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Introduzione. Coscienza: l’ultimo mistero? 
Durante il susseguirsi dei secoli l'uomo, con il suo ingegno e la sua curiosità, è 
riuscito a scoprire molti dei misteri celati da Madre Natura. Con il lume della 
sua ragione ha dissolto i veli d'ignoranza e superstizione che coprivano le vere 
strutture del mondo e di sé stesso. In questo modo fenomeni apparentemente 
guidati da entità trascendenti l'umana comprensione si sono rilevati invece 
comprensibili e sottoposti, come ogni cosa in questo mondo, a leggi indagabili 
dalle scienze naturali. Calamità naturali, come uragani e terremoti, smisero di 
essere la concretizzazione dell'ira di deità terrifiche e processi biologici del 
corpo umano smisero di essere considerati intrinsecamente misteriosi o 
miracolosi, come la digestione o la riproduzione. Per uno strano paradosso 
l'unico campo dove sembrano non valere le leggi della fisica e che trascende la 
comprensione da parte del pensiero umano sembra essere il pensiero umano 
stesso. Il nostro senso comune, la psicologia ingenua con la quale ogni giorno 
descriviamo la nostra vita mentale, spieghiamo il nostro comportamento, 
interpretiamo quello altrui,si compone di entità quali credenze, timori, desideri, 
pensieri, ecc. distinti in modo manicheo dagli enti fisici del mondo esterno 
dove si possono trovare sedie, alberi, vulcani, ecc. I secondi sottostano alle 
leggi della fisica, ma non i primi: un pensiero non ha né massa né estensione, 
non può essere analizzato al microscopio né altrimenti.  
La caratteristica principale che distingue i termini fisici da quelli del mentale è 
l’intenzionalità, intesa non nel senso comune cioè come il caratterizzante dell’ 
“agire di proposito” ma in senso tecnico- filosofico ovvero la proprietà degli
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stati mentali (e solo di questi) di avere un contenuto, di riferirsi a un oggetto 
reale ma anche immaginario (posso benissimo desiderare un’astronave o 
temere un licantropo). Tale questione, sebbene considerata da Platone ed 
Aristotele, vede la luce nei “secoli bui” con gli scolastici medievali che 
coniarono il termine equiparando il riferimento degli stati mentali all’atto di 
puntare un bersaglio con una freccia (intendere arcum). In epoca moderna 
questo concetto torna in auge con Franz Brentano che nella sua opera “la 
psicologia dal punto di vista empirico” del 1874 scrisse  
 
“Ogni fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che gli scolastici del medioevo 
chiamavano l’ in-esistenza intenzionale (o mentale) di un oggetto, e che noi, 
anche se in modo non del tutto privo di ambiguità, definiamo il rapporto con il 
contenuto, la tensione dell’oggetto (che non va inteso come realtà), oppure, 
infine, l’oggettività immanente. […] Nessun fenomeno fisico mostra qualcosa 
di simile. Di conseguenza possiamo definire fenomeni psichici quei fenomeni 
che contengono intenzionalmente in sé un oggetto”. (Brentano 1874, trad. it. 
1989 p.175) 
 
Anche se sono indubbie le funzioni pratiche di tale psicologia ingenua e 
intenzionale non per questo non solleva dei problemi teoretici notevoli. 
Innanzitutto un problema ontologico: sembrerebbe esserci un abisso 
incolmabile tra la nostra mente e i suoi pensieri intenzionali e il nostro corpo e 
i suoi organi, anche con quello che sappiamo influisce di più sulla nostra vita 
mentale: il cervello. Disfunzioni celebrali causate da sostanze chimiche, traumi 
o malattie hanno ricadute immediate sulla qualità della nostra vita mentale. 
Tuttavia, anche se è ragionevole supporre una loro interazione, mente e
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cervello sembrano essere ontologicamente diversi. Della prima abbiamo una 
conoscenza diretta e immediata, anzi nessun altro a parte noi potrebbe 
conoscere in questa maniera perfetta i pensieri e le sensazioni da noi esperite. 
Conosciamo il cervello, invece, come qualsiasi altro organo del nostro corpo: 
in maniera indiretta e tramite l'ausilio di speciali apparecchiature e di specialisti 
in grado di utilizzarle, senza i quali saremmo totalmente all'oscuro dei nostri 
inconsci processi celebrali. Un esperimento mentale proposto da Leibniz 
sottolinea tale questione:  
 
"Immaginiamo una macchina strutturata in modo tale che si capace di pensare, 
di sentire, di avere percezioni; supponiamola ora ingrandita, con le stesse 
proporzioni, in modo che vi si possa entrare come in un mulino. Fatto ciò, 
visitando la macchina al suo interno, troveremo sempre e soltanto pezzi che si 
spingono a vicenda, ma nulla che sia in grado di spiegare una percezione". 
(Leibniz 1720, trad. it. 1995 p. 65) 
 
 Riportando il discorso in termini moderni: possiamo conoscere in maniera 
sempre migliore le varie strutture del cervello e i suoi elementi come i neuroni, 
le sinapsi, ecc. ma non riusciremmo mai a vedere una credenza o un pensiero! 
Parecchio tempo dopo le riflessioni del filosofo di Lipsia, fa la comparsa un 
manufatto con funzioni apparentemente esclusive di una mente umana. A 
differenza di altri strumenti che si limitano ad ampliare facoltà sensoriali o 
motorie umane, è in grado di elaborare stimoli esterni e di memorizzarli e se 
opportunamente istruito può svolgere in pochi secondi compiti che 
richiederebbero molto più tempo per un essere umano: il computer.
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Col progredire dell'informatica sorse una nuova disciplina nota come 
"intelligenza artificiale" sostanzialmente animata, a prescindere dalle varie 
ramificazioni, dalla volontà di rispondere alla domanda "può un computer, 
opportunamente progettato, pensare?"  Nel 1950 sulla rivista "Mind" compare  
un articolo del noto informatico inglese Alan Turing intitolato "Computing 
Machinery and intelligence" dove cerca di rispoendere a questa domanda 
(Turing, 1950, trad it. in Dennett e Hofstadter 1985 pp. 61-64).  L'autore 
propone un gioco d'imitazione, successivamente noto come Test di Turing. 
Siamo in grado di determinare se un essere umano è in grado di pensare in base 
al suo comportamento e su ciò che è in grado di fare. Immaginiamoci, propone 
Turing, due stanze separate, all'interno di una si trova un essere umano, 
nell'altra un computer. Un osservatore esterno può interrogarli tramite un 
telefax su svariati argomenti. Se l'osservatore esterno non riuscisse a 
distinguere chi dei due è il computer allora quest'ultimo è progettato in modo 
tale da poter riprodurre il pensiero umano. 
Nella filosofia della mente, intorno agli anni settanta, si afferma la teoria del 
funzionalismo, proposta per la prima volta da Hilary Putnam (Putnam 1975, 
trad.it 1987), secondo la quale, generalmente, tra mente e corpo intercorre una 
relazione simile a quella tra le componenti materiali di un computer (hardware) 
e i suoi dati e programmi (software). In questo modo è molto più semplice 
descrive un sistema complesso come una mente umana ricorrendo a 
sottosistemi funzionali (linguaggio, memoria, percezione...) individuabili in 
base al loro ruolo svolto piuttosto che soffermarsi sulla componente materiale 
dove tali funzioni sono realizzate. Secondo il principio funzionalista di 
"realizzabilità multipla" una proprietà mentale può essere realizzata da diverse 
proprietà fisiche, dunque, sebbene un sostrato materiale sia necessario per
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implementare le varie funzioni diventa superfluo nella loro descrizione, poiché 
possono essere realizzate con materiali diversi: un cuore, ad esempio, è definito 
tale in base a ciò che è in grado di fare indifferentemente se appartenga a un 
essere umano, a una lucertola o a uno struzzo o se sia composto da fibre 
organiche o artificiali. Così per rendere conto del funzionamento della mente la 
neurologia è superflua, come la metallurgia in economia sebbene le monete 
siano metalliche (Putnam 1975, trad it. 1987 pp. 422-423). 
Contro il funzionalismo sono stati proposti due esperimenti mentali, 
curiosamente entrambi con riferimento alla Cina. Il primo è di John Searle è 
chiamato la "Stanza cinese" e si ispira implicitamente al test di Turing. (Searl 
1980, trad.it. in Dennett e Hofdstadter 1985, pp. 65-66) Immaginiamo una 
persona parlante cinese che voglia comunicare con un’altra chiusa in una 
stanza isolata. Attraverso una fessura il cinese infila dei fogli con delle 
domande e l'interlocutore passa un foglio con le risposte. Ma dentro la stanza 
non si trova un madrelingua cinese! Per formulare le risposte questa persona ha 
a disposizione registri pieni di ideogrammi cinesi con le relative istruzioni per 
manipolare tali simboli. La conclusione di Searle è chiara: solo della persona al 
di fuori della stanza si può dire che parli cinese. Non si può far derivare la 
semantica dalla mera sintassi, i computer non possono essere paragonati alle 
menti per quanto siano in grado di simulare l'intelligenza umana in quanto solo 
queste ultime sono dotate di un'intenzionalità intrinseca e originaria, conclude 
Searle. 
Ma allora da dove deriva il significato dei nostri stati mentali interni e privati? 
Se la conoscenza di ogni aspetto della nostra vita mentale sembra assoluta, non 
così è per la sua comunicabilità. Nel riferire, ad esempio, un nostro stato 
doloroso sembra che sia escluso dalla nostra descrizione un elemento di non
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poco conto: cosa proviamo ad aver quel particolare dolore. Il modo in cui le 
cose appaiono a noi, quello che in gergo filosofico si chiamano qualia, non 
possono essere descritti in una prospettiva della terza persona, quella della 
scienza, sostengono alcuni. In un articolo divenuto celebre, Thomas Nagel 
osserva che sebbene conosciamo alla perfezione il semplice sistema nervoso 
dei chirotteri non per questo sappiamo cosa si prova ad essere un pipistrello 
(Nagel 1974, trad it. in Dennett e Hofstadter 1985, pp. 379-391). Correlato alla 
questione dei qualia è un esperimento mentale di Ned Block dal sapore 
leibniziano detto la "nazione cinese" (Block 1978, pp. 276-278). 
Se, come sostengono i funzionalisti, gli eventi mentali sono funzioni svolte in 
modo del tutto inconscio e meccanico da un insieme altamente complesso di 
neuroni e se, per l'ipotesi funzionalista della realizzabilità multipla, tali 
funzioni possono essere eseguite da qualsiasi macchina a prescindere dal 
materiale con la quale è costruita purché in grado di riprodurre l'organizzazione 
neuronale, allora se ogni abitante della Cina eseguisse le medesime procedure 
svolte dai neuroni, insieme potrebbero far emergere uno o più stati mentali. Se 
il funzionalismo fosse vero, argomenta Block, allora la popolazione della 
Repubblica Popolare asiatica nel suo complesso sarebbe in grado di simulare 
una mente, potrebbe svolgere alcune sue funzioni e cosa più importante 
avrebbe coscienza di sé e proverebbe qualcosa a essere se stessa, il che è 
assurdo! Più recentemente Block (Block 1995) inoltre distingue tra due tipi di 
coscienza diversi: la coscienza d’accesso e la coscienza fenomenica. La 
coscienza d’ accesso è quella condizione di attenzione che informa sulle 
condizioni del cervello o del corpo, la coscienza fenomenica invece è 
l’esperienza soggettiva nell’avere un certo stato mentale come un dolore, una 
sensazione o un desiderio. Se si confondono queste due accezione diverse del
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termine, argomenta Block, ci si può illudere di riuscire a spiegare l’esperienza 
soggettiva (la coscienza fenomenica) se si è grado di descrivere, utilizzando il 
modello funzionalista del computer o altri, il modo in cui il cervello elabora 
l’informazione (la coscienza d’ accesso). Ci si illude in quanto, continua 
l’argomentazione di Block, esistono dei casi nei quali l’accesso ai nostri stati 
mentali è totalmente inconscio, come nelle persone affette da blindsight  o 
“visione cieca”. Un danneggiamento all’area cerebrale deputata 
all’elaborazione visiva può creare delle “zone buie” nel campo visivo. Gli 
oggetti che ricadono in queste “zone buie” sono invisibili dalla persona affetta 
da blindsight, tuttavia questa è in grado, ad esempio, di “indovinare” la forma e 
il colore di tali oggetti. Evidentemente, il cervello elabora l’esperienza visiva in 
maniera inconscia, ovvero, nei termini di Block, si ha coscienza d’accesso 
senza coscienza fenomenica. L'attacco al funzionalismo è chiaro, secondo 
questi autori, la mente non può essere solo un insieme di leibnizani "pezzi che 
si muovono a vicenda" anche se il risultato sembra costituire un processo 
unitario: non si prova nulla a essere la Cina né tantomeno un computer, si 
prova qualcosa, e chiunque lo sa bene, a essere sé stessi. Ma se quel ”sé stessi" 
non sembra essere riconducibile a qualcosa di fisico dove bisogna andare a 
cercarlo?  
Alla crisi del paradigma funzionalista classico e della sua equazione 
mente/cervello = software/hardware, ha dato un contributo decisivo il recente 
svilupparsi dell'indagine neurologica in concomitanza alla scoperta di tecniche 
in grado di studiare l'attività cerebrale senza alterarla e in maniera non invasiva, 
1
 gettando nuova luce sul funzionamento effettivo del cervello quando è 
impiegato nelle sue attività cognitive, in quanto tali ricerche dimostrano 
                                                 
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 Come la risonanza magnetica funzionale (fMRI), la tomografia a emissione di positroni 
(PET), l' elettroencefalografia (EEG) e la magnetoencefalografia (MEG).
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innanzitutto la centralità della struttura del cervello per rendere conto del suo 
funzionamento e, soprattutto, che tale struttura e indubbiamente parallela, in 
grado di svolgere un enorme numero di operazioni simultaneamente. 
Quest’ultimo punto rende insostenibile la metafora proposta dal funzionalismo 
classico poiché i computer a differenza dei cervelli operano in maniera seriale, 
eseguendo solamente un’operazione alla volta. 
Ma chi spera di trovare delle risposte alla domanda su dove si trovi l'”io” non 
può che restare deluso: le ricerche neurologiche non rilevano nessun luogo 
dove l'informazione viene elaborata, non c'è nessun "io" unitario quanto 
piuttosto una "società della mente" (per usare un'espressione di Marvin Minsky) 
dove questo "io" non è altro che illusione cognitiva, prodotta dalle 
innumerevoli ma concertate attività cerebrali (Minsky 1988, trad it. 1989). 
In questo quadro sembrerebbero emergere delle derive immorali e scandalose 
dalla concezione materialistica della mente. Schiacciato da un desolante 
determinismo il libero arbitrio sembra dissolversi e con esso qualsiasi 
possibilità di dare un fondamento alla morale. 
Questa breve introduzione illustra le "litigiosae questiones" che gli autori 
trattati nelle pagine seguenti, Daniel Dennett e i coniugi Churchland, devono 
affrontare per poter realizzare una teoria della mente in grado di rendere conto 
sia della visione scientifica del mondo e sia delle ricadute sul piano pratico e 
morale di questa.  
Esporrò le loro idee a riguardo, in che modo questi autori procedono nella 
naturalizzazione della coscienza e dell’Io e le loro critiche reciproche 
chiedendomi infine se effettivamente spiegano la coscienza umana e questioni 
annesse e connesse o se le loro tesi sono solamente "cambiali filosofiche" 
pagabili solo quando, e solo se, la neuroscienza avrà scoperto tutto quello che
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c'è da scoprire su questo fenomeno. Mi chiederò inoltre se, qualora ciò dovesse 
verificarsi, rappresenterebbe veramente una rivoluzione nella nostra auto-
comprensione. 
 
 
 
Naturalizzazione della coscienza e del “sé” 
in Daniel C. Dennett 
 
 
Introduzione  
 
Daniel Clement Dennett (Boston, 1942) è un filosofo americano nonché 
professore di filosofia alla Tufts University e co-direttore del Center for 
cognitive studies. L'obiettivo principale del suo filosofare e di conciliare una 
spiegazione scientifica dei fenomeni mentali con le descrizioni degli stessi fatte 
dalla psicologia popolare del senso comune, strumento indispensabile nella 
nostra vita ordinaria. Inoltre, il pensiero di Dennett rappresenta un punto di 
svolta nel processo che ha portato molti filosofi della mente (soprattutto nel 
mondo anglosassone) a interessarsi non più solamente a un'analisi meramente 
concettuale della questione ma a guardare anche ai nuovi apporti provenienti 
dall' intelligenza artificiale e dalla neuroscienza. Per quanto riguarda le sue 
maggiori influenze è significativa la seguente battuta dello stesso Dennett:
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"Che cosa ottieni se incroci un Ryle con un Quine? Un Dennett, 
evidentemente."  (Dennett 1998, p. 365).  
Specie nelle prime opere, ma non solo, Dennett non smette di porre l’accento 
sull'importanza che ha avuto per lui il filosofo di Oxford di cui fu allievo nel 
1965. Nella sua opera più famosa del 1949 "Il concetto di mente", Ryle 
appresta una serrata critica a ciò che lui chiama la "dottrina ufficiale": il 
dualismo cartesiano con la sua netta separazione tra pensiero e materia e la 
conseguente divisione nettissima tra il corpo soggetto a leggi meccaniche e la 
mente costituita da una sostanza non fisica, concezione chiamata, "con 
deliberata insolenza" da Ryle "Dogma dello spettro nella macchina", (Ryle 
1949, trad. it. 2007, p. 11) incapace di spiegare la relazioni tra i due. La vera 
questione per Ryle non è se la materia deve essere ridotta al mentale come 
vogliono gli idealisti o la mente alla materia come sostengono i materialisti 
giacché sia l'ipotesi parameccanica sia quella meccanica sul rapporto mente-
corpo si fondano su di un medesimo errore, chiamato da Ryle "errore 
categoriale". Per chiarire in cosa consista Ryle propone un esempio: uno 
studente straniero visita l'università di Oxford e dopo aver visto la mensa, gli 
alloggi, le aule e tutte le sedi delle facoltà e dei colleges del campus chiede 
dove si trova l'università credendola, erroneamente, un edificio tra gli altri e 
non l'insieme organizzato di tutto ciò che ha già visto. L'errore consiste 
nell'assegnare all'università oxfordiense la medesima categoria dei vari edifici 
di cui è composta (Ryle 1949, trad. it. 2007, p. 11). Errore riproposto dal 
dualismo cartesiano quando indica negli eventi mentali le cause, "spettrali" e 
"parameccaniche", del comportamento, nello stesso modo in cui eventi fisici 
sono causati dall'azione di forze fisiche su enti fisici. Le cose non stanno per 
niente così per Ryle e per accorgersene basta analizzare il comportamento e i
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termini del linguaggio ordinario usati per descriverlo. Secondo le indicazioni di 
Ryle se vedessimo, potremmo ipotizzare, uno studente in procinto di affrontare 
un importante e difficile esame agitarsi respirando affannosamente e ci fosse 
chiesto il motivo di tale comportamento, supporremo risieda nella sua angoscia, 
non intesa come un'entità misteriosa e spettrale che dalla mente impenetrabile e 
inaccessibile (se non dallo studente stesso) causa in un modo ignoto agitazione 
e affanno, bensì più semplicemente la disposizione, date le circostanze, a 
comportarsi in quel modo. Dunque, per Ryle, i termini che compongono il 
linguaggio psicologico non si riferiscono ad eventi interni e causali, bensì a 
disposizioni del comportamento. 
L'approccio di Ryle resta sul piano formale e astratto dell'analisi del linguaggio 
ordinario ed è totalmente indifferente a ciò che la scienza potrebbe dirci sulle 
varie tematiche riguardanti la mente. Ma dopo l'affermarsi delle scienze 
cognitive a partire dagli anni sessanta è difficile ignorare i contributi scientifici  
e in questo contesto si inserisce l'apporto al pensiero dennettiano di Quine e del 
suo naturalismo, secondo il quale la conoscenza umana è un fenomeno naturale 
indagabile coi mezzi delle scienze naturali. Willard van Orman Quine, uno dei 
più importanti filosofi americani del Novecento, entrò in contatto negli anni 
trenta con alcuni esponenti europei (specialmente con Carnap) del 
neopositivismo il quale distingue tra enunciati analitici, veri per definizione, in 
virtù unicamente del significato delle parole di cui sono composti come le 
proposizioni della matematica o della logica (es. tutti i gatti sono felini) ed 
enunciati sintetici veri in virtù dei fatti del mondo (es. tutti i gatti del mio 
quartiere sono sporchi) e quindi sono sensati (possono essere veri o falsi) 
solamente nella misura in cui sono verificabili. Questa distinzione era usata dai 
neopositivisti in funzione anti-metafisica. Tutte le proposizioni non analitiche