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Mass moda: dalla moda elitaria alla moda di massa

Comunicare la moda: il caso Vogue

Il 17 dicembre 1892 nacque a New York una gazzetta settimanale dalle pagine illustrate chiamata Vogue, con la quale il suo creatore, Arthur Baldwin Turnure, si pose dichiaratamente lo scopo di rappresentare gli interessi e lo stile di vita della famiglie più in vista all’interno della società newyorkese. Quest’ultima, infatti, a fine del diciannovesimo secolo si sentiva minacciata dai tentativi di nuovi ricchi, resi possibili dall’abbondanza di mezzi economici nonostante la mancanza di nobile lignaggio, di introdursi nel mondo aristocratico.
Nella lettera di introduzione del numero inaugurale, Turnure descrive Vogue come una rivista che avrebbe rispecchiato

«l’aspetto cerimoniale della vita […] caratterizzato ai massimi livelli da un’aristocrazia che si fonda sulla ragione, e che si è evoluta secondo i dettami di un ordine naturale. Le tendenze del momento, i divertimenti, le follie e l’incostanza dei suoi mutamenti forniscono un’infinità di spunti di commento, e qualche occasionale critica».

L’anno di esordio non fu casuale, di fatto fu caratterizzato da un avvenimento che coinvolse tutte le personalità più note della città: il ballo invernale, offerto dalla moglie del milionario William Backhouse Astor Jr. per The Four Houndred, i quattrocento invitati all’evento, rigorosamente selezionati, oltre che sulla base del patrimonio monetario, in base all’eleganza, al decoro e alla grazia dimostrata già in precedenza in società. Saranno loro i primi lettori di Vogue, nonché gli stessi protagonisti della rivista, la quale ne illustrava le abitudini, i posti frequentati e gli abiti indossati, a dimostrazione di come inizialmente essa fosse un social magazine con specifica funzione di istituire un “diario della società benestante”.

Vogue stabiliva le regole di condotta sociale ed era letta con avidità sia da coloro che si consideravano come facenti parte dell’élite di New York, sia da quelli che vi aspiravano a farne parte. Reportage dei vari eventi mondani che si tenevano durante la settimana, la rivista divenne uno svago essenziale per i lettori di entrambi i sessi, cercando di creare un prodotto diverso dalla frivola rivista femminile. Furono inserite infatti recensioni di libri, di spettacoli teatrali, musica e arte, introducendo inoltre articoli di galateo che indirizzassero il comportamento delle persone durante gli avvenimenti mondani. La rivista era già suddivisa in rubriche e la moda riempiva già gran parte delle pagine, senza però pubblicare narrativa, che avrebbe attirato in maniera indiscriminata un pubblico di estrazione sociale umile che non collimava con le strategie di vendita dalla stessa.

Nel primo decennio del ventesimo secolo, il mondo della moda era dominato da due correnti simultanee: la produzione dell’abbigliamento di massa e la haute couture, nella quale vigeva un sistema di regole ormai ampiamente accettato. Le nuove linee dovevano essere presentate come collezioni ed esibite nelle occasioni esclusive in cui si riunivano i potenziali acquirenti; gli stilisti dovevano essere uomini e i loro atelier ubicati a Parigi. L’alta moda francese dominava l’intero scenario, e le sue creazioni mantenevano un primato indiscusso all’interno dei periodici americani.

Nel giro di poco tempo, tuttavia, gli eventi mondiali minacciarono di privare la rivista del suo materiale più importante. A fronte dello scoppio bellico i laboratori di sarti e stilisti cominciarono a produrre bende e divise per la guerra e per la prima volta la possibilità che la couture francese arrivasse a dover interrompere la produzione non fu più così remota. In stato di massima allerta l’allora direttrice di Vogue, Edna Woolman Chase, ideò una strategia che riunisse le signore più in vista dell’alta società newyorkese e i migliori stilisti americani nell’organizzazione di una sfilata di moda i cui proventi sarebbero stati destinati ad alleviare le sofferenze causate del conflitto a donne e bambini. Un evento simile andava decisamente controcorrente poiché le sfilate di moda venivano generalmente associate a fini commerciali di vendita e mai prima di allora a scopo di beneficienza.

L’evento venne presentato sul numero del 1° dicembre 1914 dedicando ben 11 pagine ai modelli esibiti per l’occasione.
Durante la prima era di Vogue, quando cioè la rivista era ancora una gazzetta indirizzata ai membri dell’alta società, le sue copertine non avevano una spiccata personalità: talvolta venivano usate fotografie di qualità, in altre occasioni un’illustrazione o una stampa Art Nouveau. Ma l’arrivo della nuovo editore Condé Nast cambiò tutto, introducendo una serie di cambiamenti drastici: la rivista cominciò a esser pubblicata ogni due settimane, aumentando il prezzo da 10 a 15 centesimi, le copertine si fecero più colorate e aumentarono gli spazi pubblicitari. In virtù degli argomenti trattati, la rivista, che era nata come gazzetta mondana, diventò una rivista femminile, distaccandosi nettamente dalle sue origini. «Vogue - come proclamava Nast - è il consulente tecnico, lo specialista, che consiglia la donna alla moda su questioni che riguardano il suo abbigliamento e i suoi ornamenti». Gli articoli di moda infatti dovevano risultare il più accurati possibile, descrivendo anche ciò che il lettore non poteva vedere; «se un’immagine mostrava un vestito e una giacca, era necessario spiegare come erano fatte le maniche e il punto vita del vestito»

Vogue mirò a dichiararsi arbitro assoluto dell’eleganza, anche attraverso espedienti grafici. Infatti, consapevole del forte impatto che le copertine avevano sulle vendite in edicola, Nast si accinse a creare uno stile che rendesse la rivista immediatamente riconoscibile e distinguibile da qualunque altra parlasse di moda, utilizzando in primis illustrazioni di pavoni, immagine più efficace per trasmettere l’idea di raffinatezza. In secondo luogo, per promuove l’identità inscindibile tra il nome stesso e le notizie che pubblicava, utilizzò l’espediente di ripetere costantemente il simbolo ‘V’ sulla copertina, raffigurando persino donne che leggevano una copia della rivista stessa, che in tal modo vendeva sé stessa come il simbolo della moda. Infine, il bisogno crescente di trasformarsi nel luogo eletto per l’espressione di avanguardia, portò Vogue a promuovere ogni nuova tendenza artistica che fosse «intrinsecamente valida» e che possedesse «quell’intangibile qualità chic che distingue tutti i contenuti della rivista» .
Il primo periodo del ventesimo secolo venne denominato proprio l’Era dell’Illustrazione delle copertine, durante il quale le riviste collaboravano con due tipi di artisti: i pittori ‘seri’, tra cui figuravano personalità del calibro di Matisse, Picasso e Dalì, probabilmente desiderosi di procurare un seguito a sé stessi e al movimento artistico a cui appartenevano, e gli illustratori professionisti, che si specializzavano nei disegni per riviste.

A prescindere da chi fosse l’artista però il materiale illustrativo occupava sempre l’intera copertina, la quale sapeva esprimere uno stato d’animo o illustrava un evento particolare tale da attirare l’attenzione del pubblico consumatore, sembrando vere e proprie «gallerie all’aperto» . A partire dagli anni Trenta le illustrazioni cominciarono a offrire uno sguardo più specifico alla moda, e l’informazione, intesa come servizio, riconquistò il primato di importanza rispetto al contenuto artistico. Per quanto attraente e ben realizzato, esso si poneva infatti il solo scopo di annunciare, divulgare e informare le donne riguardo le ultime tendenze, anche senza l’ausilio di titoli e intersecandosi anche con questioni più ampie di attualità.
Il ritorno di Vogue a una fase più informativa venne chiaramente influenzato dall’espansione del mezzo fotografico. Nast a proposito affermò che:

«Qualsiasi nuovo stile di illustrazione di moda che voglia rivendicare il ruolo di successore allo stile attuale, e meritare al contempo la nostra fiducia in una decisione così fondamentale deve offrire una descrizione fedele e riconoscibile della moda illustrata, espressa con uno stile piacevole, convincente, d’effetto, contemporaneo, e, soprattutto, elegante».

L’attenzione con cui gli editor di Vogue curavano l’impatto visivo della copertina si estendeva anche al design interno alla rivista stessa. A tal proposito Nast misurò meticolosamente la posizione dei titoli e delle illustrazioni su ciascuna pagina, proprio in virtù del fatto che il livello qualitativo della rivista doveva essere superiore a partire dalla presentazione della carta sulla quale venivano collocati gli articoli. L’impronta visiva veniva influenzata dall’intuito dell’editor, il quale cercava il modo più efficace di attirare l’interesse del pubblico contemporaneo. A partire dagli anni Trenta le fotografie a colori sembrarono però soddisfare uno degli obiettivi fondamentali di Vogue, ovvero presentare un’anteprima fedele dei contenuti della rivista: «la natura documentaria del mezzo fotografico stabiliva infatti un limite ben preciso alla credibilità del risultato».

È stato spesso oggetto di discussione l’effettiva influenza che la fotografia di moda e le passerelle hanno avuto nel definire un canone estetico, venendo spesso criticate per l’impulso dato ai giovani a conformarsi a un canone di bellezza stereotipata e irraggiungibile. Secondo una ricerca di Crane però, Vogue, a partire dal secondo dopoguerra, si servì di foto ritraenti donne che frequentavano luoghi alla moda, con al centro dell’obiettivo gli abiti e non le modelle stesse, assumendo atteggiamenti che Goffman definì come «ritualizzazione della subordinazione», venendo rappresentate più basse o retrostanti rispetto agli uomini, con il capo reclinato oppure in pose contorte. A partire dagli anni Sessanta, invece, la modella, divenne il punto focale rispetto all’abito, in vista di tale scopo, isolandola e privandola anche di qualunque riferimento spaziale e paesaggistico: la fotografia di moda doveva riassumere ciò che una donna si aspettava di vedere, ovvero uno specchio di sé stessa, delle proprie fantasie e di come avrebbe voluto manifestarsi agli altri. Essa doveva apparire sessualmente provocante: «la bellezza moderna è profondamente improntata da politiche sessuali in cui la donna recita fantasie maschili, impegnata in una provocazione intenzionale».
La top model, più che la donna dell’alta società, stava diventando il modello di ruolo.

Nel 1977 il carattere della rivista cambiò radicalmente, raddoppiando la percentuale di pagine pubblicitarie e di prodotti iconici, i quali, molto più dei contenuti redazionali, riuscivano a trasmettere l’impressione visiva della stessa. Le riviste specializzate, pur avendo dimostrato di saper rispondere a pieno al loro ruolo nel sistema moda, hanno ricevuto anche pesanti critiche relativamente all’influenza, ritenuta eccessiva, della pubblicità. In sostanza, molti hanno accusato la stampa di moda di una sorta di frequente indistinzione tra articolo giornalistico e servizio pubblicitario. Quest’ultimo gioca indubbiamente un ruolo determinante nei bilanci editoriali, tuttavia è ugualmente vero che questo binomio viene seguito come standard anche da riviste di attualità.
[…]

Questo brano è tratto dalla tesi:

Mass moda: dalla moda elitaria alla moda di massa

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Informazioni tesi

  Autore: Veronica Betti
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2017-18
  Università: Università degli Studi di Firenze
  Facoltà: Scienze della Comunicazione
  Corso: Scienze della comunicazione
  Relatore: Benedetta Baldi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 47

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