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PREMESSA 
 
Se si apre il dizionario della lingua italiana alla parola “corruzione”, la ricerca restituirà 
significati lessicali come “stato di decadimento morale”, “depravazione”, 
“pervertimento”; alla voce “corrompere” si trovano significati come “alterare”, 
“guastare”, “contaminare”, “viziare”, “inquinare”, “deviare o tralignare dalla retta 
via”: cercare le diverse declinazioni della radice non condurrà ad ottenere risultati 
dissimili, tant’è che il campo semantico farà sempre riferimento a un denominatore 
comune che allude a una disonestà consistente nel fare qualcosa contraria al proprio 
dovere per guadagno, tornaconto, o altro. 
Anche un’indagine etimologica testimonia come la parola “corruzione” derivi dal 
termine latino “corruptio”: non manca chi fa risalire il significato di questa parola 
all’unione dei due termini “cor” e “ruptus”, la cui traduzione letterale è “cuore infranto, 
rotto”. 
L’immagine, così suggerita, richiama alla mente una crepa, una rottura rispetto 
all'integrità richiesta da un ruolo, un cedimento all’avidità, un tradimento egoista che 
infrange un patto di fiducia. 
Senza voler sconfinare in un territorio assai vasto, che esulerebbe dai temi della 
presente trattazione, nella cultura giuridica nostrana il fenomeno corruttivo è sempre 
stato concepito e raffigurato prevalentemente, se non esclusivamente, nell’ambito dei 
pubblici poteri, a maggior ragione dopo il caso “Tangentopoli”, assurto agli onori delle 
cronache nel 1992. In tal senso, anche il codice penale disciplina i reati di corruzione 
nel titolo dedicato ai reati contro la Pubblica Amministrazione. Ed infatti, per molti 
risulta quasi automatico il collegamento tra la “corruzione” – intesa, stavolta, in senso 
tecnico-normativo – e le figure del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico 
servizio. Prova ne sia il fatto che il codice penale prevede, al momento, soltanto la 
corruzione dei pubblici agenti. 
Il presente lavoro, scevro tanto da aspirazioni di completezza, quanto da pretese 
risolutorie, si ripromette di analizzare quella che costituisce “l’altra faccia della stessa 
medaglia”: sempre di corruzione si tratterà, ma delle condotte poste in essere, stavolta, 
non nell’ambito della Pubblica Amministrazione e non dai pubblici ufficiali e dagli 
incaricati di pubblico servizio, bensì in ambito privato, dai soggetti operanti nel mondo 
economico-imprenditoriale. Naturalmente, il perimetro d’indagine, così circoscritto, 
sconta le peculiarità della materia cui afferisce (il diritto penale dell’economia) e molte 
considerazioni in tema di corruzione c.d. pubblica (soprattutto quelle che includono
2 
riflessioni più o meno profonde sui beni giuridici del “buon andamento” e 
dell’“imparzialità” della Pubblica Amministrazione), non saranno trasponibili – sic et 
simpliciter – nel settore privato senza pagare dazio a quello che sarebbe un “trapianto 
con forte rischio di rigetto”. 
E infatti, da diversi anni studiosi di diritto penale, economisti e politologi sostengono 
che a fianco della corruzione del soggetto pubblico deve essere punita anche la 
corruzione fra privati, al fine di reprimere il fenomeno tangentizio anche nella realtà 
imprenditoriale.  
Il presente lavoro prenderà le mosse proprio dalle istanze, provenienti “dal basso”, che 
avveduta dottrina evidenziava già all’inizio degli anni ’70, stimolando un vivace 
dibattito da cui potesse emergere la lacuna normativa dell’ordinamento italiano, 
sprovvisto di una fattispecie idonea a contrastare un fenomeno dai numerosi effetti 
nocivi. Istanze che, come si vedrà, sono state poi accolte a livello internazionale ed 
europeo, determinando quella sorta di “spinta dall’alto” esercitata da strumenti come la 
Convenzione OCSE del 1997, l’Azione Comune del 1998 e la Decisione quadro del 
2003, che hanno chiamato il legislatore italiano ad adeguare l’apparato sanzionatorio 
interno. Ed invero, le forme corruttive tra soggetti privati sono state, per la prima volta, 
prese in considerazione dal legislatore nazionale in sede di riforma del diritto societario 
con la riformulazione degli articoli 2634 e 2635 del codice civile (infedeltà 
patrimoniale e infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità), figli proprio di 
quella spinta dottrinale e delle sollecitazioni internazionali. Si esamineranno, quindi, sia 
il background della norma che ha visto la luce nel 2002, dopo un travagliato iter 
parlamentare, sia i lineamenti strutturali della suddetta fattispecie di cui all’art. 2635 del 
codice civile. Al termine dell’esame dei connotati di struttura, poi, sarà possibile aprire 
le porte a un ventaglio di rilievi critici e perplessità inerenti il funzionamento di una 
fattispecie dalla discutibile fisionomia. Seguirà un approfondimento sull’oggettività 
giuridica nei delitti di corruzione tra privati, dal momento che, come si vedrà, al variare 
della fisionomia di questa, varieranno anche altri importanti elementi di fattispecie. Sarà 
possibile verificare come ogni differente strutturazione, aderente a questo o quel 
modello prospettato dalla dottrina, risponda a diverse esigenze politico-criminali 
retrostanti, e influenzerà in modo peculiare il focus della tutela. Al termine delle 
riflessioni inerenti l’oggettività giuridica, si proverà ad “entrare dentro l’azienda”, per 
verificare, attraverso una breve analisi dei principali strumenti extrapenali, se, ed
3 
eventualmente in che modo, tali rimedi siano in grado di contrastare, alternativamente o 
congiuntamente, il fenomeno corruttivo nel settore privato.  
Il lavoro proseguirà con alcune riflessioni riguardanti la delega al Governo contenuta 
nella Legge comunitaria 2007, all’art. 29 della l. 34/2008: si tratterà, con un occhio 
anche al parallelo “disegno di legge Kessler”, di verificare la rispondenza della suddetta 
stesura ai dettami provenienti dalle sedi internazionali. Per concludere, verranno 
analizzati i risultati cui il legislatore è addivenuto proprio di recente, con il decreto 
anticorruzione di cui alla l. 190, convertita in legge il 6 novembre del 2012, dopo un 
decennio esatto dalla riforma del 2002. Inserendosi nello scenario sopra brevemente 
descritto, il decreto anticorruzione, proponendo una rivisitazione globale degli strumenti 
di contrasto al fenomeno, sia nella Pubblica Amministrazione sia, per quel che qui 
interessa (coerentemente con il tenore dell’impianto complessivo del lavoro svolto), in 
ambito privatistico, sembra prefiggersi l’obiettivo di colmare le lacune che presenta il 
nostro ordinamento. Naturalmente, allo stato attuale delle cose, non sarà possibile 
adottare una definitiva presa di posizione. Tuttavia, sarà possibile un più modesto 
giudizio prognostico circa la vitalità, il futuro e l’efficacia della nuova incriminazione, 
in attesa dei necessari riscontri che proverranno – se proverranno – dalla prassi 
applicativa.
4 
CAPITOLO I 
L’INCRIMINAZIONE DELLA CORRUZIONE NEL SETTORE 
PRIVATO:  SUGGERIMENTI DOTTRINALI E SPINTE 
SOVRANAZIONALI. 
 
1. UN “RUMOROSO SILENZIO” NORMATIVO: L’ASSENZA DI 
UN’APPOSITA FATTISPECIE INCRIMINATRICE DELLE 
CONDOTTE CORRUTTIVE NEL SETTORE PRIVATO.  
Da tempo risalente si avvertiva in dottrina l’esigenza di un pronto intervento del 
legislatore in materia di corruzione nel settore privato. I crescenti fenomeni di 
privatizzazione, consistenti nel progressivo “spogliarsi”, da parte del potere pubblico, di 
gran parte delle attività economiche e del loro contestuale trasferimento ad enti privati, 
e l’evidenza del dato comparatistico
1
, che rileva come quasi tutti gli Stati europei 
incriminino la corruzione nel settore privato, hanno reso non più differibile un 
intervento del potere legislativo, chiamato a fronteggiare il fenomeno. 
Il tema fu affrontato in un noto saggio inerente la criminalità d’impresa, nel quale 
emerse la gravità con cui si avvertiva l’esigenza di introdurre, nell’ordinamento 
giuridico italiano, una fattispecie che potesse riprodurre “sul piano repressivo, una 
tipologia sociologica già abbondantemente delineata dall’esperienza, valorizzando 
soprattutto il ruolo sempre più marcato che assume, anche nella patologia della vita 
societaria, la figura dell’amministratore”.
2
 Si trattava di fronteggiare un fenomeno, 
quello corruttivo, originatosi nella realtà emipirico-fattuale, ispirandosi a serie esigenze 
di cautela sostanziale, separando rigidamente gli interessi patrimoniali dell’ente da 
quelli dell’amministratore, approntando, così, una efficace linea di tutela in vista del 
pericolo di inquinamento del processo di motivazione degli atti di gestione, che avrebbe 
comportato un sostanziale avvicinamento della figura dell’amministratore di società a 
                                                 
1
 Per un raffronto con le fattispecie di altri ordinamenti J. VOGEL, La tutela penale contro la corruzione 
nel settore privato: l’esperienza tedesca, in AA.VV., La corruzione tra privati: esperienze 
comparatistiche e prospettive di riforma (atti del convegno, Jesi, 12-13 aprile 2002), a cura di R. 
Acquaroli e L. Foffani, Giuffrè editore, Milano, 2003, p. 75 ss; M.P. LUCAS DE LEYSSAC, Il delitto di 
corruzione dei dipendenti in Francia, ibidem, p. 101 ss; A.N. MARTIN, La corruzione nel settore 
privato: riflessioni sull’ordinamento spagnolo alla luce del diritto comparato, ibidem, p. 111 ss; PETER 
TAK, Il reato di corruzione privata in Olanda, ibidem, p. 143 ss; ROBERT SULLIVAN, La risposta 
legislativa alla corruzione in Inghilterra, ibidem, p. 157ss. 
2
 MARINUCCI G. – ROMANO M., Tecniche normative nella repressione penale degli abusi degli 
amministratori di società per azioni, in AA.VV., Il diritto penale delle società commerciali, a cura di P. 
Nuvolone, Milano, 1971, p. 114.
5 
quella del soggetto agente della fattispecie inserita nel codice penale, riguardante i 
delitti contro la Pubblica Amministrazione
3
. Appare evidente come siffatto intervento 
sia auspicato nell’alveo dell’infedeltà dell’amministratore, il cui processo motivazionale 
verrebbe inquinato da un’ingerenza esterna che porterebbe inesorabilmente alla 
divaricazione più o meno netta tra l’interesse suo proprio e quello del complesso 
societario nel quale egli è chiamato ad operare, in ottemperanza agli obblighi previsti 
dallo statuto della società. Tuttavia, “l’abuso di potere non dovrebbe rappresentare la 
ratio dell’incriminazione, bensì solo il mezzo attraverso cui si realizza l’offesa al 
patrimonio (…). Tale offesa patrimoniale, su cui si incentrerebbe la fattispecie, 
dovrebbe tuttavia acquistare rilevanza soltanto con alcune limitazioni di ordine 
soggettivo: ciò che, per il collegamento <<istituzionale>> dell’amministratore 
all’ente, equivale a far affiorare in modo netto l’inconfondibile profilo dell’infedeltà”
4
. 
E’ chiaro, allora, come intanto il comportamento dell’amministratore assuma rilevanza 
penale, in quanto sia supportato da un “retrostante” dovere di fedeltà all’ente, che 
l’amministratore infrange perseguendo un interesse suo proprio o di altri, comunque 
estraneo alla logica delle operazioni societarie a cui egli risulta preposto. Lo strumento 
non può che essere quello della penalizzazione, diretta a responsabilizzare queste 
fondamentali figure dell’organigramma societario, garanti istituzionali degli enormi 
interessi in gioco in seno alle società. Sembra, quindi, che modelli alternativi di 
reazione al fenomeno possano affiancarsi, ma non sostituirsi allo strumento penale.  
Altra parte della dottrina, più recente, origina la propria riflessione dall’osservazione 
dell’analogo fenomeno nel campo dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, dal 
quale non dovrebbe potersi prescindere per realizzare un’esaustiva analisi della 
corruzione in ambito privato. Ci si chiede se le medesime istanze di tutela possano darsi 
in altri differenti contesti da quelli già noti al nostro legislatore. Se, più precisamente, “i 
reati di corruzione costituiscano realmente una nota specifica della tutela della 
Pubblica Amministrazione o se, al contrario, essi siano trasponibili in diversi ambiti”
5
.  
In molti casi si è tentato, con discutibili operazioni di “ortopedia giuridica”, di realizzare 
una dilatazione delle definizioni stipulative di “pubblico ufficiale” e di “incaricato di 
pubblico servizio”, al fine di rendere applicabili gli articoli del codice penale a soggetti 
sprovvisti di tali qualifiche, con conseguenti perplessità riguardanti il rispetto del 
                                                 
3
 Per un’analisi in parallelo delle due forme di corruzione vedi VINCIGUERRA G., Infedeltà a seguito di 
dazione o promessa di utilità, in AA.VV., Reati societari, a cura di A. Rossi, Torino, 2005, p. 447 ss. 
4
 MARINUCCI G. – ROMANO M., Ivi, p. 117. 
5
 SEMINARA S., Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, in Rivista italiana di diritto e procedura 
penale, 1993, p. 988.
6 
principio di legalità, minato da così disinvolte estensioni. Si tratta di episodi che 
constano di un allargamento in via interpretativa dell’ambito di operatività dello statuto 
penale della Pubblica Amministrazione, attraverso una lettura estensiva delle norme 
attributive delle suddette qualifiche
6
.  
Parallelamente alla constatazione dell’assenza di penetrante controllo da parte degli 
azionisti sulla gestione dell’impresa da parte degli amministratori, si rimarcava 
l’improcrastinabile esigenza di introdurre nel nostro ordinamento una tutela adeguata: 
“Si potrebbe dunque pensare all’opportunità di introdurre anche nel nostro 
ordinamento una fattispecie di infedeltà patrimoniale; tuttavia, solo che si guardi alle 
sue prospettazioni nelle diverse legislazioni europee, essa richiederebbe comunque la 
dimostrazione del danno (o della dolosa esposizione a pericolo) nei confronti del 
patrimonio del soggetto passivo. Donde la sua inadeguatezza ad evitare i pregiudizi 
economici conseguenti alla corruzione, essendo il più delle volte impossibile stabilire se 
la condotta tenuta dal soggetto <<corrotto>> sia produttiva di un reale nocumento 
patrimoniale per la società”
7
.  
Siffatta ricostruzione presentava l’indiscutibile pregio di evidenziare la contiguità tra 
una fattispecie di “infedeltà patrimoniale” e una di cosiddetta “infedeltà personale”, 
laddove la prima sarebbe volta a reprimere le condotte oggettivamente dannose o 
pericolose per il patrimonio del soggetto passivo, e la seconda, fondata sull’accettazione 
di indebite utilità per il compimento di atti conformi o contrari ai doveri dell’ufficio, 
nonché indifferente alla produzione di qualsivoglia danno o messa in pericolo di beni 
giuridici, orientata a reprimere il pericolo di pregiudizi economici per la società, 
colpendo ab origine la violazione del dovere comportamentale del soggetto agente, che 
accetti un indebito compenso. Entrambe entrerebbero a far parte di una tutela approntata 
a 360 gradi, nell’ottica di un medesimo continuum punitivo: anticipando l’una la 
punibilità al momento dello scambio corruttivo tra atto d’ufficio e utilità, e 
prescindendo da un evento dannoso o pericoloso, e differendola all’effettiva 
verificazione di un nocumento l’altra.  
Tale dottrina impostava con netto anticipo i termini di un dibattito, quello sulla 
progressione criminosa tra le due fattispecie, che circa dieci anni dopo, si sarebbe 
riproposto essenzialmente negli stessi termini. 
                                                 
6
 R. ACQUAROLI, L. FOFFANI, La corruzione tra privati: note introduttive sull’esperienza italiana, in 
AA.VV., La corruzione tra privati: esperienze comparatistiche e prospettive di riforma (atti del 
convegno, Jesi, 12-13 aprile 2002), a cura di R. Acquaroli e L. Foffani, Giuffrè editore, Milano, 2003. 
7
 SEMINARA S., Op. Cit.,  p. 990.
7 
Da quanto emerso, risulta che la corruzione può presentarsi solo come violazione di un 
dovere di fedeltà, inteso come “dovere principale di un rapporto in nome del quale il 
titolare è obbligato a curare l’interesse (o anche l’interesse) di altri, che viene a lui 
affidato, a preferenza del suo stesso interesse e quindi eventualmente anche con 
pregiudizio di questo
8
”. 
L’accettazione di indebite utilità per il compimento di atti può assumere, quindi, 
rilevanza penale o in funzione del pericolo che si concreta nell’abuso di fiducia, oppure 
avuto riguardo al danno cagionato alla credibilità dell’ente e al suo corretto 
funzionamento.  
Un ultimo contributo al dibattito concernente le risposte sanzionatorie al fenomeno della 
corruzione nel settore privato, si occupava del problema da una duplice angolazione, 
che tiene conto delle intersezioni tra il fenomeno dell’infedeltà gestoria e quello della 
corruzione: da un lato, infatti, si trattava di stabilire se, ed entro quali limiti, potesse 
qualificarsi condotta di amministrazione infedele la corresponsione di “tangenti” 
destinate a scopi di corruzione di pubblici funzionari. Dall’altro lato, però, andava presa 
in considerazione anche l’ipotesi inversa, ossia quella nella quale fosse un soggetto 
interno all’organizzazione d’impresa a figurare questa volta come precettore, anziché 
come datore, di una “tangente”
9
.   
Riguardo al primo profilo, il fenomeno confluirà nell’ambito dell’amministrazione 
infedele solo quando promani soggettivamente dall’interno di una struttura 
imprenditoriale societaria e coinvolga oggettivamente il patrimonio sociale. Resta 
escluso o, meglio, sussumibile nella sfera dello statuto penale della Pubblica 
Amministrazione,  il caso in cui un amministratore corrisponda la “tangente” attingendo 
al suo patrimonio personale e per scopi avulsi dal perseguimento dell’oggetto sociale. 
Nel diverso caso in cui, invece, l’illecita corresponsione si inserisca effettivamente nel 
quadro dell’attività di gestione sociale, si dovranno distinguere le ipotesi che rivelino 
una conflittualità sostanziale di interessi fra il soggetto e l’ente, con pregiudizio per il 
patrimonio di quest’ultimo, da quelle ipotesi nelle quali, invece, si sia agito 
esclusivamente nell’interesse della società.  
La fedeltà dovrebbe ritenersi non intaccata tutte le volte in cui la corresponsione della 
tangente appaia ex ante come un’operazione inquadrabile all’interno di una logica 
strettamente imprenditoriale (benché viziata da una patologia criminosa), come un 
                                                 
8
 Definizione di ZUCCALA’ G., L’infedeltà nel diritto penale, Padova, 1961, p.144. 
9
 FOFFANI L., Infedeltà patrimoniale e conflitto d’interessi nella gestione d’impresa (profili penalistici), 
Giuffrè editore, Milano, 1997, p. 576.
8 
mezzo effettivamente funzionale ed adeguato al conseguimento di un obiettivo 
pertinente all’oggetto sociale.  
Ad ogni modo, la soglia dell’infedeltà gestoria dovrà ritenersi varcata ogni volta in cui 
una determinata operazione tradisca l’incidenza di interessi estranei e configgenti con 
una logica d’impresa, dando luogo ad un impiego lesivo del patrimonio sociale. 
Il fenomeno, come accennato, può atteggiarsi anche sotto una diversa prospettiva: 
quella della percezione, anziché della corresponsione, di utilità indebite. 
E’ qui che emerge, in tutta la sua impellenza, l’esigenza di un intervento legislativo. Si 
sottolinea soprattutto come il bisogno di un intervento normativo ad hoc sia stato 
avvertito con grande intensità anche nell’ambito di sistemi penali nel panorama europeo 
che pure conoscono da tempo una fattispecie incriminatrice generale dell’infedeltà 
patrimoniale o dell’abuso dei poteri sociali.  
Proprio dall’osservazione del modello suggerito dal legislatore austriaco, tale dottrina 
propone l’introduzione nell’ordinamento italiano di una cosiddetta fattispecie 
avamposto dell’infedeltà patrimoniale: si tratterebbe di “orientare la fattispecie in senso 
chiaramente anticipatorio di una fattispecie base repressiva dell’amministrazione 
infedele”
10
.  
La coerenza di una simile impostazione andrebbe apprezzata anche sul piano del 
trattamento sanzionatorio delegato alle due fattispecie: più blando il trattamento 
previsto dalla prima (alla luce del fatto che si prescinde dalla causazione di un danno), 
più grave quello previsto dalla seconda. 
Ciò che, unitamente alla considerazioni sopra svolte, rende ancora più indifferibile 
l’introduzione di un’apposita fattispecie, è lo studio del nuovo quadro istituzionale che 
si va sempre più definendo, perché è evidente che con l’accelerazione impressa al 
processo di privatizzazione delle attività economiche, siano esse imprese o attività 
pubbliche di erogazione, si va, in prospettiva, verso una imponente dislocazione di 
interessi da tutelare (e quindi di strumenti di tutela, anche penale) dalla sfera propria 
della disciplina della Pubblica Amministrazione a quella della disciplina dell’economia.   
Emerge nettamente, così, l’impossibilità di fronteggiare adeguatamente il fenomeno 
finchè la lacuna normativa non risulterà colmata, senza, peraltro, poter prescindere da 
un ricorso allo strumento penale. Un ricorso eventualmente non esclusivo, armonizzato 
dalla contemporanea presenza di strumenti alternativi alla pena, e che non tradisca i 
principi di sussidiarietà e frammentarietà dell’intervento penale.  
                                                 
10
 FOFFANI L., Ivi, p. 587.
9 
Non bisogna dimenticare, per concludere, che “il diritto penale, al di fuori di ogni 
illusione, interviene a consolidare assetti già precostituiti da altri strumenti normativi 
ed a reprimere singoli atti della gestione d’impresa: non a garantire di per sé il 
raggiungimento dei fini dell’impresa o a produrre trasformazioni sul terreno 
dell’economia”
11
. 
 
2. LE PRESSIONI INTERNAZIONALI 
Nel paragrafo precedente si è evidenziato come il fenomeno corruttivo, originatosi nella 
realtà dei fatti, abbia creato delle spinte “dal basso” verso una sua cristallizzazione 
all’interno di strumenti normativi di diritto positivo, segnatamente penali, veicolate 
dagli articolati suggerimenti di un’avveduta dottrina. 
Bisogna, però, fare i conti anche con un diverso fenomeno, di più ampio respiro, 
consistente nella pressione degli organi internazionali che, con una cogenza che la 
dottrina non può vantare, pongono in capo agli Stati veri e propri obblighi di 
penalizzazione, spingendo “dall’alto” il legislatore italiano a rispondere adeguatamente 
al manifestarsi del fenomeno.  
La collaborazione internazionale viene ormai considerata come irrinunciabile per poter 
combattere la corruzione e per poter promuovere senso di responsabilità, trasparenza e 
legalità, soprattutto allorchè si tenga conto che “la dimensione transfrontaliera del 
fenomeno comporta diversi problemi, che rendono necessario un diritto penale della 
corruzione, per stabilire una comune soglia di punibilità a livello internazionale ed un 
procedere in maniera coordinata dell’intera comunità internazionale”
12
. 
In tale direzione, sono state numerose le sollecitazioni indirizzate ai legislatori nazionali 
per introdurre misure sanzionatorie sufficientemente dissuasive delle condotte di 
corruzione nel settore economico, in aggiunta a quelle già presenti nel tradizionale 
contesto dei pubblici agenti
13
.  
Si tratta, in particolare, dell’Azione comune del 22 dicembre 1998, adottata dal 
Consiglio d’Europa sulla base dell’art. K.3 (attuale articolo 31) del Trattato sull’ Unione 
                                                 
11
 BRICOLA F., Lo statuto penale dell’impresa: profili costituzionali, in Trattato di diritto penale 
dell’impresa, a cura di A. Di Amato, Vol. I, Padova, 1990, p. 153. 
12
 HUBER B., La lotta alla corruzione in prospettiva sovranazionale, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2001, 
p. 469. 
13
 Così BELLACOSA M., Obblighi di fedeltà dell’amministratore di società e responsabilità penali, 
Giuffrè editore, Milano, 2006. Nella stessa scia MACCARI A.L., Art. 2635 c.c., in AA.VV., I nuovi 
illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commerciali, a cura di F. Giunta, Giappichelli, 
Torino, 2002.