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Il maestro. Ragioni, risorse, specificità e percezioni di una minoranza

Maestri, maestre e relazione di cura

Una delle ipotesi esposte da Marchesi riguardo l'allontanamento degli uomini dalle professioni educative riguarda l'appiattimento delle stesse sulla dimensione della cura primaria; la richiesta di cura si sarebbe fatta sempre più pervasiva e avrebbe femminilizzato il mondo dell'educazione allontanando gli uomini che da certi compiti di cura e assistenza si sarebbero sempre tenuti lontani.
Ma è possibile che non ci sia spazio per l'uomo nella relazione di cura? O, viceversa, che non ci sia spazio per la cura nella vita dell'uomo? E nell'insegnamento che ruolo ha questa relazione? Innanzi tutto è opportuno cercare di capire di cosa si sta parlando.

Di Nicola e Danese descrivono la “cura del fragile” o della vita come un tratto prevalentemente femminile che si manifesta come attitudine a nutrire, nella protezione dell'altro e nell'alleviamento della sofferenza. Si estende dal figlio partorito al prossimo e comporta un'azione educativa intesa come consegna di un mondo affidabile, accompagnamento (o mothering), incoraggiamento, sguardo valorizzante e capace di dare fiducia e sostegno. Sarebbe un prolungamento della dimensione generativa della persona nella trasmissione della struttura conoscitiva del mondo attraverso il linguaggio, non a caso detto lingua “materna”. La presa di cura caratterizza uomini e donne responsabili, tuttavia la chiamata della donna a stare vicina a ciò che è fragile si farebbe sentire in modo più forte piuttosto che nell'uomo perché compito inscritto nel corpo stesso della donna che allattando non trasmette soltanto il nutrimento fisico ma anche quello culturale.

Rossini ci presenta invece una cura come «categoria pedagogica (…) entro cui si gioca la dialettica tra autonomia e dipendenza». Tale visione prende avvio da Heidegger che, nell'analisi dell'essere-nel-mondo, dà una prima immagine di cura come «struttura relazionale in cui si danno cooriginariamente la trascendenza (…) e l'effettività (…). La cura sembra essere il rapporto tra effettività e possibilità: dove il fatto di essere mondo, di essere quell'uomo lì e non altro, rappresenta la condizione della sua stessa progettualità esistenziale: della stessa possibilità di formarsi, di diventare ciò che può, concretamente, ma solo ciò che lui può». Una categoria così complessa si condensò, tuttavia, in quella della “cura filiale” con l'emergere del concetto di infanzia nell'immaginario sociale dell'Ottocento; la cura si fa strumento educativo per rispondere ai bisogni specifici dei bambini secondo il paradigma di Pestalozzi, che intende la cura filiale soprattutto come cura della madre verso il figlio motivata dallo stato di dipendenza iniziale ontologica del figlio. È l'avvio delle pratiche di cura ad essere motivato dalla necessità del soggetto dipendente, il figlio, ad essere accudito e veder soddisfatti i suoi bisogni, ma la finalità delle stesse è proprio superare questa dipendenza e costruire progressivamente l'autonomia e l'emancipazione del soggetto.

La cura educativa deve insomma evitare che le pratiche degenerino in forme di dominio attraverso il rafforzamento del legame di dipendenza e realizzarsi come “essere per l'altro”, farsi assunzione e attestazione di senso e di valori all'interno di un'etica della responsabilità, che diriga la progettualità educativa verso la realizzazione delle potenzialità umane. Cura è quindi preoccupazione nel senso di avere a cuore il destino dell'altro, il suo futuro, il suo bisogno di esistere con un significato e non solo di essere riconosciuti per il proprio essere ed i propri bisogni.
Se di questo si tratta, la cura non è l'annullamento della distanza tra chi la fornisce e chi la riceve, non è una fusione viscerale, ma per essere autentica deve essere tutela della distanza che consente ad ognuno di essere se stesso, un percorso di crescita reciproca che conserva l'essenza propria e altrui nel reciproco riconoscimento.
Le caratteristiche che legano la cura all'educazione sono la gratuità, la reciprocità e la finalizzazione dell'autonomia. Quest'ultima è la risposta ad un'esigenza di individuazione che trae origine dalla dipendenza ed implica la consapevolezza di un'alterità non riducibile a sé da cui è necessario distanziarsi progressivamente per diventare individui, persone distinte da coloro che ci hanno generato o educato.
“Cura” è, insomma, sia dare una risposta alla dipendenza connaturata nella fragilità dell'altro, sia favorire una progressiva separazione e autonomia di un soggetto che ha bisogno di essere riconosciuto come “altro” e “unico”. Nell'intervento educativo essa non corrisponde alla «capacità di determinare arbitrariamente il percorso da seguire, ma nella disponibilità a esserci sempre e comunque».

Dal nostro punto di vista è importante sottolineare proprio questo aspetto della relazione di cura, perché lo stesso Marchesi che parla degli uomini allontanati dalle professioni educative perché appiattitesi sulla cura rileva con le sue interviste «come la prima connotazione della presenza maschile nelle interazioni educative sia focalizzata sull'apertura di orizzonti, sull'accompagnamento dei soggetti al proprio appuntamento con il mondo, sulla promozione di autonomia». Connotazioni che, come abbiamo visto, hanno un ruolo fondamentale in una relazione di cura che non si trasformi in dominio o simbiosi, e che possono spingerci ad intendere la cura, per come si è espressa storicamente, come un'unica categoria di cui esistono una parzialità femminile, centrata sull'altro in sé, più votata all'accudimento immediato e preponderante per ragioni storico-sociali in ambito professionale che tende a tenere lontani gli uomini, ed un'altra maschile, centrata sull'incontro con l'altro, aperta all'avventura e al rischio ed orientata alla promozione dell'autonomia, della trasformazione, della dilatazione delle possibilità, come rilevato dallo stesso Marchesi. La stessa dicotomia è descritta da uno degli educatori intervistati da Arras che parla dell'esistenza di un'affettuosità femminile più contenitiva e “accogliente” diversa da una maschile più “incoraggiante”, quindi metaforicamente «la differenza tra un maschio e una femmina è che la femmina “abbraccia” mentre il maschio “spinge” (…) l'essere mio maschio ed educatore è proprio questo, una spinta a osare, a provare, a farsi male, la madre dice “copriti”, io mi pongo in modo da dire “buttiamoci a fare le cose”».
È chiaro che nessuna di queste due “parti” della cura è esclusiva dell'uomo o della donna, e che qualsiasi relazione eccessivamente sbilanciata su un lato o sull'altro sarebbe distruttiva, da una parte per il rischio, già richiamato, del dominio simbiotico e dall'altro per quello del disinteresse e del trascuramento dei bisogni altrui, ma riconoscere che la “cura” non è altro che la risposta responsabile alla fragilità dell'altro e che può esprimersi nella dialettica delle due polarità di dipendenza e autonomia ci aiuta a capire che l'uomo in quanto maschio non può ritrovarsi naturalmente allontanato dalla cura in sé (altrimenti sarebbe naturalmente “irresponsabile”), ma al massimo può non trovarsi a suo agio con una specifica declinazione della cura che spesso non gli è propria.

Rientrando nello specifico dell'insegnamento elementare è chiaro che, per quanto la risposta ai bisogni più immediati dei bambini sia importante soprattutto nelle prime classi, tutta l'azione della scuola sia in realtà finalizzata all'autonomia e lo spazio per azioni volte a promuoverla e svilupparla sia ampio. Si può, inoltre, fare un parallelo con quanto detto contrapponendo l'idea di un insegnamento inteso come nutrimento culturale e fornitura di informazioni ad uno inteso come critica e smantellamento delle informazioni stesse finalizzato alla costruzione di propri modelli mentali, non mutuati da altri. Anche qui entrambe le funzioni sono indispensabili, perché non si può rielaborare ciò che non si è assimilato e non ha senso assimilare delle informazioni senza farle proprie e tradurle in un linguaggio personale. Per gli alunni sarebbe ugualmente deleterio avere a che fare con insegnanti che si posizionino all'estremo di una delle due polarità, e sarebbe sciocco affermare che i maestri si limitano a svolgere una funzione piuttosto che l'altra. Tuttavia anche qui è possibile che ci sia un'inclinazione verso uno specifico lato del concetto, ed un'azione concertata tra insegnanti inclinati in maniera differente, se non opposta, potrebbe sviluppare relazioni diverse rispetto a quelle che si sviluppano in ambienti in cui l'inclinazione è comune; soprattutto non c'è nulla che impedisca ad un maschio di realizzare il suo proprio modo di prendersi cura dell'altro senza il timore di doversi adattare ad un ruolo materno o femminile che non percepisce come proprio: sia nell'educazione in genere che nell'insegnamento ci sono ampie possibilità di realizzare una cura declinata al maschile, ma anche declinata secondo le inclinazioni che ogni persona porta con sé assieme alla propria unicità e diversità.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il maestro. Ragioni, risorse, specificità e percezioni di una minoranza

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Informazioni tesi

  Autore: Michele Silvi
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2016-17
  Università: Università degli Studi di Macerata
  Facoltà: Scienze della Formazione
  Corso: Scienze della Formazione Primaria
  Relatore: Chiara Sirignano
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 136

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Parole chiave

interviste
diversita
minoranza
maestro
maschio
scuola primaria
specificità
maestra
scuola italiana
educazione omogenea

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