Introduzione
Vi è qualcosa di grandioso in questa 
concezione  della vita, con le sue molte  
capacità, che inizialmente fu data a poche 
forme, o ad una sola e che, mentre il pianeta 
seguita a girare secondo la legge immutabile  
della gravità, si è evoluta e si evolve,  
partendo da inizi così semplici, fino a creare 
infinite forme estremamente belle e  
meravigliose.
Charles Darwin
Con queste parole si conclude “L'origine delle specie”, il 
libro a carattere scientifico che più ha cambiato il mondo 
negli  ultimi  due secoli,  consegnandoci  una straordinaria 
possibilità; quella di pensare l'origine della nostra specie 
con gli strumenti della scienza, in termini esclusivamente 
naturali, senza dover far necessariamente ricorso a cause 
trascendenti o finalistiche.
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Si  è  concluso  da  poco  l'anno  del  bicentenario  della 
nascita di Charles Darwin e del centocinquantesimo anno 
dalla  pubblicazione dell'Origine delle  specie,  ma ancora 
oggi la teoria dell'evoluzione fa fatica ad essere accettata 
da  un  gran  numero  di  persone  e  istituzioni.  Molti  non 
riescono a pensare che la nostra specie sia il risultato di 
un'innovazione storica nella famiglia dei primati, il frutto 
di un evoluzione biologica non trascendente. I fautori del 
creazionismo  e  del  nuovo  creazionismo,  la  teoria  del 
Disegno Intelligente  (Intelligent Design),  non riescono a 
rinunciare  all'idea  che  la  perfezione  e  l'armonia  della 
natura siano la prova di un progetto divino e quindi di un 
sommo progettista dalla mente superiore che tutto abbia 
creato e previsto.
L'intento di questa tesi però non è quello di dimostrare 
l'inesistenza di Dio, ma di analizzare scientificamente un 
settore,  quello della  religione e delle  credenze religiose, 
che  per  secoli  è  stato  il  terreno  esclusivo  di  approcci 
culturalisti forti, con la convinzione che la religione sia un 
fenomeno dovuto unicamente a fattori culturali. 
L'idea che si propone è,  al contrario,  che le credenze 
religiose abbiano delle radici evolutive e poggino su basi 
biologiche e cognitive. 
La  domanda  che  ci  poniamo  non  è  se  Dio  esiste  o 
meno,  ma,  invece,  perché  crediamo,  quando  e  come 
abbiamo  iniziato  a  farlo,  e  perché  le  pratiche  religiose 
sono  state  e  sono  ancora  così  pervasive  tra  gli  esseri 
umani. In pratica, in termini evolutivi come si giustifica il 
fatto che gli esseri umani possiedano credenze religiose e 
più in generale sovrannaturali?
L'idea  di  base  è  quella  di  applicare  un  metodo 
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scientifico  all'analisi  delle  credenze  religiose,  tenendo 
fermi  due  punti  fondamentali:  la  svolta  delle  Scienze 
Cognitive e la Teoria dell'evoluzione di Charles Darwin. 
La tesi che proponiamo non è che le idee religiose siano 
dovute  ad un “sonno della  ragione”,  un'interruzione del 
nostro  ragionamento,  come  sostengono  invece  alcuni 
scienziati, non ultimo il professor Umberto Veronesi che, 
in una recente intervista,  ha dichiarato che “la religione 
impedisce di ragionare”.
Al contrario, sosteniamo che le credenze religiose siano 
il risultato naturale di un iper-utilizzazione delle normali 
facoltà  cognitive  della  nostra  mente  e  che  quindi  il 
pensiero religioso non sia un pensiero alternativo a quello 
normale, ma, paradossalmente, un pensiero iper-normale.
Per  far  questo,  nel  primo  capitolo,  si  dimostrerà 
l'inadeguatezza  delle  tesi  classiche  che  descrivono  la 
mente  come  una  scatola  vuota,  tabula  rasa,  che  viene 
riempita, modellata e costruita  unicamente con la cultura. 
Non  è  così.  Come  dice  Chomsky,  “lo  stimolo  è 
povero”, cioè non bastano gli stimoli esterni culturali per 
dar  conto  del  mentale;  l'apprendimento  non  funziona, 
come vorrebbero i comportamentisti, secondo un semplice 
meccanismo stimolo-risposta guidato dai fattori esterni. 
La tesi di Chomsky è che la nostra mente deve essere 
nè povera, né unitaria, ma ricca di determinazioni interne 
innate; un insieme di sottosistemi specifici per dominio. 
Fodor  sistematizzerà  poi  questa  intuizione  e  chiamerà 
“moduli” questi organi mentali.
La prospettiva Chomskiana è sicuramente un punto di 
partenza  imprescindibile,  ma,  in  una  prospettiva 
fortemente evoluzionistica, va superata. 
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Chomsky,  assolutamente  anti-darwinista,  infatti 
teorizza  una  “differenza  qualitativa”  e  una  “specialità” 
degli esseri umani rispetto agli altri animali, individuando 
questa  differenza  nella  nostra  peculiarità  di  avere  un 
linguaggio.  Questa  capacità  ci  fa  essere  “speciali”, 
superiori rispetto agli altri animali, ovvero tra noi e loro 
non  ci  sarebbe  continuità,  ma  un  vero  e  proprio  salto 
cognitivo.
La nostra tesi di partenza invece è che l'essere umano 
non sia speciale, ma specie-specifico, in una rapporto di 
continuità con gli altri animali.
Utilizzeremo quindi in questa trattazione la prospettiva 
della  psicologia  evoluzionistica  con  l'ipotesi  della 
modularità  massiva  di  Sperber.  La  mente  sarebbe  in 
questo senso formata interamente da migliaia di  moduli 
cognitivi  specifici  per  dominio  e  selezionati  nel  corso 
dell'evoluzione naturale.
Nel  secondo  capitolo  ci  chiederemo  se  una  tale 
architettura della mente sia veramente compatibile con la 
teoria  evolutiva  esaminando  anche  le  critiche  che  sono 
state rivolte a queste ipotesi.
Dopo aver delineato per sommi capi le basi della teoria 
di  Darwin,  prenderemo in esame il  pensiero di  Richard 
Dawkins in merito alla diffusione delle credenze religiose 
con  la  teoria  dei  “memi”,  ovvero  unità  di  diffusione 
culturale analoghe ai geni. Esamineremo inoltre la risposta 
alla  memetica  che  Sperber  propone  nella  sua  teoria 
epidemiologica delle rappresentazioni culturali.
Infine  descriveremo  il  fondamentale  concetto  di 
exaptation  introdotto  da  Stephen  Jay  Gould  per 
sottolineare che non tutte le strutture di un organismo sono 
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frutto  di  adattamenti  biologici  diretti,  ma  potrebbero 
essere  tratti  non  adattivi  oppure  adattamenti  secondari, 
cioè  cooptazioni  funzionali  di  strutture  selezionate  per 
scopi differenti.
L'idea  di  base  della  tesi  è  che  questo  concetto  di 
exaptation può  rappresentare  il  punto  di  partenza  per 
comprendere l'origine evolutiva delle credenze religiose.
Nel terzo capitolo infatti, grazie all'aiuto di alcuni studi 
nell'ambito dell'Antropologia Cognitiva,  della  Psicologia 
dello  Sviluppo  e  della  Psicologia  evoluzionistica 
dimostreremo  che  le  credenze  religiose  non  sono  il 
risultato di un adattamento biologico diretto, ovvero non 
sono state state selezionate nel tempo per i vantaggi che 
portano alla sopravvivenza e alla riproduzione. 
Viceversa, esse sarebbero il risultato di un exattamento, 
del cambio di funzione, di alcune nostre capacità cognitive 
innate, quali il riconoscimento di agenti intenzionali e la 
distinzione tra entità fisiche ed entità animate. Posto che 
l'attività mentale è il risultato di processi bio-chimici che 
si svolgono nel cervello,  le credenze religiose sarebbero 
insomma il risultato del modo in cui il nostro cervello è 
stato “assemblato” dalla selezione  naturale.
In  definitiva  cercheremo  dimostrare  come  gli  esseri 
umani siano bio-cognitivamente portati ad avere credenze 
religiose e, citando Richard Dawkins, come essi sembrino 
specificamente  progettati  per  fraintendere  la  teoria  di 
Darwin.
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I Natura e cultura
1.1 L'ipotesi classica: il primato dei fattori 
esterni
Il  secolo scorso è stato  dominato da  quello  che è stato 
definito il “modello standard delle scienze umane”, ossia 
il pensare che la mente sia costruita, plasmata unicamente 
dai fatti culturali, dai fattori esterni all'individuo.  
La natura umana, al contrario, non può essere  definita 
soltanto  come  il  prodotto  della  cultura  o,  al  contrario, 
soltanto  come  prodotto  della  biologia,  ma  deve  essere 
considerata  in  una  concezione  integrata  e  unitaria  tra 
fattori biologici e culturali. Questa operazione può essere 
compiuta pensando la mente umana non come tabula rasa 
su  cui  iscrivere  qualsiasi  informazione  tramite 
l'apprendimento di fatti culturali, ma come sistema ricco 
di determinazioni  interne, innate ed adattive.
Per questo motivo prenderemo prima in considerazione 
le  teorie  classiche  dell'Antropologia  Culturale  e 
Interpretativa per poi enunciare, di seguito, la teoria della 
Modularità  della  mente  di  Jerry  Fodor,  che  poi  sarà 
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ampliata e ripresa da Dan Sperber per descrivere l'ipotesi 
della cosiddetta “Modularità massiva”.
Clifford  Geertz1,  nel  suo  famoso  saggio  intitolato 
“Interpretazione  di  Culture”  (Geertz,  1973)  criticò  la 
concezione illuministica secondo la quale l'essere umano 
sarebbe immerso nella natura e ne condividerebbe tutte le 
caratteristiche,  compresa  la  sua  “uniformità  generale  di 
composizione”.  La  natura  umana,  nell'ottica  illuminista, 
viene quindi descritta come immutabile e universalmente 
governata  da  leggi  naturali.  I  tempi,  i  luoghi,  gli  attori 
cambiano ma tutto deriva da un'uniformità di partenza.
Il  problema,  sostiene  Geertz,  è  che  questa  visione 
comporta delle implicazioni inaccettabili  ovvero il  fatto, 
ad  esempio,  che  tutto  ciò  che  riguarda  la  varietà  delle 
differenze tra gli esseri umani nelle credenze, nei valori, 
nelle  istituzioni,  nel  tempo  e  nello  spazio,  sarebbe 
assolutamente  inutile  ai  fini  della  comprensione  della 
natura umana. Tutto ciò che interessa per la definizione di 
umanità  sono  le  costanti,  il  generale,  in  definitiva 
l'universale. 
L'antropologia  culturale  moderna  nasce  proprio 
criticando  questa  immagine  dell'essere  umano  che  gli 
antropologi  di  età  vittoriana  avevano  proposto,  guidati 
dalle tesi evoluzionistiche e dal mito del progresso.
Secondo  Geertz  pensare  una  natura  umana  costante, 
indipendente da tempo e luogo, dagli studi, dalle mode è 
pura  illusione  poiché  l'essere  umano  è  intrinsecamente 
1 Clifford Geertz (1926-2006), antropologo statunitense, è il padre della 
cosiddetta Teoria Interpretativa della cultura. È importante anche la sua 
definizione, in merito all'analisi etnografica, di descrizione densa (thick 
description).
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immerso nel luogo e nel tempo in cui vive, in pratica nella 
sua cultura locale. Ecco che quindi, in contrasto con la tesi 
universalista-illuminista, nasce l'antropologia moderna che 
sostiene, per usare le parole di Geertz, che “uomini non 
modificati dalle usanze di luoghi particolari non esistono” 
(Geertz, 1973).
Riassumendo,
all'immagine settecentesca dell'uomo come puro ragionatore che 
appariva  quando  si  spogliava  dei  suoi  costumi  culturali, 
l'antropologia  del  tardo  Ottocento  e  del  primo  Novecento  sostituì 
l'immagine dell'uomo come un animale trasfigurato che veniva alla 
luce solo quando indossava i  suoi  costumi.  (Geertz,  1973,  trad.  it 
p.80)
Il  concetto di  umanità quindi deve tenere conto della 
variabilità  delle  culture  senza  però  scordare  la 
“fondamentale  unità  del  genere  umano”;   perché, 
ovviamente,  se  non  si  pensasse  più  agli  universali  che 
uniscono gli esseri umani, all'umano ricercato dietro le sue 
particolarità  e  le  sue  culture  locali,  si  potrebbe  andare 
contro, viceversa, ad un relativismo e ad uno storicismo 
altrettanto inaccettabili.  E anche questa è stata una delle 
motivazioni,  e  cioè  appunto  la  paura  di  ricadere  nello 
storicismo e nel relativismo culturale, che ha spinto molti 
antropologi a ricercare gli universali nella cultura. 
Franz Boas2 (1858 – 1942), uno dei maggiori esponenti 
del  relativismo  culturale,  ha  evidenziato  che  il  tratto 
distintivo  e  caratteristico  degli  esseri  umani  è 
rappresentato dalle  differenze e  non dalle  cose  che essi 
hanno in comune.
2 Boas F. (1896), I limiti del metodo comparativo in Antropologia
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Una volta accettata l'idea di un essere umano immerso 
nelle sue usanze,  nella  sua cultura locale,  tutte le teorie 
antropologiche  moderne  hanno  convenuto  su  una 
“concezione stratigrafica dei rapporti tra fattori biologici, 
psicologici, sociali e culturali della vita umana” (Geertz, 
1973).
L'essere umano quindi viene visto come composto di 
livelli, “un animale gerarchicamente stratificato nella cui 
definizione ogni livello – organico, psicologico, sociale e 
culturale – aveva un posto assegnato ed inconfondibile”. 
Con la conseguenza, secondo i fautori di questa tesi, che 
prima  o  poi  si  sarebbe  riconosciuta  l'importanza 
fondamentale  e  primaria  del  livello  culturale,  l'ultimo 
della  catena,  l'unico  specifico  dell'umanità  e  l'unico  in 
grado di dirci qualcosa della natura umana.
Geertz  sostiene  che  non  possono  essere  fatte 
generalizzazioni sull'essere umano; si può dire solamente 
che  egli  è  un  animale  vario  e  differente  a  seconda  dei 
tempi e dei luoghi. 
Se  vogliamo  scoprire  in  cose  consiste  l'umanità,  possiamo 
trovarlo  solo  in  ciò  che  gli  uomini  sono:  essi  sono  soprattutto 
differenti. (Geertz, 1973, rad. it. p.96)
Non  si  possono  cercare  gli  universali  nella  cultura 
perché  semplicemente  non  esistono;  anche  concetti  che 
sembrano  universali,  come  la  religione,  non  sono 
definibili in modo generale perché, nel caso specifico, il 
concetto stesso di religione cambia a seconda delle singole 
culture.
Bisogna  abbandonare  l'idea  che  l'essenza  di  ciò  che 
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