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Il governo di Lamberto Dini (1995-1996). L'anello tecnico tra le due repubbliche

La diaspora democristiana: le nuove balene bianche

La pioggia di avvisi di garanzia che Tangentopoli aveva scatenato non tardarono a colpire l’azionista di maggioranza dei governi della Prima Repubblica, la Democrazia Cristiana, decimando buona parte degli esponenti di spicco e della direzione del partito. L’erosione del consenso democristiano, già ben visibile con il calo delle elezioni del 1992, ha origine da un lato dall’emersione di nuove formazioni politiche, come la Lega Nord, capaci di attirare sostanziose fette dell’elettorato democristiano, e dall’altro dal mutare della situazione geopolitica mondiale, che aveva sciolto gli italiani dall’obbligo di fedeltà alla balena bianca solo per sbarrare il passo al comunismo. Da un punto di vista socio-culturale invece, la DC si era rivelata incapace nel cogliere la sfida di adattarsi alle trasformazioni che avevano investito la società italiana negli anni ’70 e ’80 (in primo luogo la secolarizzazione), radicalizzando invece la tendenza al malaffare e alla corruzione che avrebbe poi trovato la piena esemplificazione nello scandalo di Mani Pulite e nella caduta dei pilastri del sistema consociativo. Nel partito furono comunque presente delle voci fuori dal coro, come ad esempio quella del presidente Cossiga, che rivolse le sue celebri “picconate” alla corruzione della politica italiana, e quella di Mariotto Segni, anima del movimento referendario per la riforma del sistema in senso maggioritario, poi concretizzatosi nei referendum del 1991 (di cui fu egli stesso promotore) sulle preferenze plurime.

Queste ultime furono uno degli argomenti principali dibattuti all’assemblea DC di Assago del dicembre del 1991, convocata come tentativo di autoriforma in extremis del partito. Il consesso lombardo, incentrato sulle modalità con le quali modernizzare il partito e renderlo più aperto e flessibile (soprattutto ai membri più giovani), si arenò proprio sul nodo delle preferenze, creando un grave dissidio tra la corrente di Segni e la vecchia guardia democristiana. L’incarico di tener compatto il partito, indebolito dalle spinte centrifughe del dopo-Assago, fu assegnato ad Arnaldo Forlani, triumviro del CAF pentapartitico e nuovo segretario della DC dal Febbraio 1989. La segreteria Forlani, lontana dall’essere un reale punto di svolta dinanzi all’inesorabile declino del partito, svolse al contrario la funzione di “agnello scarificale” finalizzato ad un temporaneo ricompattamento interno. Doppiamente screditato dal cattivo andamento delle Politiche del 1992 e dall’ ”impallinamento” nelle votazioni per il Quirinale, Forlani fu infatti riportato in sella entrambe le volte, sopravvivendo fino all’autunno di quell’anno. Nel settembre 1992 si tennero infatti le elezioni provinciali di Mantova, dove la DC passò dal 27% del 1990 al 14%, a fronte del 33,9% conquistato dalla Lega Nord. Il consiglio nazionale convocato in Ottobre acclamò come nuovo segretario, senza nemmeno una votazione formale, il bresciano Mino Martinazzoli, appartenente alla corrente di sinistra della Democrazia Cristiana. Il ruolo di Martinazzoli, dalla fama di uomo onesto e incorruttibile, era quello di dar via a un’opera di riordino e moralizzazione della vita politica democristiana, partendo dall’annullamento di tutte le tessere del partito.

La mossa del nuovo segretario affrontava un nodo emerso anche durante l’assemblea di Assago, e puntava direttamente al cuore della Democrazia Cristiana, composto da quei notabili che gonfiavano i registri di tesseramento del partito per assicurarsi il potere assoluto nei propri feudi. Ma il primo tentativo di riforma di Martinazzoli andò a vuoto a causa del boicottaggio messo in atto in alcune zone del Sud, evidenziando come la sua elezione fosse nient’altro che un timido barlume di luce in un tessuto profondamente incancrenito. Il 1993 fu un vero e proprio “annus horribilis” per la Democrazia Cristiana. Dopo le dimissioni dei socialisti Martelli e Craxi, rispettivamente dal ministero della giustizia e dalla segreteria del Psi, in seguito agli scandali giudiziari, tra il Marzo e l’Aprile di quell’anno ad essere colpiti dagli avvisi di garanzia fu lo stesso Forlani e un altro triumviro del CAF, Giulio Andreotti. Per quest’ultimo, icona vivente della balena bianca, le accuse erano molto gravi: Andreotti venne accusato non solo di associazione mafiosa, ma in seguito alle rivelazioni di alcuni pentiti mafiosi la procura di Perugia richiese l’autorizzazione a procedere a carico del senatore a vita anche per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Alla decimazione dei vertici e al tonfo elettorale la Democrazia Cristiana rispose accelerando il processo di riforma interna. Dopo un consiglio nazionale convocato a marzo, in cui venne approvato un nuovo codice deontologico e fu rinnovata la direzione del partito, tra il 23-26 luglio 1993 si svolse a Roma l’Assemblea Programmatica Costituente del partito, che concluse i propri lavori affidando a Martinazzoli pieno mandato per consegnare la Democrazia Cristiana alla storia e fondare un nuovo Partito Popolare.

La costituzione del nuovo partito, sancita ufficialmente nel primo congresso del 18 gennaio 1994, presentava però alcuni importanti contraddizioni. In primo luogo la nuova denominazione del partito segnava la volontà di chiudere la parentesi cinquantennale della Democrazia Cristiana per ricollegarsi alle origini del movimento cattolico. L’intenzione di riappropriarsi delle radici popolari del cattolicesimo democratico cozzava però con la realtà di fatto della defunta Democrazia Cristiana, composta da una complessa rete di correnti spesso radicalmente contrapposte fra di loro. In assenza di un collante, come poteva essere l’abilità di De Gasperi, la minaccia del comunismo internazionale o la sponsorizzazione della Chiesa (che comunque sostenne il rinnovamento del partito attraverso la CEI e l’entrata in blocco nella DC degli intellettuali cattolici del gruppo Charta 93), la compresenza di tendenze disgregatrici divenne esplosiva, portando alla frammentazione dei Popolari ancor prima di nascere. Nel gennaio 1991 l’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando, democristiano di sinistra fuoriuscito dalla DC nel Novembre precedente, aveva fondato La Rete, partito d’impostazione legalitaria nato per promuovere sulla scorta della recente esperienza amministrativa palermitana un’aggregazione tra le forze cattoliche e di sinistra. Due anni più tardi fu la volta di Mariotto Segni, principale animatore della stagione referendaria di quegli anni, che nel Novembre di quell’anno abbandonò il partito per fondare il Patto Segni, che concorreva con La Rete nell’obiettivo di coalizzare le forze di centrosinistra. I popolari non riuscirono a riassorbire nessuno dei due partiti, subendo alla vigilia del congresso di trasformazione di Gennaio una scissione a destra, con la fondazione del Centro Cristiano Democratico (Ccs) di Pierferdinando Casini, e a sinistra con i Cristiano-Sociali (Cs) di Ermanno Gorieri.

La situazione del cattolicesimo politico italiano alla viglia delle elezioni del 1994 era a dir poco drammatica. Le trasformazioni sociopolitiche degli anni ’80 e ’90 avevano aperto il vaso di Pandora della “cosa bianca”, liberando gli infiniti personalismi, potentati e correntismi tenuti assieme per mezzo secolo solo dalla fede cattolica e dallo spauracchio comunista. Il lento logorio delle radici culturali bianche, testimoniato dall’avvento delle Leghe al Nord, si risolse con il totale sdoganamento della democrazia bloccata, aprendo una vasta area di voti in libertà che non attendevano altro che un nuovo messia della politica, capace di imporsi in un sistema tutto da ricostituire.

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Il governo di Lamberto Dini (1995-1996). L'anello tecnico tra le due repubbliche

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Informazioni tesi

  Autore: Michelangelo Morelli
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2018-19
  Università: Università degli Studi di Bologna
  Facoltà: Lettere e Beni Culturali
  Corso: Storia
  Relatore: Francesca Sofia
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 69

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