dell’ordinamento giudiziario la procedura del regno venne ad attuare obiettivi di giustizia e non più 
di sicurezza. La differente applicazione di questi due fattori non sanerà la situazione che si celava 
sotto la facciata positiva di quest’epoca e la riforma religiosa farà esplodere le contraddizioni delle 
innovazioni. “...Si sviluppa così, in mezzo all’inestricabile complesso delle consuetudini medievali, 
l’ordinamento razionale della monarchia [...] Ha così origine il diritto moderno...”
1
.  
Fautore di un diritto nazionale che si svincolasse dall’eredità romana e portasse a 
compimento quell’unificazione del paese intrapresa, Francesco I gettò le basi per le successive 
riforme degli altri componenti della famiglia reale, i Valois, che imprimeranno, nel bene e nel male, 
la loro impronta sul secolo, trasformando la Francia nel più moderno stato nazional - monarchico 
che si affaccerà al secolo nuovo, il Seicento. Nel 1580 sarà infatti terminata l’impresa e a Parigi sarà 
pubblicata la legislazione riveduta ed uniformata per tutta la nazione. Parallelamente anche il fattore 
amministrativo viene incluso nella riorganizzazione generale dello stato, nella parte del governo. 
Commissari regi ed altri funzionari del potere centrale sostituiscono i vecchi principi, le città 
persero il loro particolare diritto urbano e vennero affidate ad intendenti, le campagne, in cui era 
stata sradicata la struttura sociale signorile, divennero parrocchie, embrioni dei moderni comuni. Il 
crollo della vecchia struttura feudale fu totale, ed un sistema organico con all’apice la monarchia 
venne sostituendosi. Tutte le vecchie funzioni nobiliari passano in esclusiva al re che le fa esercitare 
da solerti funzionari, retribuiti, antesignani dei burocrati contemporanei.  
Soprattutto l’amministrazione del fisco e della tassazione fu terreno di scontro tra i fautori 
del nuovo assetto accentrato e le vecchie classi  esautorate del diritto di imporre tributi sui loro 
sottoposti. “...Alla costrizione sociale [...] si sostituiva l’obbligo fiscale...”
2
: le costose basi della 
monarchia centralizzata furono gettate con l’imposizione fiscale accentrata ed unificata. Certamente 
vi erano delle sperequazioni notevoli, ma l’autorità del re e del ministero delle finanze crebbe con 
l’aumentare delle entrate. Sicuramente la corte di Parigi pesava sui conti pubblici, il suo fasto ed il 
suo prestigio circondavano un re amante delle belle lettere e delle belle donne, che emancipò e 
ammise a partecipare attivamente alla vita culturale e sociale del paese, in cui si distinsero per 
originalità ed influenza intellettuale grazie alla figura di Luisa di Savoia, madre del monarca e fine 
letterata.  
Comunque sia, il regno di Francesco fu un dono storico notevole, significò progresso e 
rinnovamento delle istituzioni un po’ antiquate della Francia tardo - medievale. Il governo sotto di 
lui diventò una vasta organizzazione diretta da veri e propri ministri poi riuniti in un vero consiglio 
decisionale, uomini nuovi, della nuova nobiltà di origine borghese, vennero a spartirsi i posti prima 
riservati ai vecchi gentiluomini di spada, ormai esclusi con tutto il loro mondo dal nuovo sistema, 
grazie all’introduzione della vendita delle cariche. Fu riorganizzato l’esercito, istituito un servizio 
militare che non era più un privilegio delle casate più potenti del paese ma divenne un diritto regio, 
costituendo in pectore un esercito nazionale permanente che affiancasse i numerosi, e gravosi per le 
casse dell’erario, mercenari ingaggiati temporaneamente. Neutralizzò gli Stati Generali ed il 
Parlamento di Parigi, vinse l’indipendenza della Chiesa, il suo potere perse ogni forma di controllo 
e si avviò a realizzare quella forma di monarchia assoluta che non era ancora stata teorizzata in una 
forma così personalistica e monocratica. Ma fu anche la rovina fiscale dello stato francese: libero da 
qualsiasi forma di freno alla sua volontà (gli Stati Generali non verranno convocati che da Caterina 
dè Medici nel 1560, dopo 76 anni di silenzio), egli si diede ad una vita di leggerezza artistica e la 
Corte assunse un peso determinante nelle spese della nazione, cui si tentò di rimediare con imposte 
sempre crescenti e molti abusi sulla popolazione.  
Principe moderno, il suo periodo di regno sarà anche ricordato per l’arrivo in Francia delle 
idee della Riforma. Inizialmente l’effervescenza delle nuove teorie riguarda la diffusione di piccoli 
focolai di luteranesimo, prima del 1520. La Sorbona capì subito il pericolo e già nel 1521 le idee del 
predicatore tedesco vengono condannate. Ma da quel momento in poi la divulgazione del pensiero 
riformato subirà un’accelerazione notevole. E’ nel periodo tra il 1525 ed il 1540 che il contagio 
luterano, come lo chiama Lecler
3
, si estende rapidamente. La propagazione del verbo del predicatore 
di Ginevra inizia nelle città ma ben presto colpisce anche le zone rurali, “...benchè il movimento si 
diffonda soprattutto tra le classi popolari, esso raramente è associato ad un sommovimento di ordine 
sociale...”
4
. Francesco I vede in casa propria, a Parigi, il focolaio principale dell’espansione, in 
quegli ambienti riformistici cattolici in cui maggiore è la presa delle idee luterane, luoghi colti che 
egli stesso, fine umanista, aveva contribuito a porre sulla strada del dubbio e della critica. Dopo il 
1533 i successi che la Riforma miete non le permettono di stabilirsi con forti radici nel paese, per 
mancanza di capi di rilievo e per quel sospetto sentore di teoria d’importazione germanica che ne 
faceva ancora un corpo estraneo. Ci volle Calvino per imporla al paese, con la teorizzazione del 
sistema teologico che egli diede nella sua opera Institution Chretienne, pubblicata nel 1541. Da 
quell’anno, il riformatore francese dirigerà con intelligenza ed energia l’infiltrazione delle sue idee 
dalla città - chiesa di Ginevra.   
Sotto Francesco I tuttavia, il filone francese della Riforma rimase ancora male organizzato, 
continuò a diffondersi nonostante la repressione condotta dal re ma perdurò uno stato di 
individualismo ed anarchia al suo interno. Merito del sovrano fu quello di non consentire nessuna 
contestazione all’assioma tradizionale dell’unità religiosa, esemplificato dal motto “une foy, une loi, 
une roy”. Questa regola fu formalmente rispettata ma la scissione religiosa covava sul terreno 
pratico e l’accordo in questo campo cessava di essere dato per scontato. Come tutte le grandi e 
profonde contrapposizioni, ogni parte dal principi si mantenne ancorata saldamente alle proprie 
posizioni: i cattolici intransigenti, “...gelosamente fedeli alle tradizioni medioevali...”
5
, rigettavano 
come eretiche le nuove dottrine; all’opposto, i riformati non cedettero di un passo. In mezzo, punto 
mediano di una tripartizione che diverrà consueta nella storia politico - religiosa del sedicesimo 
secolo in Francia, le scuole umaniste, divise nel metodo ma portatrici di un unico ideale, quello di 
“...ravvicinare tra loro gli uomini, mantenerli nel cristianesimo tradizionale per mezzo della carità 
piuttosto che con la violenza...”
6
. La prima ondata di repressione, quella che aveva visto nel 1523 
alzare il primo patibolo, si acutizza nel terribile 1525, quando il re è fatto prigioniero a Pavia degli 
Spagnoli e le autorità più conservatrici, il Parlamento parigino e la Sorbona, sfogarono la loro rabbia 
contro gli eretici. Col ritorno in patria di Francesco, i toni si smorzarono e la mediazione di 
Margherita di Navarra, sorella del principe, allineata sulle posizioni dell’umanesimo più mistico ed 
affettivo, contribuì a rasserenare gli animi. Il sovrano era quasi sicuramente contrario allo zelo 
persecutorio degli oltranzisti cattolici, data la sua personalità colta ed attenta agli scopi di un 
accentramento politico che significava tuttavia dovere mantenere a tutti i costi l’unità di fede. 
Convinto della giustezza dell’eradicamento degli eccessi anabattisti, che si erano mostrati così 
dannosi in Germania, liberò il furore dei tribunali religiosi anche contro il luteranesimo a partire dal 
1527. Allo stesso tempo protesse il partito riformista che viveva all’interno della sua corte ed il cui 
peso, sotto la spinta di un illustre giurista come Budè, si accrebbe.  
Essi non predicavano l’abbandono del riconoscimento dell’autorità confessionale della 
Chiesa, preferivano solo arrivare ad una repentina riunificazione delle posizioni delle due fedi prima 
che avvenisse il Grande Scisma, la Grande Rottura; “...fautore dell’unità cristiana, il partito 
intendeva difenderla come Erasmo, non con la forza e con i supplizi, ma per le vie della dolcezza e 
della conciliazione...”
7
: mi pare di poter notare come lungo tutto il secolo esiste sempre una 
corrente, più o meno forte, di fautori del giusto mezzo, personaggi forse più illuminati sulla via da 
seguire per risolvere i gravi problemi di coscienza che attanagliano la Francia durante l’intero 
cinquecento. L’effetto che ebbe sul re e nel paese fu quello di annientare la veneranda università 
della Sorbona dopo il 1534, riportando la vittoria sull’intransigenza conservatrice. Ma il fallimento 
delle trattative coi principi tedeschi e l’affare dei Placards, i manifesti blasfemi redatti da Antoine 
Marcourt, un protestante estremista, che tappezzarono di invettive contro la Chiesa romana le 
principali città del paese, scatenarono l’indignazione del sovrano e della parte cattolica. La 
persecuzione divampò per mesi nella nazione e solo dopo estenuanti trattative Francesco tornò a più 
miti consigli, suggellati dall’editto di Coucy che interrompeva la repressione ed apriva di nuovo la 
strada al tentativo di conciliazione. Gli sforzi del partito umanista furono vani: Francesco I 
“...vedeva nei riformisti soprattutto dei buoni ausiliari della sua politica anti - imperiale...”
8
 ma non 
concepì il loro obiettivo più spirituale, quello di evitare la rottura della Cristianità su posizioni 
definitive. Senza il suo aiuto, ciò avvenne dopo il concilio ecumenico riunito dal Papa Paolo III, un 
pontefice desideroso di riformare la Chiesa, che aveva assunto al cardinalato grandi umanisti come 
Pietro Bembo per indirizzare al rinnovamento morale e disciplinare l’intero edificio ecclesiastico: in 
esso la Chiesa vedrà accolte le istanze di purificazione interna ma non il ritorno immediato all’unità 
di fede coi protestanti. Nel frattempo il clima di sfiducia che aleggiava sugli esiti del concilio e le 
necessità politiche sul piano estero spinsero il Valois ad allearsi con Carlo V, l’ex - nemico, nel 
tentativo di sradicare dai rispettivi regni il pericolo protestante: “...da allora il partito della 
repressione, capeggiato dal connestabile di Montmorency ebbe il sopravvento su quello degli 
umanisti...”
9
.  
Dopo il 1540, con l’apparizione dell’opera di Calvino, la conciliazione nel paese risultò 
pressocchè impossibile. La dottrina calvinista si impose nel paese per il suo carattere innovativo e 
non retrogrado come quello luterano: essa predicava la preponderanza della Chiesa riformata sullo 
stato, contro la sua sottomissione nella versione luterana, un rapporto diretto dell’uomo con Dio, 
senza intermediari, una religione della fede pura, non affidata ad immagini o al clero, con un 
carattere straordinariamente dinamico e profondamente universale, in cui il misticismo medievale 
veniva adattato al razionalismo moderno. Calvino voleva imporre alla società una concezione 
religiosa adatta ai nuovi stili di vita creati dalla rinascita del pensiero umano. Dal 1539 la 
persecuzione divenne più sistematica, le particolari misure adottate precedentemente contro piccoli 
gruppi isolati divennero legge dello stato tramite l’emanazione sempre più frequente di editti validi 
su tutto il territorio del regno, segno dell’autonomia impositiva assunta dal potere regio su porzioni 
del paese sempre più vaste. Fondamentale è l’editto di Fointanebleau del1540: “...esso rivela la 
pretesa dei principi in quest’epoca di prendere in mano gli affari ecclesiastici e di non contentarsi 
più, come nel Medioevo, del semplice ruolo di braccio secolare...”
10
. Ecco perciò i Parlamenti 
promossi a giudici della fede, con l’estromissione della esclusiva competenza ecclesiastica, altro 
passo nell’affermazione della supremazia politica dello stato sulla teologia religiosa. L’assolutismo 
del potere regale trova il suo centro di glorificazione nelle prime teorie di Jean Ferrault e dei suoi 
seguaci della scuola di Tolosa, la stesa che alleverà Bodin. Ormai la persecuzione è affare di stato e 
l’intervento civile in ambito spirituale raddoppia gli sforzi, facendo degli ultimi anni di regno di 
Francesco I un periodo di ardore sterminante. Tanto più che il calvinismo, all’opposto del 
luteranesimo, affermava la sua totale indipendenza, pur nell’unione dei due, nei confronti del potere 
civile. Paradossalmente, era una dottrina che nella sua raffinatezza moderna e rinascimentale si 
avvicinava di più al cattolicesimo, in quanto ne rivendicava i temi fondamentali dell’universalismo 
e dell’individualismo. Ma il cattolicesimo delle origini non esisteva più e le gerarchie romane e gli 
stessi dottori della Sorbona non volevano interferenze pericolose nella loro opera di cura d’anime e 
soprattutto nella sfera del loro potere temporale, in Francia come dappertutto. La Riforma agì 
specialmente nei centri urbani della nazione, dove le idee nuove circolavano e la capacità di critica 
era più forte che nelle campagne ed in qui centri rurali in cui l’autorità della chiesa era ancora 
superiore a quella dello stato. Il calvinismo si impose a tutti quelli che dubitavano del cattolicesimo 
e volevano esprimere personalmente e con più libertà il proprio culto. Quando Francesco I morì, la 
Francia si trovò coinvolta in una terribile esplosione di intolleranza.  
Al trono assurse Enrico II, uomo malinconico, tetro ed introverso, al confronto del padre 
brillante ed instabile, sposato dal 1533 a Caterina dé Medici, ma neppure il suo regno si dimostrò 
più clemente verso i calvinisti. Convinto che dietro ogni male del suo paese ci fosse la diffusione 
delle idee riformate, fin dal principio si diede a combattere gli ugonotti, dotando il Parlamento di 
una Chambre ardente per giudicare l’eresia. Ma egli non aveva la scorza del padre e le proteste del 
clero contro l’accaparramento dei processi di eresia da parte del potere civile lo convinsero della 
necessità di spogliare il parlamento, nel 1549, del diritto di giudicare gli eretici. Queste disposizioni 
fecero parte del grandioso editto di Chateaubriand, emesso nel 1551 per coordinare tutte le misure 
di lotta per la difesa della fede. Una fede che ormai si era sdoppiata e che Enrico non seppe riunire. 
Una vera e propria politica di sterminio dei calvinisti non fermò la definitiva compiutezza del 
processo integrativo della dottrina ginevrina nel paese.  
Nonostante l’opposizione del parlamento defraudato di tendenza gallicana, egli volle 
asservire all’autorità della chiesa tutte la cause di eresia, fino a pensare di introdurre l’Inquisizione, 
con tutto il suo bagaglio di oscurantismo repressivo e di austera severità, atto poi non avveratosi. La 
legislazione divenne sempre più crudele, ogni eretico convinto era passibile della pena di morte, 
un’uniformazione venne imposta in modo draconiano alla giurisdizione penale, ma tutto ciò 
convinse ancora di più i calvinisti ad arroccarsi: essi crebbero di numero e di prestigio, con la 
scalata che la Riforma aveva intrapreso fino ai più alti gradi della scala sociale, coinvolgendo quella 
nobiltà la cui adesione esasperò un re in difficoltà sul piano della politica estera. Con l’editto di 
Ecouen del 2 giugno 1559, il suo giuramento di sterminio totale dei calvinisti divenne pratica: la 
pace di Cateau - Cambresis di quell’anno con  la Spagna liberò il fronte di nuovo compatto dei 
sovrani cattolici contro l’eresia e da quel momento egli indirizzò tutte le sue energie al compito che 
si era prefissato, eliminare i protestanti dal territorio del suo regno.. “...Il conflitto ideologico si 
complicò per i terribili torbidi politici e sociali...”
11
: questo poteva significare che la personalità di 
Enrico II non era in grado di dominare gli eventi, egli era una pausa, un momento di arresto nel 
processo di assolutizzazione della monarchia in atto, un attimo di rivincita del vecchio sistema 
feudale e clericale sull’innovazione; ma le condizioni erano cambiate e la storia non fa sconti. Si 
assistette allora agli ultimi sussulti di una nobiltà feudale ormai in agonia, che cercava nei maggiori 
esponenti delle grandi famiglie, privati dei loro appannaggi, di impossessarsi del potere. Ma la 
situazione finanziaria che aveva fatto rovinare la piccola nobiltà ed immiserire il popolo per 
l’aumento dei prezzi, la smobilitazione dell’esercito creò ulteriori difficoltà. Repressa per legge 
l’eresia nonostante le opposizioni notevoli di molti consiglieri protestanti fatti arrestare, Enrico II si 
apprestava a scendere in guerra contro gli ugonotti quando ad un torneo cavalleresco in luglio fu 
ferito ad un occhio e morì dopo una breve agonia il 10 luglio, incapace di essere ricordato 
all’altezza del padre e colpevole di aver scatenato le ostilità tra i partiti religiosi che si andavano 
organizzando nel paese stremato dalle difficoltà economiche.  
“...L’improvvisa dipartita di Enrico II sopravveniva in uno dei momenti più drammatici della 
Riforma francese [...] non sembrava più possibile nessuna conciliazione delle dottrine...”
12
: in 
Francia non si poteva pensare di applicare le condizioni della Pace di Augusta che in una Germania 
mosaico di stati sovrani andavano bene ma non in un paese fortemente accentrato, in cui era 
inconcepibile la possibilità di espellere in blocco una minoranza religiosa fortemente organizzata e 
disseminata anche nelle sfere stesse del potere. Enrico lasciava il potere nelle mani di sua moglie 
Caterina, una donna e per di più malvista perché italiana e ritenuta portatrice di perniciose idee 
machiavelliane all’interno della corte reale francese. Aveva scelto la soluzione di annientare con la 
forza i calvinisti, e applicò questo suo pensiero in modo feroce e costante. Caterina, sposata per 
interesse politico in quanto nipote del papa, reggerà, alla luce del giorno o nell’ombra, il potere per 
venti e più anni, resistendo alla morte di due dei suoi figli saliti al trono Francesco II, troppo 
giovane nel 1559 per governare, e Carlo IX, dimostrandosi capace di evitare la dissoluzione del 
regno nel periodo in cui si concretizzarono le prime proposte a favore della tolleranza e della libertà 
di coscienza.  
Appena quindicenne, Francesco II visse troppo poco per potere incidere sulle sorti della sua 
nazioni che avvicinava una pericolosa deriva di sangue. Non ebbe, nell’anno e mezzo in cui regnò, 
mai il potere effettivo, retto dalle mani di Caterina e dalla mente del cancelliere Michel de 
l’Hospital. Questo binomio agli albori del nuovo decennio tentò di restaurare la pace interna 
facendo appello alla libertà religiosa, rinunciando alle persecuzioni, sulla scia della teoria di 
conciliazione universale esposta da un grande pensatore quale Guillaume Postel, precursore nel 
1547 della famosa generazione dei Politiques con la sua opera De orbis terrae concordia. Ma la 
passione religiosa ormai aveva il sopravvento.  
Il protestantesimo ormai contava su alte personalità che provenivano dalle fila di famiglie di 
principi del sangue quali i Borboni e i Coligny; ad essi si opponevano i Guisa ed i Lorena, 
imparentati con la fervente cattolica Maria Stuarda. L’influenza di costoro aveva portato al 
ripristino di tutti i rigori del regno contro gli ugonotti durante il regno di Francesco II. Essi erano 
usciti indenni dalla congiura di Amboise del marzo 1560, in cui i calvinisti sotto la guida del Condè 
tentarono di assicurarsi al persona del re sottraendolo alla tutela dei Lorena. Il fallimento 
dell’impresa aveva significato realmente l’inizio delle lotte civili. Cosa era cambiato dal periodo 
precedente? Di sicuro l’atteggiamento dei calvinisti era passato dalla difensiva all’offensiva, un 
partito armato era sorto e non veniva più mantenuto il piano di esilio o resistenza passiva che li 
aveva contraddistinti nei decenni precedenti. L’aiuto maggiore era rappresentato dal supporto di 
importante casate nobili e da un’organizzazione ormai capillare e ben preparata. Forse l’essere con 
le spalle al muro, nel senso di non aver alternative alla sopravvivenza se non quella di lottare per la 
propria vita fu la spinta più efficace per gli ugonotti. E’ il marzo 1560 a segnare una svolta nella 
storia del secolo religioso francese: “...esso segna simultaneamente, da parte dei pubblici poteri, 
l’inaugurazione di una nuova politica e , da parte dei protestanti, la loro entrata in scena come 
fazione nello stato...”
13
. Caterina prese in mano la direzione degli affari per salvaguardare gli 
interessi supremi dello stato, al di sopra delle rivalità dei partiti. Ella tenne presso di sé il re di 
Navarra ed i Guisa, per mantenere a corte l’equilibrio tra i partiti del paese. Furono convocati gli 
Stati Generali ad Orleans, durante i quali vi fu il debutto di una  figura - chiave del periodo, il 
cancelliere umanista Michel de l’Hospital
14
, la cui arringa d’apertura rimase celebre per la condanna 
che egli fece della violenza messa al servizio della religione. Le misure adottate ad Orleans 
risultarono intrise del suo spirito erasmiano, e le severe prescrizioni degli editti ad essi anteriori 
furono cancellate e rinnovate in senso più clemente verso i sudditi della confessione calvinista.  
Sul trono sedeva ufficialmente Carlo IX, succeduto nel dicembre 1560 al fratello, 
secondogenito poco più che undicenne, e Caterina manteneva il governo del paese tramite la 
reggenza in attesa della sua maggiore età ma anche per volontà di portare a compimento la politica 
intrapresa nei 17 mesi di governo di Francesco II. Certamente anche il proposito di rafforzare la 
propria posizione e la propria immagine all’interno di un palazzo che la detestava per la sua origine 
straniera, per i suoi metodi falsi e poco scrupolosi, era un incentivo da mettere in conto nel valutare 
la sua condotta politica di conciliazione. Ella non si preoccupava di teorie politiche, né di problemi 
religiosi, ma “...aveva un senso accorto, quasi machiavellico, degli interessi superiori dello 
stato...”
15
. La Francia del 1561 non disponeva di un sovrano energico, capace di imporre la pace 
civile ai suoi sudditi divisi nella loro fede ed anche la reggenza non fece che accelerare la corsa alla 
guerra, per mancanza di personalità in grado di allontanare tale pericolo. L’anno vide le prime 
rivolte nel sud del paese da parte di un calvinismo in grado di mietere adesioni a ritmo frenetico, e 
la contemporanea alleanza dei grandi capi cattolici per la difesa della fede e della patria, il tutto 
sotto lo sguardo impotente del governo, che sfornava editti a getto continuo, improntandoli ad una 
sempre maggiore libertà di coscienza ed alla reciproca tolleranza.  
Venne soprattutto indetto un colloquio a Poissy nel settembre di quell’anno, un’assemblea 
del clero a cui parteciparono teologi cattolici e riformati. Grandi personalità accorsero, tra cui 
Francois Hotman e Teodoro di Beza, maggiori esponenti del calvinismo monarcomaco francese, tra 
gli scranni della delegazione riformata. La pacificazione su temi di fede che si era prefissata il 
binomio di governo, un’intesa generale su temi di culto che non esponessero il paese alla mercè 
degli scontri di partito, non venne trovata, anzi la riunione si rivelò un fallimento totale ed 
irrimediabile per Caterina e l’Hospital, causata episodicamente da una divergenza inconciliabile tra 
le diverse visioni del sacramento dell’eucaristia. Lecler afferma che dopo Poissy il sistema dei 
colloqui come momenti di superamento delle crisi religiose diviene superato dagli avvenimenti e di 
nessuna possibile utilità futura
16
. In pratica venne misconosciuta la politica seguita a suo tempo da 
Enrico II, quella dell’eliminazione integrale del calvinismo, a vantaggio della pratica della 
tolleranza civile dei riformati, cioè il tentativo di ottenere perlomeno l’unità nazionale ove quella 
religiosa era impossibile. Di questo problema si occuperà il gruppo di personaggi e pensatori che si 
raduneranno attorno alla Reggente e che sostituiranno col nome di Politiques il nucleo di umanisti 
erasmiani
17
. Essi punteranno ad un accordo sul piano civile e nazionale tra cattolici e protestanti, in 
mancanza di un’intesa sul piano dogmatico. Il filo rosso che ho individuato all’inizio di questa 
disamina non interrompe la su strada che porta a Bodin, materializzandosi di volta in volta in nuovi 
attori moderati sulla scena politica che conta.  
Col radicalizzarsi dello scontro, nuove rivendicazioni che travalicavano il terreno 
confessionale apparvero. I cattolici rappresentati dalla famiglia dei Guisa, esigevano il ritorno ai 
vecchi privilegi nobiliari e feudali; essi uscirono adirati con la Regina madre da Poissy, si ritirarono 
nelle loro terre e danno vita alle prime leghe locali che prefigurano la futura Santa Alleanza, 
facendo ventilare la possibilità di un ricorso al cattolico re di Spagna Filippo II. Tra gli ugonotti 
iniziarono a serpeggiare idee politiche volte al tirannicidio e violenti attacchi di stampo anarchico - 
radicale furono portati alle teorie assolutistiche. Caterina, donna intelligente quanto sciatta 
d’aspetto, nonostante l’impossibilità dell’accordo, Caterina era decisa a salvaguardare l’integrità 
dello stato francese; intuendo come l’unico mezzo per evitare i conflitti fra cattolici oltranzisti ed 
ugonotti intransigenti fosse non più quello di mirare ad una risoluzione dottrinaria delle controversie 
ma il ricorso ad un’ampia libertà di esercizio del culto riformato parallelamente al mantenimento 
della religione romana come quella ufficiale del regno, ella accordò il diritto di pratica e la libertà di 
coscienza ai protestanti tramite l’editto di St. Germain del gennaio del 1562. Esso testimoniava il 
riavvicinamento avvenuto con la fazione ugonotta, il cui apporto è fondamentale per comprendere 
questa sorta di statuto della Riforma. Esso era una misura provvisoria in attesa del futuro e sempre 
più chimerico concilio generale, ma concedeva piena libertà al culto riformato, stabilendo le 
condizioni del suo esercizio e la forma della sua organizzazione ecclesiale. La situazione non 
migliorò e nel marzo di quello stesso anno giunse la notizia della strage di Vassy, compiuta dagli 
uomini del duca di Guisa: non ci volle null’altro per scatenare l’insurrezione protestante guidata dal 
Condè: “...alle atrocità degli ugonotti [...] risposero i cattolici con atti di vero terrorismo...”
18
.  
Senza addentrarmi nelle pieghe cronacistiche degli scontri, questa ennesima guerra di 
religione fu sanata dalla pace di Amboise, dopo aver lasciato sul campo Federico di Guisa e 
prigioniero il Condè.  I negoziati di questa tregua e dell’editto che ne seguì, com’era prassi abituale, 
fece esaurire la spinta propagandistica del calvinismo, poiché furono difesi solo gli interessi della 
nobiltà e le conversioni dei sudditi semplici calarono in modo enorme in quel periodo, il calvinismo 
diveniva fede dei grandi signori, contro gli ammonimenti pressanti di Calvino stesso e tale 
percezione fece diminuire l’appoggio del popolo. Fino al 1566 il governo regale, del quale Carlo IX, 
proclamato maggiorenne, si impossessò a tutti gli effetti, assicurò un equilibrio assai instabile su 
forze che non era in grado di dominare nel caso che si fossero riaccese le polveri dello scontro. 
Caterina, che agì come un’ombra sul giovane sovrano, era astuta ed abile ma non poteva certo 
prevalere sulle beghe delle fazioni. Ed infatti bastarono sporadici episodi per rinvigorire la battaglia 
nel 1567, soprattutto l’errore del Condè di assediare Parigi per liberare la casa reale dall’influenza 
dei Guisa. La capitale restava l’unico posto in cui solo il culto cattolico era autorizzato, concessione 
che poneva indiscutibilmente la città degli affari di stato e delle grandi decisioni sotto l’egida ed il 
controllo della fazione cattolica. Lo sbaglio del capo ugonotto consistette non nell’atto in sé ma in 
ciò che ne scaturì: il rancore di Caterina verso la parte riformata e specialmente verso i suoi capi, 
arroganti e presuntuosi. Dal disinganno, la Regina passerà ad un’ostilità oscura e profonda, in cui 
possiamo ritrovare i prodromi dell’agosto 1572, di quell’ordine impartito mal ponderando le 
conseguenze: “...da quest’epoca Caterina meditava forse una vendetta ma, con la sua abituale 
prudenza, ella seppe attendere e contenere il suo risentimento...”
19
.  
Alla fine del 1568 era in atto la terza guerra civile; dopo otto anni di assidui tentativi di 
stabilire le condizioni politiche per una pace nazionale stabile e durature, Michel de L’Hospital 
gettò la spugna, di fronte al presentimento che non vi fosse più la volontà, nelle stanze del governo, 
per tentare una mediazione e che una politica di violenza si fosse impossessata della scena. Si 
congedò dal re con un memoriale in cui riponeva le sue speranze in un programma moderato, in cui 
i sudditi dovevano devozione al re ma nel rispetto reciproco delle rispettive coscienze. A proseguire 
il suo lavoro ci penserà il partito dei Politiques, che apparirà, come tutte le cose più originali di 
un’epoca, quando il regno sarà in balia delle armi: nel momento di maggiore tempesta c’è sempre 
chi mantiene la rotta giusta, anche se inascoltato, per un approdo sicuro. Opera loro fu la stipula di 
un nuovo editto di St. Germain nel 1572, in cui L’Hospital, che non era stato l’unico, ma il più 
costante teorico del gruppo fino all’inizio del decennio, credette di ravvisare ancora una volta un 
successo della sua politica. Ma da quell’8 agosto pochi giorni di pace separarono la nazione dalla 
grande tragedia del secolo, paragonabile solo al 14 luglio 1789.  
Grandi concessioni erano fatte agli ugonotti, l’editto si rivelò quanto di più liberale potesse 
concepirsi al momento: piazzeforti, amnistia ed esercizio pubblico del culto protestante furono 
liberalizzati in maniera ampia. Caterina si era decisa più stremata dalla crisi delle finanze del regno 
che per convinzione personale: “...non erano le sua convinzioni religiose che la rendevano ostile alla 
Riforma, ma le follie e i tradimenti dei capi...”
20
. L’editto fu l’ultimo momento di pace prima della 
grande divisione che agì nel paese dopo il 24 agosto, a volerlo furono le necessità matrimoniali che 
la Regina aveva programmato per i suoi figli nell’ambito di un progetto europeo. Proprio il 18 
agosto Margherita di Valois andrà sposa di Enrico di Navarra, divenendo la futura regina Margot 
tanto celebrata e cooptando il Borbone nella scala degli eredi al trono. Non comprendo se Caterina 
capisse l’importanza di questo gesto, che tanto prodigo di divisioni ma anche di fortune sarà per la 
storia del regno di Francia alla fine del secolo. Proprio quando la politica matrimoniale favoriva gli 
ugonotti, i loro capi, tra tutti l’ammiraglio di Coligny, oltrepassarono i limiti della loro forza, 
tentando di imporre al re la guerra nei Paesi Bassi in rivolta contro Filippo II ed il dominio 
spagnolo, minacciando Caterina di scatenare la guerra civile in caso di rifiuto. Il resto  è cronaca 
risaputa: ella, preoccupata del prestigio di costui, tentò di far assassinare il capo ugonotto il 22 
agosto 1572; il fallimento di quest’attentato e l’ira crescente dei riformati contro il potere indussero 
Caterina del pericolo che correva la casa regnante e fece in modo di convincere il figlio Carlo IX 
della necessità di eliminare la pericolosa nobiltà ugonotta.  
Lo sterminio che avvenne nella notte di S. Bartolomeo, il 24 agosto 1572, fu preparato dai 
capi del partito cattolico; nella sola Parigi furono massacrati tremila ugonotti, tra cui lo stesso 
ammiraglio. Nei giorni successivi si assistette ad una battaglia senza esclusione di colpi in tutto il 
paese: la guerra civile divampò ovunque e poco ci mancò che la nazione si smembrasse. La reazione 
ugonotta fu feroce, ormai la vita di chiunque valeva poco, la responsabilità del terribile vulnus pesò 
talmente sulla coscienza del giovane re da condurlo a morte precoce nel 1574. Sembra ormai 
scartata la tesi della lunga premeditazione del massacro, mentre prende corpo, tra gli storici, la 
teoria che fu lo sgomento di Caterina di fronte a Coligny ferito ma non ucciso che diede l’impulso 
decisivo alle nefandezze cui si abbandonarono i fedeli del partito cattolico. “...Il massacro di S. 
Bartolomeo [...] fu essenzialmente una misura di natura politica, una logica applicazione della pura 
ragione di stato...”
21
: ma con esso Caterina invece di servire lo stato, come pensava, compromise 
l’opera di tolleranza che aveva perseguito per 12 anni, gettando la sua stessa posizione personale 
verso un giudizio negativo. Come riporta giustamente Lecler, “...Per una sinistra beffa della storia, 
la sovrana, che si sarebbe potuta annoverare [...] tra i primi promotori della pace religiosa, sia 
allinea improvvisamente tra le figure più sanguinarie del suo secolo...”
22
. La notte di S. Bartolomeo 
mostrò cosa vuol dire un potere debole, non in grado di imporsi alle fazioni e costretta a rimediare 
ai propri errori con un nuovo sobbalzo di imprudenza politica, peggiorando man mano le cose e non 
governando stabilmente un paese facendo rispettare la propria volontà. Ma al momento la 
maggioranza dei francesi, anche di quelli che inizialmente avevano accolto favorevolmente la 
religione riformata, vedevano di buon occhio la lotta agli ugonotti, colpevoli di eresia ma anche di 
sacrilegio, delitti e sedizioni. Tutti gli odi religiosi placati a fatica dalla numerosa serie degli editti 
precedenti, ora apparsi quantomeno scandalosi, si sfogarono nelle maniera più crudele possibile. 
Con l’ascesa al soglio pontificio di Gregorio XIII, l’opera di restaurazione cattolica sembrava avere 
un sostenitore in più, e del calibro maggiore che potesse esserci. Le forze spirituali e temporali del 
paese furono mobilitate contemporaneamente contro la Riforma e inascoltata giacque la voce dei 
Politiques sulla necessità di riprendere il discorso sulla tolleranza civile: “...il punto di vista della 
Cristianità entrava in conflitto con quello dello stato nazionale...”
23
 e per il momento il primo 
doveva avere il sopravvento. Una grande corrente democratica, dai toni accesi e risentiti verso il re, 
percorse il paese tra le fila calviniste, e mai come allora, penso che tutto il processo di 
accentramento avviato da Francesco I abbia rischiato la disfatta completa. Ormai però, anche gli 
ugonotti capirono di esser giunti al momento finale dello scontro col cattolicesimo e gli anni 
immediatamente successivi al 1572 testimoniano l’urto decisivo fra i due schieramenti, portatori di 
opposte visioni della vita religiosa ma anche politico - sociale.  
Il nuovo re, Enrico III, che sarà l’ultimo Valois a regnare, appena tornato, o scappato nella 
notte del 19 giugno, dal trono polacco che aveva assunto l’anno precedente, il 1573, fu incoronato a 
Reims nel 1575. Il paese era ormai diviso in due parti ostili tra loro, sotto il controllo armato 
dell’Unione Calvinista e del partito cattolico, la Santa Unione o Lega. Dopo la spaventosa tempesta 
successiva al 1572, un nuovo editto attenuava i toni dello scontro, restituendo ai protestanti libertà 
di coscienza col permesso del culto privato. Proprio in questo periodo di calma incerta si palesa 
l’azione dei Politiques, tendente ad unire sul piano dell’interesse nazionale cattolici malcontents ed 
ugonotti moderati. Di essi e delle loro idee parlerò più diffusamente nel prossimo capitolo
24
. Enrico 
III aveva un carattere instabile, certamente non quello adatto al momento: in un primo tempo 
sconfessò la strage di S. Bartolomeo, per cui già a suo tempo era stato in contrasto col fratello Carlo 
IX, ne riabilitò le vittime, concesse ai riformati libertà di culto ed otto piazzeforti. Di seguito 
deplorò il proprio comportamento e si rivoltò nuovamente contro gli ugonotti, in un tentativo 
aleatorio di ristabilimento dell’unità confessionale. Fu in questo periodo che i protestanti posero 
l’assedio a Parigi, dopo aver unito, sotto il comando del fratello del re, il duca Francesco d’Alençon, 
promesso sposo di Elisabetta d’Inghilterra, un poderoso esercito in cui confluì tutto il furore dei 
calvinisti. La riconciliazione tra i due fratelli, per cui spingeva Caterina, avvenne con la pace di 
Monsieur, a cui seguì l’editto di Beaulieau. Esso rappresentava una grande vittoria per le tesi dei 
Politiques, finalmente in grado di influenzare le decisioni importanti per lo stato. Tuttavia una pace 
tanto liberale, che concedeva ampie garanzie ai riformati, piazzeforti, esclusa Parigi, e la creazione 
di camere bipartite presso ogni Parlamento, sollevò l’indignazione della fazione cattolica. Lo stesso 
re, costretto a firmarla, era contrario. In quel fatidico 1576, a Peronne si costituì la Lega cattolica, al 
cui comando Enrico III non esitò a porsi.  
Egli convocò gli Stati Generali a Blois per riceverne supporto e sussidi. In tale sessione i due 
ordini maggiori, appoggiati dal sovrano, decisero che in Francia non doveva esserci che una sola 
religione, quella cattolica, e fu approvato il progetto di estirpazione del calvinismo, ritenendosi che 
non potessero convivere due confessioni inconciliabili, pena la minaccia di smembramento del 
regno. Del suo impegno contro questi progetti come deputato del Terzo Stato, Jean Bodin, nella sua 
più rilevante apparizione pubblica, ci ha lasciato testimonianza nel diario quotidiano che stese 
durante lo svolgimento dei lavori.  Proprio l’anno in cui il Nostro diede alle stampe la sua opera 
principale, Les Six Livres de la République, il 1576, la situazione nella nazione volgeva verso un 
altro scontro armato. La guerra di religione e l’accordo raggiunto con le istanze dei protestanti con 
l’editto di Poitiers, conseguente all’abbandono dei progetti bellicosi del re per mancanza di fondi, 
portarono ad un effimero ripristino dei grandi appannaggi feudali ed al predominio dell’alta nobiltà 
d’epée sul monarca. Egli comunque, persona arrogante e non consapevole di non possedere la forte 
personalità che si attribuiva, si dichiarò soddisfatto dell’editto, sentendolo come suo in confronto a 
quello precedente che considerava estortogli. Lecler afferma che “...nonostante le restrizioni che [...] 
contiene l’editto di Poitiers, questo si avvicina notevolmente, nelle sue disposizioni essenziali, al 
futuro editto di Nantes...”
25
, l’atto che sancirà la definitiva chiusura del periodo delle guerre di 
religione. Dopo una fase di stasi dovuta allo scatenarsi degli eventi in politica estera, Enrico III vide 
rinfocolarsi la crisi religiosa alla morte del fratello, duca d’Angiò.  
Questa scomparsa, avvenuta nel 1584, gettò nello sconforto Bodin e molti personaggi che si 
erano legati all’erede al trono, dato che Enrico non avrebbe lasciato figli a cui trasmettere la corona, 
e riaccese violentemente la diatriba sul futuro monarca. I Guisa, per allontanare un calvinista, e per 
di più recidivo, dalla successione, Enrico di Navarra che aveva la precedenza in linea ereditaria, 
candidarono il vecchio cardinale di Borbone, dietro il quale incalzava lo stesso Enrico. Nessuno, 
tranne l’accorto Bodin, aveva mai previsto un caso del genere fino a quel momento. L’opinione 
generale era senza dubbio contrario ad un’eventualità di tal fatta. La Lega, considerevolmente 
indebolita nei sette anni di pace trascorsi dall’editto di Poitiers, si risvegliò in maniera potente. Essa 
rivelò la sua natura di strumento che mascherava le ambizioni dei Guisa e le manovre degli 
spagnoli, non mantenendosi semplicemente arma  guidata dalla causa cattolica per la difesa della 
fede romana: “...è incontestabile che religione e politica, nella Lega, si fusero in una pericolosa 
alleanza...”
26
. La fazione cattolica rinvigorì la lotta sempre latente nel paese, imponendo al debole 
Enrico III, incapace di contrastarla, un nuovo editto che demoliva tutta l’opera anteriore di 
pacificazione: “...era l’applicazione pura e semplice del trattato di Augusta in ogni stato sovrano 
dell’impero...”
27
. Il re si dimostrò una volta di più poco abile nella lotta per imporre la volontà 
sovrana alle parti: la confessione cattolica ritornava ad essere la sola religione del regno, a scapito 
del potere del monarca. Agli ugonotti, per la terza volta negli ultimi decenni, si parò davanti la 
scelta tra l’esilio o la professione di fede cattolica , cioè implicante la conversione. Essi si diedero 
alla lotta nei tra anni seguenti, fino al 1588, mentre Enrico fu ridotto a subire il dominio della Lega e 
del suo capo, Enrico di Guisa. La sua umiliazione raggiunse l’apice quando fu costretto a fuggire da 
Parigi insorta, abbandonando la capitale al suo rivale trionfante. Il popolo parigino, reso fanatico dai 
capi della Lega, corse alle armi ed assediò il Louvre, residenza della corte. Il re fu costretto a 
fuggire, nominando Enrico di Guisa luogotenente del regno, in pratica un’abdicazione in pectore. 
Infatti chi si mostrò il vero sovrano agli stati Generali di Blois, il difensore della nazione di fronte 
ad un monarca traditore, fu proprio il Lorena.  
Correva l’anno 1588, e quella crisi fu creduta definitiva per le sorti della Francia da diversi 
commentatori politici, tra cui emerge la voce di Etiénne Pasquier. I tre ordini del regno fecero il 
passo solenne di scavalcare con il loro consenso unanime alle decisioni dell’assemblea la volontà 
del re. Enrico III si sentì perso, defraudato di un potere che i suoi predecessori andavano costruendo 
da più di un secolo: per orgoglio, per esasperazione per una tutela che lo rendeva sempre più 
manovrabile dalla fazione cattolica, risolse, con un atto di coraggio mai mostrato prima, di 
sbarazzarsi dei suoi rivali e fece assassinare Enrico di Guisa assieme al fratello, la vigilia di Natale 
1588. Questo delitto provò l’animo dell’anziana Regina madre ed il ricordo della strage di S. 
Bartolomeo, indelebile e mai superato da Caterina, la portò alla morte pochi giorni dopo. Moriva 
lasciando un paese diviso, dopo trent’anni in cui aveva detenuto il potere, e l’opera che aveva 
intrapreso, consolidamento del trono e pacificazione del paese, era ormai in fumo: lo stesso potere 
reale, quello che re emerso dalle molteplici autorità feudali, era minacciato. Parigi insorse ancora a 
vendicare le due figure assassinate. Questa sollevazione fu caratterizzata dal fatto che 
un’opposizione nobiliare e borghese come quella contro il sovrano divenne a carattere democratico 
e quasi rivoluzionario: c’era la seria intenzione di rovesciare il re, una forza cattolica aveva 
impugnato l’armamentario ideologico dei monarcomachi calvinisti che fino a quel momento aveva 
rifiutato, organizzandosi per una resistenza attiva che poteva condurre, forse, alle estreme 
conseguenze del regicidio.  
Curiosamente, è lo stesso atteggiamento tenuto dai calvinisti dopo l’agosto ’72, 
l’affermazione del diritto popolare contro la tirannia e l’assolutismo del sovrano. Certamente nel 
sedicesimo secolo la democrazia non ha ancora assunto le tinte liberali che siamo usi attribuirle: 
“...essa ha qualcuno dei tratti totalitari che, più tardi, caratterizzeranno il giacobinismo o le 
democrazie popolari dei giorni nostri...”
28
, cioè una concezione gerarchica della società ed una 
sostanziale intolleranza verso i dissidenti. Enrico III non aveva compreso come la Lega non era solo 
l’opera dei Guisa ma anche un grande afflato di massa. I sedici quartieri di Parigi elessero un 
comitato insurrezionale che dichiarò il re decaduto e spergiuro, istruendo un processo davanti al 
Parlamento cittadino. Monarca fu proclamato il duca di Mayenne, fratello del defunto Enrico di 
Guisa.  
Non restò al re spodestato che allearsi con Enrico di Navarra e con gli ugonotti. Costui aveva 
già dato prova del suo genio politico e della sua nobiltà d’animo con un mirabile documento 
lanciato ai tre Stati di Francia nel giugno 1589, in cui invitava gli ordini del paese alla concordia ed 
all’unione, in cui sanciva la sua definitiva appartenenza al calvinismo, poi rinnegata, e garantiva 
ampia libertà di culto ai cattolici, questa volta religione non ufficiale del regno ugonotto che si 
profilava all’orizzonte storico. Grazie a questo accordo Parigi fu stretta d’assedio e la vittoria 
sembrava profilarsi all’orizzonte della coalizione. Proprio in quel momento Enrico III fu assassinato 
da un monaco, Jacques Clément, con una pugnalata che rimase nella storia, il 1° agosto 1589. Prima 
di morire Enrico nominò futuro Enrico IV il principe di Navarra, obbligandolo, almeno moralmente 
a farsi cattolico. Vissuto sempre sotto il controllo di qualcuno, non riuscendo a svolgere una politica 
autonoma e di progredire  nell’assolutizzazione del paese, troppo lacerato dagli scontri dottrinari, 
Enrico III morì delegando il suo erede a sanare la divisione del regno con l’abiura pubblica del suo 
culto. Come dice Pirenne, ad Enrico IV “...non restava che da conquistare il suo regno...”
29
.  
Egli compì questa impresa dopo una lunga guerra contro Filippo II, imperatore di Spagna, 
che appoggiava col suo esercito la Comune Insurrezionale di Parigi, durata fino al 1593 e con 
riappropriazione palmo a palmo del territorio della Francia a partire dalla roccaforte normanda. In 
quell’anno morì il Cardinale di Borbone e gli stati Generali si riunirono per eleggere il successore. 
Contro Filippo II che voleva imporre sua figlia Isabella, una donna e perdipiù straniera, il pessimo 
ricordo di Caterina e la legge fondamentale del regno consentirono ad Enrico di diventare il vero 
monarca del suo popolo. Era la prima volta dopo l’esplosione della Riforma che il problema della 
libertà di coscienza non coinvolgeva solo i sudditi ma un re. Abiurando il protestantesimo, con la 
famose frase “Parigi val bene una messa” egli tornò cattolico e la maggior parte del regno lo 
riconobbe. I restanti oppositori furono comprati, la sottomissione valse loro 20 milioni di lire: la 
guerra di religione, iniziata per profonde divergenze ideali finiva per concludersi grazie ad un 
pagamento, che accontentava tutti, sfiniti dai combattimenti. La guerra interna fu vinta non con le 
armi, o non solo con quelle, ma con l’evidenza dei fatti: la nazione non avrebbe mai accettato un re 
protestante. La guerra con Filippo II continuò fino alla pace di Vervins del 1598, che riconfermava 
le posizioni reciproche di Spagna e Francia ottenute 30 anni prima a Cateau - Cambresis. Lo stesso 
anno la pacificazione religiosa poneva termine a tre decenni di aspre lotte intestine che avevano 
sconquassato le fondamenta del paese, portandolo sull’orlo della dissoluzione. L’Editto di Nantes, 
che sarebbe durato fino alla solenne Revoca del 1695, chiudeva la fase del cambiamento cruento 
delle istituzioni e del pensiero politico - religioso in terra di Francia ed apriva il secolo nuovo con la 
sua voglia di ricostruire su nuove basi il regno.  
Fondamentale fu il periodo di Enrico IV,  finalmente re di tutti i suoi sudditi, per questo 
scopo di renovatio etico - sociale. Egli era stato fino al 1576 un semplice strumento nelle mani di 
Caterina dè Medici. Avendo giurato fedeltà alla causa degli ugonotti, fu in pericolo quella notte del 
24 agosto, ma Carlo IX lo fece salvare. Dovette però abiurare la fede calvinista e fu quasi tenuto 
prigioniero presso la corte. Fuggì nel febbraio del 1576 e cercò di ricostruire la monarchia di 
Navarra, ormai sottomessa, come tutte le grandi casate, al potere monarchico. In giugno di 
quell’anno ritornò al protestantesimo, acquistando sempre maggior prestigio tra i riformati. Infatti 
condusse brillantemente una guerra di religione e firmò la pace dei Bergerac nel 1577. Dal 1584 
iniziò una vera e propria lotta all’ultimo sangue con la famiglia dei Guisa, venendo scomunicato dal 
Papa nel 1585 e vedendo l’anno successivo il proprio territorio invaso dalle truppe filo - cattoliche. 
Solo con l’abiura del 1594 riuscì a diventare il monarca effettivo del paese, dopo aver volto a 
proprio favore le contraddizioni e le debolezze del 1593 tra le fila leghiste per diventare l’erede al 
trono legittimo. Entrò a Parigi il 22 marzo 1594, ponendo fine ad un’epoca fra la più buie nella 
storia del popolo francese e facendo seguire un periodo di eccezionale attività per ristabilire la pace 
interna e l’autorità monarchica, ridando il ritmo ottimale alle forze produttive della nazione 
francese. Negli anni successivi seppe governare saggiamente il proprio paese, grazie all’aiuto di 
consiglieri capaci sui cui riponeva un’estrema fiducia, quale il Sully. Finirà i suoi giorni nel 1610, 
assassinato da Francois Ravaillac, un ex frate dominato da fanatismo religioso, quando era in grado 
di dispiegare nella sua politica doti eccezionali e grande carattere accostati ad una accortezza 
notevole. Ma ormai la Francia diveniva il modello della monarchia moderna e assoluta e la politica 
sciolta dalle spire teologiche contribuiva al progresso economico e sociale dell’intera nazione 
durante tutto il XVIIesimo secolo.