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I rapporti tra Italia e Argentina dalla fine della dittatura fino al Gran Trattato del 1987

L'Italia e la questione dei desaparecidos di origine italiana

I cinque anni di dittatura argentina non possono essere ricordati solo con le politiche economiche liberiste della Giunta o con la guerra contro la Gran Bretagna per il possesso delle Malvinas. Il potere militare argentino, dal 1976 al 1982, portò avanti una sistematica opera di eliminazione fisica di tutti gli oppositori politici, accusati di essere sovversivi o terroristi.

La cosiddetta “dottrina delle frontiere ideologiche”, inaugurate da Onganìa nel 1966, affermava che il ruolo delle forze armate non fosse solo quello di tutelare i confini geografici del paese, ma anche quello di salvaguardarne l'integrità ideologica e politica, per cui il nemico era colui che si insinuava come una minaccia interna all'ordinamento politico-istituzionale. L'11 settembre del 1973, il Cile venne sconvolto dal golpe militare guidato da Pinochet che destituì con la forza il governo democraticamente eletto di Salvador Allende. Nonostante la storica inimicizia tra Argentina e Cile e tra le rispettive forze armate, Videla e la Giunta di Buenos Aires ebbero da Santiago un'importante lezione: il colpo di stato doveva essere percepito all'esterno solo come “una gigantesca opera di polizia” e non come una guerra civile. Non ci dovevano essere, quindi, bombardamenti alla casa del governo (come nel caso della Moncada), non ci dovevano essere stadi pieni di prigionieri politici e non ci dovevano essere tank per le strade argentine.

La repressione doveva rimanere il più possibile celata, per evitare che l'opinione pubblica mondiale, o meglio quella occidentale, potesse venire a conoscenza dei crimini che si nascondevano dietro le cosiddette “operazioni di polizia” e potesse così spingere i rispettivi governi a prendere delle misure di pressione come la rottura delle relazioni diplomatiche e quindi l'isolamento del paese dal resto del mondo. Questo fu l'insegnamento dell'esempio cileno ed i militari argentini seppero applicare alla lettera quanto appreso. In un'intervista rilasciata al “The Buenos Aires Herald”, il generale Saint Jean, governatore militare di Buenos Aires disse: “prima uccideremo tutti i sovversivi; poi uccideremo i loro collaboratori; poi i loro simpatizzanti; poi chi rimarrà indifferente e infine uccideremo gli indecisi”, dimostrando quanto si volesse andare in fondo nella repressione di qualsiasi dissenso, ma anche il totale senso di impunità che regnava tra le forze armate.

Ma, come detto, la repressione doveva essere il più possibile nascosta per evitare proteste e malumori nell'opinione pubblica argentina ed in quella internazionale. È per questo che i militari argentini utilizzarono il metodo della desapariciciòn, della scomparsa, prelevando i presunti sovversivi di notte, caricandoli in auto non riconoscibili come vetture militari e facendoli sparire dopo un'interminabile iter di torture e violenze fisiche e psicologiche. Alla fine della dittatura, il governo di R. Alfonsìn creò la Commissione Nazionale sui desaparecidos (CONADEP), che accertò la scomparsa di oltre 30 mila persone, per lo più giovanissime e difficilmente catalogabili nella totalità dei casi come sovversivi. Il motivo per cui si affronta la questione dei desaparecidos in questa sede è dato dal fatto che tra di loro vi furono tanti cittadini stranieri, tra cui molti italiani per nascita o discendenza.

Nel 1971, Italia e Argentina, siglarono un Accordo bilaterale che concedeva agli italo-argentini la doppia cittadinanza, o meglio garantiva il mantenimento ai discendenti italiani di uno status giuridico “latente”, che poteva essere riacquistato in toto al momento dello spostamento della residenza in Italia (e viceversa). L'art. 4 dell'Accordo afferma che “il trasferimento di residenza nel Paese di origine da parte delle persone che si avvalgono dei benefici del presente accordo implicherà, automaticamente, la reviviscenza di tutti i diritti e doveri inerenti alla loro precedente cittadinanza” ed è proprio l'automacità nel riacquisto dei diritti e dei doveri il tratto saliente di questo accordo fondamentale, soprattutto se si pensa al ruolo ed al peso della comunità italiana in Argentina.

L'Italia, quindi, non aveva solo il dovere di proteggere chiunque si recasse all'ambasciata dichiarandosi perseguitato politico e chiedendo dunque l'asilo, ma anche e soprattutto quello di garantire l'incolumità di tutti gli italo-argentini che si recavano nella sede diplomatica, proprio in virtù della doppia cittadinanza. Ma, dopo l'esperienza cilena, non solo i militari argentini cambiarono metodi e capirono il ruolo che poteva avere l'opinione pubblica, ma anche la diplomazia italiana lo fece. Nel 1973, in Cile, la grande emozione suscitata nell'opinione pubblica e nei partiti italiani costrinse Roma e la Farnesina ad accettare tutti i rifugiati che si recavano all'ambasciata di Santiago, determinando così il logoramento nelle relazioni con la Giunta di Pinochet.

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I rapporti tra Italia e Argentina dalla fine della dittatura fino al Gran Trattato del 1987

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Informazioni tesi

  Autore: Nicolas Liuzzi
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2011-12
  Università: Università degli Studi di Roma La Sapienza
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Relazioni internazionali
  Relatore: Luca  Micheletta
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 290

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Parole chiave

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gran trattato 1987
trattato per una relazione associativa particolare

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