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Il distretto biologico come modello di sviluppo locale: analisi del caso "Filo di Luce in Canavese"

L’istituzione di un distretto biologico secondo diversi approcci

Nell’ultimo decennio, in Italia, si sono diffuse numerose esperienze biodistrettuali (Figura 5) molto differenti tra loro e riconducibili a tre tipologie di iter istitutivi (Franco e Pancino, 2015). Nel primo approccio l’amministrazione regionale ha il compito di individuare, all’interno del proprio territorio, le aree più adatte a divenire distretti biologici secondo una logica top-down. Attraverso una specifica metodologia si individuano i territori adatti allo sviluppo di un distretto biologico e in seguito si procede con il coinvolgimento delle comunità locali. Tale approccio ha il vantaggio di basarsi su criteri oggettivi, su una zonizzazione funzionale condotta “a tavolino” in cui vengono prese in considerazione le variabili ambientali, sociali ed economiche e su queste viene valutata la vocazionalità a distretto biologico del territorio in esame (Franco e Pancino, 2015). Un esempio sono i progetti Biodistrict e Bioreg (2009-2011) finanziati dal MiPAAF e realizzati da un gruppo di ricerca pubblico-privato coordinato dall’Università degli Studi della Tuscia. Il modello proposto dai progetti in questione è stato sperimentato in diverse regioni, tra cui Lazio, Piemonte, Marche e Sicilia. L’intervento dall’alto rende possibile un’integrazione con gli altri livelli della pianificazione regionale, ma corre il rischio di rimanere il risultato di una mera rappresentazione su carta e non un’espressione concreta del territorio. Tale criticità è stata riscontrata in alcuni distretti biologici, che, nonostante la rigorosa metodologia di delimitazione territoriale, si sono rivelati delle “scatole vuote” non in grado di coinvolgere adeguatamente gli attori locali nel processo e di contribuire allo sviluppo locale (Albisinni, 2010).

Un secondo approccio prevede una logica opposta, vale a dire bottom-up, in cui i territori, che ritengono di avere i requisiti, avanzano la propria candidatura alla Regione, che dovrà verificarne l’effettiva corrispondenza con le caratteristiche del distretto biologico. In questo caso gli attori locali sono i protagonisti del processo di istituzione del biodistretto e ciò permette di adattare il progetto ai bisogni, agli interessi e alle potenzialità del territorio. Il processo generalmente ha inizio con la costituzione di un comitato promotore, che si occupa dell’organizzazione di momenti pubblici d’incontro per la condivisione di istanze, obiettivi e strategie, della stesura di un primo documento programmatico, del coinvolgimento degli attori locali, tra cui aziende e associazioni, e della definizione del territorio del biodistretto. In seguito, si procede con la formalizzazione delle adesioni delle amministrazioni pubbliche (comuni, provincia, regione) al progetto del biodistretto. La maggior parte dei biodistretti nati dal basso aderiscono al modello proposto dall’AIAB, che promuove il protagonismo dei produttori biologici che vivono il territorio e la loro cooperazione per valorizzarne le risorse. I biodistretti AIAB, pur seguendo lo stesso disciplinare, presentano caratteristiche molto differenti, ad esempio, dal punto di vista della delimitazione territoriale e della densità demografica. Alcuni, infatti, comprendono oltre 20 comuni con una superficie che supera 1.000 kmq e in cui risiedono più di 50.000 persone, mentre altri sono costituiti da un solo comune con una superficie inferiore ai 100 kmq e meno di 10.000 abitanti. In questo modello un limite significativo è rappresentato dalla mancanza di criteri oggettivi per la delimitazione territoriale e dall’ampia discrezionalità decisionale, fattori che comportano la costituzione di distretti anche in contesti poco adatti al loro sviluppo con il rischio di esperienze fallimentari. Inoltre, i biodistretti, che non rispettano i requisiti di vocazionalità, non vengono riconosciuti dalle amministrazioni regionali e di conseguenza non possono accedere ai fondi.

Per superare le criticità dei due approcci appena illustrati e coniugarne i vantaggi è stato proposto un terzo modello basato sulla governance multi-stakeholder, in cui si combina un’analisi territoriale basata su indicatori oggettivi con la partecipazione e la volontà degli attori locali (Franco e Pancino, 2015). In un primo momento l’amministrazione regionale, supportata anche da figure tecniche esterne, individua i territori potenzialmente adatti per lo sviluppo di un distretto biologico in base sia alla loro struttura socio-economica sia alla filiera biologica. Secondariamente, attraverso momenti pubblici di confronto (tavole rotonde, workshop, convegni) si costituisce un partenariato, come espressione degli interessi locali. L’effettiva delimitazione del distretto, dunque, avviene mediante il coinvolgimento degli stakeholder locali verificando l’effettiva volontà del territorio di proseguire con l’istituzione del biodistretto. Si procede, in seguito, con la redazione di uno studio di fattibilità in cui si delineano i vari aspetti progettuali: attori, territori coinvolti, obiettivi, strategie e risorse. La costituzione del partenariato locale e la stesura del piano di fattibilità sono processi fondamentali per ottenere il riconoscimento normativo del distretto biologico da parte dell’amministrazione regionale. In questo approccio la governance del distretto si sviluppa in orizzontale tramite meccanismi partecipativi e in verticale attraverso il confronto tra i diversi livelli istituzionali.

Il distretto, quindi, non è solamente un’agglomerazione di aziende in un territorio circoscritto, ma un ambiente sociale (Beccattini, 2000) in cui la cooperazione tra i diversi attori locali è orientata alla valorizzazione del territorio. Quest’ultima, secondo Franco e Pancino (2015), non può prescindere dalla creazione di un brand territoriale. Per brand si intende “un nome, un termine, un segno, un simbolo, un disegno o una combinazione di essi, che identificano beni e servizi di un venditore o di un gruppo di venditori per differenziarli da altri competitors” (Kotler et al., 1999, p. 571). Nell’ambito dei biodistretti il valore del brand si costruisce a partire dall’immagine del territorio che si vuole trasmettere mettendo in luce le risorse e differenziandolo dai concorrenti. Il processo di creazione del brand territoriale è complesso in quanto la visione e i valori, che si intendono trasmettere all’esterno, devono essere condivisi da tutti gli attori locali. Inoltre, una volta costruita un’identità di distretto, questa deve essere percepita dai soggetti esterni, tra cui i consumatori, e a tal proposito sono fondamentali le strategie di comunicazione e di promozione territoriale. Nel caso dei biodistretti si tratta di riuscire a creare un brand in grado di trasmettere il valore della produzione biologica, della tipicità locale e della qualità ambientale e far sì che la sinergia tra queste componenti evochi un’immagine positiva e caratterizzante dell’intero territorio in questione.

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Il distretto biologico come modello di sviluppo locale: analisi del caso "Filo di Luce in Canavese"

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Informazioni tesi

  Autore: Chiara Bruzzese
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2017-18
  Università: Università degli Studi di Torino
  Facoltà: Economia e Statistica
  Corso: Cooperazione allo sviluppo
  Relatore: Egidio Dansero
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 121

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