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L'omertà come strategia discorsiva del fenomeno mafioso e analisi del "mafioso mediatico"

Il capostipite - ''Il padrino''

La questione principale è capire che, presso l’immaginario collettivo, la figura del mafioso nasce già come positiva. E non solo perché difendeva i deboli dai soprusi di latifondisti e invasori, come abbiamo visto, ma anche e soprattutto per i canti carcerari.
Come testo esemplare di questo settore specifico della produzione mediatica, sceglieremo il quinto capitolo del libro Il silenzio svelato di Mauro Geraci.
Qui ritroviamo alcune considerazioni proprio su quel silenzio folkloristico, “denso”, di cui abbiamo tracciato un primo abbozzo parlando del concetto di silenzio per Sini. Extra mafia, la “legge del silenzio”, è svincolato da formule specifiche, è “nel sangue”.
È una “legge” che trova addentellati strumentali nel silenzio storicamente inflitto alla cultura popolare del Sud, la quale sovente intravede motivi di ascesa condividendo i poteri e le gerarchie dei notabili, dei latifondisti, degli ecclesiastici, dei capitalisti, degli statali, dei politici, dei mafiosi. Di contro si assiste alla sedimentazione del silenzio folkloristico, ossia delle forme di contestazione allusive, ironiche, poetiche, mascherate, sceniche, ritualmente prevedibili, controllabili, di cui sono intrise le culture folkloristiche meridionali. [...] All’interno di questo quadro storico-antropologico che qui andava richiamato per sommi capi, è possibile spiegare il repertorio di canti popolari cui, nelle loro prime raccolte, i folkloristi siciliani dedicarono ampie sezioni. [...] Canti che, nell’orizzonte folkloristico, con quello paremiologico condividono il silenzio quale assoluta attestazione di una condizione psicosociale imposta, necessaria al pari di una forza dettata dalla natura. (Mauro Geraci, Op. Cit., pag. 97-98.)

Insomma, il problema dell’omertà è così imperscrutabile anche perché attinge a serbatoi concettuali che affondano nel territorio antropologico più remoto che l’anima del popolo siciliano possa, ragionevolmente, rammentare. Questo studio del folklore è nebuloso perché si sostanzia nelle tradizioni orali della società pre-industriale sicula. Come ricostruire la legge del silenzio nel suo divenire se effimere erano le sue impostazioni di partenza? Fortunatamente esistono lavori etnomusicologici di assoluto valore che hanno salvato parte di questo patrimonio orale e che, con la loro permanenza, riescono a dare un’idea di ciò che ha generato l’omertà come noi oggi la conosciamo.
Ma, soprattutto, queste testimonianze ci fanno capire come si sia arrivati, in tempi più prossimi ai nostri, a considerare intrinsecamente buona la figura del mafioso. I canti carcerari hanno funto da primissimo bacillo. Il mafioso, l’uomo d’onore, che – parafrasando Goethe – si opera eternamente per il bene (del popolo) facendo eternamente il male, incarcerato diviene una figura che ispira perfino tenerezza, compassione. Quello dei canti carcerari è
un repertorio fatto di storie, ballate e canzoni – composte, eseguite e pubblicate da cantastorie, canzonettisti e stornellatori locali – incentrate ancora sui drammi del carcerato e dell’uomo: l’ingiustizia della condanna subita, i propositi di vendetta, l’odio per i falsi accusatori, per i traditori e per le spie, l’elogio di una “bocca che non parla” di pari passo a una votata a emettere solo parole d’onore. [...] I canti di carcere e mafia impiegano il silenzio anzitutto nelle immagini della reclusione, dell’abbandono, dell’emarginazione, dell’esclusione, della latitanza. (Mauro Geraci, Op.cit., pag.100-101.)
Geraci riporta anche il caso di un mafioso rimasto in silenzio per cinque anni, fingendosi muto, al solo scopo di non tradire la legge del silenzio. Questo tipo di fermezza potrebbe facilmente per dedizione, se solo non avessimo già citato la possibilità che si tratti di una forma di psicopatologia. Sebbene possa sembrare estrema la tesi secondo cui la mafia è anche un problema di sanità mentale, diventa inquietante l’osservazione di Geraci sul merito:
Attraverso la somministrazione del test grafoproiettivo Archetypycal9, volto a misurare le funzioni simboliche, i due studiosi [Jlenia Baldacchino e Tonino Cantelmi] hanno infatti rilevato come su 6 soggetti detenuti in regime d’isolamento per associazione di stampo mafioso, ben 5 sono risultati porta tori dell’alexitimia: termine coniato nel 1972 da Sifneos per indicare una psicopatologia per cui il soggetto manca di parole per nominare e distinguere gli uni dagli altri i propri stati affettivi. (Mauro Geraci, Op.cit., pag.103)
Il merito di questo gigantesco fraintendimento, allora, non può che essere imputato ai media, di qualunque natura essi siano. Il silenzio mafioso, che nella realtà non abbiamo motivo di pensare diverso da come ci viene presentato da Baldacchino e Cantelmi, dovuto a una sorta di afasia emotiva, nei versi dei canti carcerari si abbellisce dell’onore. Diventa una sorta di obolo da pagare alla vergogna per tener la lontana. Un silenzio che conduce alla paranoia se, come si legge in una di queste canzoni, «mè matri veni e ‛un ci pozzu parrari».
Grazie all’apporto mediatico, questa patologia della parola, diventa merito: «Quale copertura di fatti criminosi il silenzio è osservanza degna dell’ammirazione di parenti e alleati» [...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

L'omertà come strategia discorsiva del fenomeno mafioso e analisi del "mafioso mediatico"

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Informazioni tesi

  Autore: Antonio Romano
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2010-11
  Università: Libera Univ. Internaz. di Studi Soc. G.Carli-(LUISS) di Roma
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Scienze della Comunicazione
  Relatore: Paolo Peverini
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 83

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