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L'intervento in ambito penitenziario: una sfida per il terapeuta sistemico relazionale

Confini tra psicoterapia e sostegno

La differenza è sottile e soprattutto non si riesce a comprendere quale sia il punto di inizio.
In un contesto di vita “normale”, le persone hanno un problema, di natura psicologica e si recano da uno psicologo o da uno psicoterapeuta. Almeno sarebbe auspicabile lo facessero. Ma in carcere?
Le persone che si incontrano sono forse persone che fuori da quel contesto non avrebbero mai incontrato il mondo della psicoterapia. Si possono fare varie ipotesi.
Avevano disturbi ma non avrebbero cercato una cura, un supporto, un sostegno.

Oppure sono persone “sane” che la condizione di ristrettezza fisica e alienazione mentale porta ad avere disturbi che in un contesto normale non si sarebbero presentati. Gatti, nel lontano 1984, affermava che in ambito penitenziario non solo la psicoterapia è inutile ma è addirittura nociva, adducendo principalmente tre motivi:
• il detenuto usa lo psicologo in modo manipolativo e seduttivo per ottenere vantaggi e non per intraprendere un percorso di cambiamento
• avere contatti con uno psicologo è considerato “da deboli”, per cui anche chi potrebbe avvicinarsi non lo fa per rispettare le regole non dette del contesto penitenziario, seguite non solo dai detenuti ma anche dagli agenti (anzi forse più da loro)
• non c’è un costo a carico del detenuto, quindi la terapia è destinata ad essere un insuccesso

Probabilmente questi motivi erano validi 30 anni fa. Forse lo sono in molti casi anche oggi, ma credo che sia una generalizzazione che non ci possiamo permettere di fare.
E’ vero che molti, soprattutto i tossicodipendenti, hanno la tendenza a manipolare l’interlocutore (cosa che fanno anche al di fuori dal contesto penitenziario), ma è anche vero che io ho incontrato più di una persona che a fronte della possibilità di scegliere di fare degli incontri o meno, pur sapendo che sarebbe stato un lavoro utile solo a se stesso, senza alcun tipo di vantaggio rispetto a eventuali miglioramenti di trattamento, ha scelto di iniziare un percorso di cambiamento.

L’idea di chiedere supporto psicologico è ancora oggi visto come un’attività da non condividere anche nella popolazione non detenuta: basti pensare al manifesto pubblicitario apparso sui muri di Cuneo di recente “Fai shopping a…, costa meno ed è più piacevole che andare da uno psicologo”. Questo accade paradossalmente più tra gli agenti che tra i detenuti: quando convocano una persona per andare dallo psicologo non gli dicono per che cosa è, mentre di solito urlano “colloquio”, “avvocato”, “medico”. Questa sorta di pudore legato alla rappresentazione socio-culturale del fatto che andare dallo psicologo sia da nascondere è sintomatico di una cultura del fare, dell’avere più che dell’essere.

Ci sono alcuni suggerimenti per trattamento con persone recluse, ci segnala sempre Gatti, che sono, a parer mio, valide anche in qualsiasi altro contesto:
• evitare di dare consigli, la persona non ama sentirsi di “serie B”, avere bisogno di qualcuno, soprattutto in situazione di detenzione
• usare la formula “vediamo come puoi fare”: dà l’idea della co-costruzione, ma lascia la responsabilità all’individuo delle scelte da effettuare
• porsi in posizione di ascolto e connotare positivamente le risorse presenti

In ogni caso il focus è sulla persona, sulla relazione, sulla possibilità di cambiare cornici, di scardinare le convinzioni che hanno portato alla situazione di sofferenza.

Questo brano è tratto dalla tesi:

L'intervento in ambito penitenziario: una sfida per il terapeuta sistemico relazionale

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Informazioni tesi

  Autore: Barbara Martini
  Tipo: Tesi di Specializzazione/Perfezionamento
Specializzazione in Psicoterapia sistemico relazionale
Anno: 2014
Docente/Relatore: Pasquale Busso
Istituito da: Centro Studi Eteropoiesi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 44

FAQ

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