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Le problematiche socio educative delle casa famiglia

La familiarizzazione in casa famiglia

La scelta di vivere l'esperienza della comunità è per gli adulti assolutamente volontaria e libera, mentre per i ragazzi è quasi sempre imposta come intervento di protezione/sostegno/aiuto al minore e al suo nucleo familiare in difficoltà. Sono rari gli ingressi in comunità richiesti direttamente dai ragazzi, ad eccezione di alcuni minori stranieri non accompagnati, i quali, venendo a conoscenza delle comunità di accoglienza organizzano il viaggio dai loro paesi di origine sperando di trovare una realtà migliore in Italia. I neonati ed i ragazzi allontanati dalla famiglia di origine non scelgono volontariamente di vivere in comunità, anche se, a partire dai 12 anni, possono partecipare più attivamente al processo di affidamento loro proposto. La comunità quindi è per loro una non scelta, ma un offerta, un'occasione resa indispensabile e inevitabile perché l'ente pubblico responsabile della loro protezione, crescita e tutela possa attuare un intervento di protezione ai rischi o ai danni familiari incorsi. I ragazzi che vivono un tempo consistente della loro vita in comunità sono essenzialmente soggetti deprivati, dove per deprivazione si intende la distruzione o la perdita dei legami significativi precoci; perdita che può comportare un disturbo reattivo i cui sintomi sono la mancanza di capacità di dare e ricevere affetto, la messa in atto di comportamenti aggressivi verso gli altri e verso se stessi. Spesso si tratta di ragazzi che sperimentano condizioni di vita traumatiche, questo porta a storie molto difficili, il cui unico tratto di continuità è segnato dalla costante ripetizione di rifiuti, abbandoni e tradimenti. Questi minori sono connotati da una forma di psicopatologia che sfocia in condizioni di mancanza di affettività, nell'interiorizzazione del senso di vergogna o del senso di colpa e dalla difficoltà emozionale di entrare in una relazione empatica con gli altri. La comunità è il contesto che vede questi ragazzi crescere, ammalarsi, guarire, mangiare e dormire; è il luogo dove si arrabbiano, sperano, imparano, rifiutano, in cui trascorrono e realizzano i loro compiti evolutivi, nonché gli affetti e le interazioni. I minori in comunità non hanno alternative per trascorrere altrove il tempo della loro età, loro vivono in comunità a tempo pieno, il tempo della loro infanzia, prima adolescenza o adolescenza, il tempo della vita. Nelle comunità, adulti e minori, che non sono legati da legami biologici, costruiscono la loro vita quotidiana da soggetti tra di loro essenzialmente sconosciuti, estranei che non hanno scelto di vivere insieme e non possono decidere i tempi della loro convivenza. A persone che per il minore sono inizialmente estranee (gli educatori) è affidato il compito di protezione che non è stato potuto svolgere dalla famiglia di origine, per l'assenza dei genitori o per la loro inadeguatezza. Gli educatori svolgono funzioni genitoriali pur essendo inizialmente estranei e spesso sono chiamati a proteggere i figli proprio da chi per natura è deputato alla protezione: i genitori. La costruzione di una relazione significativa è il prerequisito indispensabile all'attuazione di un ambiente riparativo, un luogo reale e simbolico che accoglie, sostiene, contiene, ascolta e aiuta a ricostruire realizzando progettazioni educative specifiche e individualizzate. Ogni progettazione educativa è un atto relazionale di cui ci si assume responsabilità e di cui si dà manifestazione di affidabilità. Le comunità offrono ai minori la possibilità di incontrare un altro significativo, o più altri significativi, in momenti successivi alla prima infanzia, in spazi quotidiani deputati alla condivisione della vita di ogni giorno, consentendo così di perturbare i precoci modelli relazionali attraverso nuove modalità relazionali in discontinuità con le precedenti e di produrre nel tempo un cambiamento positivo. Ogni educatore è impegnato in un processo di costruzione condivisa nel gruppo di una personale e soggettiva capacità di relazionarsi con ogni bambino in maniera coerente, personale e differenziata. È importante uscire dalla logica dell'indifferenziazione e creare le premesse per determinare processi di familiarizzazione, ossia la realizzazione del passaggio dall'estraneità alla familiarità, processo che rappresenta quell'occasione offerta al ragazzo di intraprendere in compagnia affidabile il lungo viaggio rivolto alla comprensione di chi è ora, di chi è stato prima e di chi potrà diventare. Divenire familiare agli occhi di un bambino significa per l'educatore essere conosciuto, accessibile ed affidabile, solo così questi potrà chiedere di essere creduto, rispettato, ascoltato e seguito nelle sue indicazioni di comportamento. Conoscenza, accessibilità e affidabilità costituiscono il primo processo protettivo rivolto a chi viene accolto in comunità; ogni educatore deve attivare tale processo per realizzare con ciascuno una storia comune condivisa. La costruzione di una storia comune con i minori, implica il lasciare che i tempi iniziali della familiarizzazione siano segnati non dalla scansione dei turni di lavoro, ma dalla presenza attenta e continua degli adulti in relazione ai tempi e ai bisogni dei ragazzi. Il processo di familiarizzazione tra adulti e ragazzi, dopo la fase iniziale di conoscenza reciproca in comunità, si deve progressivamente ampliare alla conoscenza dei reciproci ambienti di vita, in una condivisione empatica che apra lo spazio alla fiducia e all'appartenenza da parte di ciascun ragazzo. [...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

Le problematiche socio educative delle casa famiglia

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Informazioni tesi

  Autore: Cristina Amico
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2013-14
  Università: Università degli Studi di Roma La Sapienza
  Facoltà: Sociologia
  Corso: Sociologia
  Relatore: Antonietta Censi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 76

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