il 
consolidamento del potere mussoliniano e disposta a partire dal 1926. E fu 
proprio a partire da questa data che Ellul fece riferimento alla propaganda di 
integrazione, che si evolse lentamente in un periodo relativamente lungo, fino 
al 1939. Essa mirava ad ottenere la costante e totale adesione della 
maggioranza della popolazione, agendo indirettamente, attraverso il clima e 
l’atmosfera dominanti nel paese e la diffusione di particolari verità sociali, che 
puntassero ad influenzare abitudini, costumi e modelli di comportamento
7
. 
Caratteristica rimarchevole di questa forma di propaganda fu poi la sua 
continuità: il regime fascista si rese conto infatti che un’attività 
propagandistica poteva ottenere determinati effetti solo se fosse stata di lunga 
durata e, per quanto possibile, ininterrotta.  
                                                 
6  J. Ellul, Propaganda: The Formation of Men’s Attitudes, New York, 1973, cit. in P.V. 
Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Roma-Bari, 1975, pp. 70-
71. 
7 Ibid., pp. 70-72.
4 
 
Data la sua sottigliezza e il fatto che molti degli scopi e dei temi su cui essa 
si imperniava corrispondevano in realtà a sentimenti nazionalistici già 
largamente diffusi tra gli italiani, fu questa seconda forma di propaganda a 
riscontrare maggior successo. 
 
 
 
1.2 Le origini della propaganda di integrazione.  
 
 
Nel 1923 Mussolini emanò un decreto con cui l’Ufficio stampa veniva 
posto  alle dirette dipendenze del presidente del Consiglio, e sotto la direzione 
di Cesare Rossi, fu rapidamente trasformato da semplice agenzia incaricata dei 
comunicati ufficiali in importante arma politica contro l’opinione antifascista, 
specie durante la crisi Matteotti, con compiti di vaglio della stampa italiana e 
straniera, ai fini della politica mussoliniana di «normalizzazione»
8
. 
Dopo il 1926 poi, Mussolini procedette rapidamente a riorganizzarne la 
struttura e ad ampliare il raggio della sua attività, allo scopo di soddisfare le 
nuove esigenze della propaganda di integrazione. 
Dopo Rossi, la direzione venne affidata a Giovanni Capasso Torre che ne 
elaborò le prime semplici linee organizzative, e che venne chiamato anche a 
dirigere, secondo il volere di Mussolini, anche l’Ufficio stampa del Ministero 
degli Esteri, cosicché i due organismi un tempo separati, divennero sezioni 
specializzate dell’unico Ufficio stampa del Campo del Governo
9
.  
Ma di rado le scelte risalivano autonomamente a Capasso Torre; egli infatti 
si limitava per lo più a trasmettere ordini ai suoi subordinati e a vigilarne 
l’esecuzione, secondo precise direttive imposte da Mussolini. L’occhio vigile 
del duce incombeva sempre su ogni cosa. 
Alla fine degli anni Venti però, il grosso delle attività svolte dall’Ufficio 
riguardavano le tecniche generali utili alla propaganda tramite i giornali, i 
                                                 
8 Ibid., p. 76. 
9 Petacco, Storia del fascismo, cit., vol. 4, p. 390.
5 
 
quali venivano sottoposti ad un sistematico lavoro di «revisione», e influenzati  
a seguire una linea appropriata attraverso sussidi finanziari. Soltanto all’inizio 
degli anni Trenta venne creata una sezione autonoma che si occupava di 
attività propriamente propagandistiche
10
. 
Nel 1928, con la nomina di Lando Ferretti all’Ufficio stampa, i temi della 
propaganda ufficiale furono fatti oggetto di un’elaborazione più complessa, e 
nel 1931 egli propose a Mussolini la costituzione di una “Sezione propaganda” 
incaricata di raccogliere, elaborare, rivedere e diffondere scritti e 
pubblicazioni inerenti «la romanità, l’italianità e il regime». Un’iniziativa che 
fu ispirata probabilmente dai preparativi per le celebrazioni del Decennale, ma 
che fu adottata in pieno solo alla fine del 1933. 
Negli anni Venti l’Ufficio stampa fu comunque “il più importante 
strumento singolo per l’elaborazione e la diffusione della propaganda 
all’interno del paese”
11
, in cui potevano essere individuati due temi di carattere 
generale, di fondamentale importanza nel senso più vasto della propaganda di 
integrazione. 
Uno era il «mito del duce» che comportava, da un lato, un preciso sforzo 
nel conferire alla figura di Mussolini qualità che lo distinguessero dai comuni 
mortali, collocandolo al di sopra di essi, cosicché venisse ad assumere 
connotati irreali se non sacri; e dall’altro, la costruzione di un’immagine 
popolare del duce tra le masse, con la quale operai e contadini potessero 
identificarsi, mostrandolo quasi nel ruolo di padre dell’intera nazione. Un altro 
mascheramento dell’immagine pubblica di Mussolini era quello del duce come 
simbolo di vigore e forza giovanili, di virilità, noncurante del pericolo fisico e 
capace di affrontare le prove con risolutezza ed entusiasmo. Mentre da un 
punto di vista politico, la posizione di Mussolini al governo doveva essere 
assai più che quella di un semplice presidente del Consiglio, e la sua autorità 
                                                 
10 V. De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, Roma-Bari, 1981, p. 9. 
11 Cannistraro, La fabbrica del consenso, cit., p. 79.
6 
 
doveva essere assoluta
12
. 
Più vasto e complesso fu l’altro tema cui l’Ufficio stampa dedicò gran parte 
della sua attività: l’idea della «nuova Italia». Fu per questa via che Mussolini 
tentò di creare l’apparenza di un assetto sociale ideale, in cui gli italiani si 
sarebbero progressivamente adattati al fascismo, identificando il regime con la 
restaurazione di un’Italia stabile, ben ordinata e vigorosa, avviata verso una 
piena ripresa. Solo creando un tale clima il mito del duce poteva trovare una 
base solida, e così come nel caso della figura di Mussolini, era qui 
nuovamente necessario per il regime presentare al contempo due immagini 
differenti ma connesse, riconciliando la nuova e modera Italia dell’«era 
fascista» con valori di tipo più tradizionale e consueto. 
Con il pieno utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa, e la conclusiva 
trasformazione dell’Ufficio stampa nel Ministero della Cultura popolare, un 
numero sempre maggiore di italiani poteva essere raggiunto dall’illustrazione 
dei temi e degli atteggiamenti ufficiali, e la politica fascista di integrazione 
cominciò ad inserirsi più a fondo, e in modo più sottile, nella vita del paese
13
. 
 
 
 
1.3 La «rivoluzione culturale» imposta da Mussolini. 
 
 
Alla data del 1922 il governo nazionale non disponeva ancora di alcuna 
istituzione culturale propria, ad eccezione ovviamente delle scuole e delle 
università, e non esisteva neppure una politica culturale fascista delineata da 
Mussolini, che aveva come principale obiettivo quello di ricercare le occasioni 
favorevoli per consolidare il suo controllo, garantendo così la propria 
sopravvivenza politica. 
La decisione di intervenire in modo concreto sui problemi sollevati dai 
diversi movimenti culturali che animavano il paese, venne presa soltanto in 
                                                 
12 Zunino, L’ideologia del fascismo, cit., pp. 203-204. 
13 De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, cit., p. 15.
7 
 
seguito  alla profonda crisi politica che scosse l’Italia dopo l’assassinio 
Matteotti nel giugno 1924 e dopo l’annuncio della dittatura. 
Al seguito della vicenda l’opposizione antifascista si fece più rumorosa e 
vide schierata la maggioranza dell’intelligentia italiana, guidati da uomini 
come Benedetto Croce e Gaetano Salvemini. Una prima misura efficace per 
controllare ed eliminare questo dissenso nel mondo della cultura avvenne in 
occasione del Congresso degli intellettuali fascisti, tenutosi a Bologna tra il 29 
e il 31 marzo 1925, durante il quale il presidente Giovanni Gentile proclamò 
l’alleanza tra cultura e fascismo, e poco dopo venne pubblicato il cosiddetto 
Manifesto degli intellettuali fascisti, come prova concreta che la rivoluzione 
fascista mirava all’integrazione di cultura e politica
14
.  
Gli intellettuali antifascisti reagirono duramente e nell’aprile dello stesso 
anno Croce pubblicò un contromanifesto
15
 in cui difese vivacemente i principi 
del liberalismo  e la sua convinzione filosofica della purezza dell’arte e 
dell’autonomia della cultura, assolutamente incompatibili con il fascismo e 
con l’intenzione di Mussolini di sottoporre la cultura ad un saldo controllo. 
Come risposta diretta alla sfida dell’opposizione, nel giugno del 1925 venne 
creato l’Istituto nazionale fascista di cultura che, presieduto da Gentile, mirava 
alla formazione di una coscienza politica nazionale, alla creazione 
dell’«italiano nuovo» e all’integrazione di tutti i gruppi sociali. Inoltre nel 
1926 Mussolini, copiando l’iniziativa di Napoleone, decise di dar vita ad 
un’Accademia d’Italia che avesse il compito di coordinare e dirigere la cultura 
italiana, identificandola al tempo stesso con il regime, ed estenderne 
l’influenza anche al di fuori dei confini del paese
16
. Diversamente da quelle 
già esistenti, oltre alle due categorie  delle scienze fisiche e morali, la nuova 
Accademia includeva le lettere e le arti, e in occasione dell’inaugurazione 
avvenuta nel 1929, venne sistematicamente presentata dalla propaganda 
                                                 
14 Petacco, Storia del fascismo, cit., vol. 4, p. 394. 
15 Dal titolo Una risposta di scrittori, professori e pubblicisti italiani al manifesto degli 
intellettuali fascisti, Ibid., cit., vol. 4, p. 395. 
16 D. Mack Smith, Mussolini, Milano, 1981, pp. 54-55.