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Sulla pena. Una riflessione filosofica.

Montesquieu e le leggi penali

Sulle pene, sulle leggi penali, sul rapporto tra forme di governo e pena, Montesquieu scrive numerose pagine ne Lo spirito delle leggi. Pagine che rimarranno impresse nella storia e che costituiranno dei punti fermi per il processo di 'umanizzazione' delle stesse leggi penali. Il filosofo francese riuscirà, e sarà tra i primi a farlo, ad analizzare, con dettaglio, la relazione che intercorre tra governo, potere e leggi penali e, con coerenza con tutto il sistema filosofico eretto, fa emergere i rapporti tra dispotismo e pene, e tra governi moderati e pene stesse. Le sue pagine diventano così tra le più celebri del pensiero 'riformatore' per quanto concerne le leggi penali, pensiero che sarà in seguito criticato da Foucault, come tratteremo nei capitoli successivi. Montesquieu vuole mettere in evidenza quanta pericolosità si possa celare dietro leggi apparentemente giuste, le quali esplicano l'arbitrarietà dispotica, in cui ogni singolo individuo può essere sospettato e incolpato. Montesquieu sgancia quindi la pena da un'idea divina o metafisica di giustizia, cercando invece strade 'naturali' e che facciano della moderazione la propria essenza costitutiva. Ecco perché il filosofo francese non va alla ricerca di presunte leggi giuste, né stila una serie di precetti morali, in quanto riporta la pena su una strada 'naturalistica', su un piano terreno. Egli mira a mostrare i legami tra potere e pena, non vuole elencare semplicemente ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e da lì trarne le migliori leggi penali. Pur quindi muovendosi all'interno di un quadro storico dell'epoca, pur non emancipandosi da certe strutture di pensiero - ad esempio accetta l'idea della pena di morte e del supplizio - Montesquieu accoglie l'idea della complessità del tema e la staglia in uno sfondo relazionale e non banalmente definito.
I libri VI e XII dell'EL esprimono con acume e con una corposa analisi il pensiero filosofico di Montesquieu sulle leggi penali e le forme di governo. Nel capitolo nono del libro VI, Della severità delle pene nei diversi governi, scrive così:

small>La severità delle pene conviene di più al governo dispotico il cui principio è il terrore, che alla monarchia e alla repubblica, le quali hanno per incentivo l'onore e la virtù.
Negli Stati moderati, l'amor di patria, la vergogna e il timore del biasimo sono motivi reprimenti che possono arrestare molti reati. Il maggior castigo per una cattiva azione sarà d'esserne riconosciuti colpevoli. Le leggi civili perciò vi porteranno correzioni più facilmente, e non avranno bisogno di troppa forza


E ancora:

Sarebbe facile provare che in tutti o quasi tutti gli Stati europei le pene sono andate diminuendo o aumentando a misura che ci si è più avvicinati o più allontanati dalla libertà.
Nei paesi dispotici si è tanto infelici che vi si teme la morte più di quanto non si rimpianga la vita; perciò i supplizi devono esservi più rigorosi


Montesquieu rileva quindi come un numero limitato di pene possa essere sufficiente per un popolo virtuoso e come, invece, in un regime dispotico esse siano contraddistinte da forte crudeltà, dall'esemplarità, in quanto il principio che muove la stessa forma di governo è il terrore e la paura. Quel continuo stato di ansia di cui ci occupavamo sopra torna prepotentemente qui. Il terrore, in un regime dispotico, la fa da padrone, e si esplica nelle leggi e nelle pene crudeli. Le leggi di uno Stato moderato non hanno bisogno della forza e della crudeltà, soprattutto non si alimentano di terrore ed arbitrarietà, ma pongono come obiettivo la correzione dell'individuo - tema questo che sarà ripreso in maniera critica da Foucault a proposito di 'riforma della pena' - e la pena come riconoscimento sociale della colpevolezza, non come vendetta di un uomo solo. E' proprio questa la sostanziale differenza, il salto di qualità che pone Montesquieu, il passaggio da un pena 'vendicativa', brutale, ad una pena 'correttiva', più 'umana', che vive già nel marchio sociale che essa porta con sé e che non necessita di forza bruta e di sangue vendicativo. Anche in questo campo il filosofo francese mette in azione la moderazione come motivo dominante in antitesti a qualsiasi modello estremo ed illegale, oltre che disumano. Non occorrono pene brutali, lo prova la storia e l'esperienza stessa: ‹‹L'esperienza ha fatto osservare che nei paesi in cui le pene sono miti, lo spirito del cittadino ne è impressionato come altrove lo è delle pene gravi››. Non occorrono continue pene di morte, né pene esemplari, né cruente pene corporali, né mezzi estremi che torturano arbitrariamente:

Seguiamo la natura, che ha dato agli uomini la vergogna come loro flagello, e facciamo sì che la parte maggiore della pena sia l'infamia di subirla.
Infatti, se vi sono paesi in cui la vergogna non è la conseguenza del supplizio, ciò dipende dalla tirannide, la quale ha inflitto le stesse pene agli scellerati e agli uomini onesti. E se ne vedete altri in cui gli uomini non sono trattenuti che da supplizi crudeli, contate pure che ciò dipende dalla violenza del governo che ha impiegato le stesse pene per colpe leggere.
Spesso un legislatore che vuole correggere un male non pensa che a questa correzione: i suoi occhi sono aperti a questo scopo, e chiusi agli inconvenienti. Una volta corretto il male, non si vede più che la durezza del legislatore; ma nello Stato rimane un vizio prodotto da questa durezza: gli spiriti sono corrotti, si sono abituati al dispotismo


Montesquieu quindi propone un modello più 'umano', che fondi sulla vergogna l'espiazione del reato riconosciuto, e che non basi sulla crudeltà la sua struttura penale. La crudeltà del dispotismo e delle sue pene finisce per corrompere anche gli onesti, li abitua e li forma all'interno di tale brutalità. I popoli si abituano al dispotismo, entrano in un meccanismo vizioso da cui faticano ad emanciparsi, quasi per pigrizia intellettuale ed etico - politica. In tale contesto la pena diventa non correttiva, come vorrebbe Montesquieu, ma esclusivamente vendicativa, in quanto esplicazione della 'superiorità' del despota e delle sue idee, simbolo estremo ed evidente della sua potenza, la quale va condivisa totalmente ed assolutamente. La legge penale si erge pertanto a simbolo e strumento, soprattutto, di potere, mezzo per occultare ogni possibile tentativo di rendere illegittimo il potere dispotico costituito. E così in Giappone ‹‹per esempio, un uomo che rischia del denaro al gioco, è punito con la morte››, e lo spirito delle leggi sono basate più sul furore che sulla forza. Montesquieu mette in evidenza le contraddizioni dei popoli dominati dal dispotismo orientale, i quali basano sull'estremità delle leggi la loro legislatura e le loro regole e pene. Al contrario il filosofo francese guarda con ammirazione la mitezza delle pene che caratterizzava la legislatura romana, fino a quando, anche nell'impero romano, la brutalità la fece da padrone, cominciando quel declino che portò alla sua distruzione e fine. Per Montesquieu è ‹‹essenziale che le pene siano in armonia fra di loro›› ed evitare ogni forma disumana della legge, che nel dispotismo finisce per alimentarsi anche di tortura.

Vediamo oggi che una nazione molto ben governata la respinge senza inconvenienti. Dunque, non è necessaria per sua propria natura.
Tante persone competenti e tanti brillanti ingegni hanno scritto contro questa pratica, che io non oso parlare dopo di loro. Stavo per dire che potrebbe convenire nei governi dispotici, in cui tutto quello che ispira la paura entra di più nei metodi del governo; stavo per dire che gli schiavi, presso i Greci e i Romani...Ma sento la voce della natura contro di me


Così Montesquieu scrive a proposito di tortura. Gli Stati dispotici si alimenta di esse. Le sue leggi sono semplici, evitano la complessità per loro natura, perché dispiegano attraverso l'arbitrarietà e i capricci di un uomo solo. ‹‹Gli Stati dispotici, che amano le leggi semplici, fanno grande uso della legge del taglione. Gli Stati moderati l'ammettono qualche volta; ma c'è questa differenza, che i primi la fanno esercitare rigorosamente e gli altri la temperano quasi sempre››.
E' nel libro XII che Montesquieu entra nel dettaglio delle singole leggi penali, ed analizza le leggi che determinano la libertà politica nel suo rapporto col cittadino - come recita il suo titolo. Qui Montesquieu ne fa quasi una battaglia di civiltà, in quanto non bastano buone leggi fondamentali per garantire la libertà del cittadino; possono esserci costituzioni libere ma non liberi cittadino. Sono le particolari leggi civili che rendono uno Stato dispotico, soprattutto le relazioni che si creano al suo interno. L'aspetto culturale, in questa analisi, diviene preponderante, essenziale, basilare. Montesquieu non cerca utopici ideali di libertà, ma entra di petto nel concreto, nella prassi quotidiana nuda e cruda, nella realtà fattuale, sganciando la pena e la legge da una metafisica fallace e giustificatrice, legata a idee ritenute ontologicamente superiori di giustizia a cui adeguare la realtà stessa. Montesquieu riporta la pena sul terreno quotidiano, in una dimensione civile, culturale e socio - politica. Non sublima il suo discorso con retorica, ma aggancia la sua analisi alle realtà sociali europee ed extraeuropee. Così introduce il libro XII:

Non basta aver trattato delle libertà politica nel suo rapporto con la costituzione; bisogna farla vedere nel rapporto che ha col cittadino.
Ho detto che, nel primo caso, è formata da una certa distribuzione dei tre poteri; ma, nel secondo, bisogna considerarla sotto un altro aspetto. Essa consiste nella sicurezza, o nell'idea che si ha della propria sicurezza. Può avvenire che la costituzione sia libera, e che il cittadino non lo sia. Il cittadino potrà essere libero, e la costituzione non esserlo. In questi casi, la costituzione sarà libera di diritto, e non di fatto; il cittadino sarà libero di fatto e non di diritto.
Non c'è che la disposizione delle leggi e, di più, delle leggi fondamentali, che determini la libertà nel suo rapporto con la costituzione. Ma nel rapporto col cittadino, ci sono i costumi, maniere, esempi ricevuti che possono farla nascere; e certe leggi civili favorirla, come vedremo nel libro presente.
Inoltre, poiché nella maggior parte degli Stati la libertà è più intralciata, offesa e oppressa di quanto non lo richieda la loro costituzione, è bene parlare delle leggi particolari che, in ogni costituzione, possono aiutare o danneggiare il principio di libertà di cui ciascuno d'essi può essere suscettibile


Così Montesquieu inizia brillantemente il libro dodicesimo prima di analizzare nel dettaglio le varie leggi penale e il loro rapporto con il potere. Non prima però di avere delineato e definito cosa egli intende per libertà. Quella filosofica ‹‹consiste nell'esercizio della propria volontà, o almeno (se si deve parlare per tutti i sistemi) nell'opinione che si ha di esercitare la propria volontà. La libertà politica consiste nella sicurezza, o almeno nell'opinione che si ha della propria sicurezza. Questa sicurezza non è mai tanto minacciata come nelle accuse pubbliche o private. Dunque dalla bontà delle leggi penali dipende principalmente la libertà del cittadino››. E' molto importante la relazione e l'associazione che intravede e riconosce come oggetto di conoscenza Montesquieu per quanto concerne le leggi penali e la libertà del cittadino. Nelle accuse pubbliche o private egli denota la possibilità di usurpare la libertà individuale laddove le leggi penali non vengano correttamente disciplinate. In tale caso, ovvero nei regimi dispotici, le stesse leggi finiscono per divenire quello strumento di potere di cui parlavamo, e le accuse, i processi stessi, diventano esibizioni della potenza dispotica, addirittura coinvolgendo, nel senso patico dell'azione, il popolo stesso in tutto ciò. Montesquieu sa bene quale pericolo serbano le leggi, quale mezzo di potere possano essere diventare sulla pelle del volgo, ignorante e manipolabile a piacimento da un despota. Ecco perché ricerca un sistema legislativo mite, moderato, complesso, che possa salvaguardare la libertà filosofica e politica di ogni cittadino. ‹‹Il trionfo della libertà si ha quando le leggi penali traggono ogni pena dalla natura particolare del delitto. Cessato ogni arbitrio, la pena non deriva dal capriccio del legislatore, ma dalla natura delle cosa; e non è l'uomo che fa violenza all'uomo››. Montesquieu cerca - strada assolutamente non facile e incline anch'essa a manipolazioni e sublimazioni teologiche - metafisiche - un percorso il più possibile 'naturalistico' nel campo legislativo. E' da cogliere - ed è questo probabilmente l'aspetto più interessante - il tentativo di sganciare la legge dal capriccio del singolo uomo, avvicinandola, invece, alle cose stesse, alla realtà di fatto, proprio per evitare l'arbitrarietà continua ed il terrore costante, principio, molla energetica di quel regime dispotico tanto contrastato.

Così il filosofo francese individua quattro tipi di reato: quelli che offendono la religione, quelli che offendono i costumi, quelli che offendono la quiete pubblica e quelli che offendono la sicurezza dei cittadini. Da ciò devono derivare, per il filosofo francese, le pene adeguate, secondo la natura delle cose. Prendiamo ad esempio quelli della terza categoria, ovvero quelli che offendono la tranquillità dei cittadini: ‹‹le pene devono esserne tratte dalla natura delle cose, e riferirsi a quella tranquillità, come la prigione, l'esilio, le correzioni e altre pene che richiamano gli spiriti inquieti e li fanno rientrare nell'ordine stabilito››; per tali reati Montesquieu prevede quindi la correzione, mentre per quelli della quarta categoria, i supplizi, ‹‹è una specie di taglione, per cui la società rifiuta la sicurezza a un cittadino che ne ha privato, o ha voluto privarne un altro. Questa pena è tratta dalla natura della cosa, attinta dalla ragione e dalle fonti del bene e del male. Un cittadino merita la morte quando ha violato la sicurezza al punto di aver tolto la vita, o tentato di toglierla. Questa pena di morte è come il rimedio della società malata. Quando si viola la sicurezza dei beni, possono esserci delle ragioni perché la pena sia capitale; ma varrebbe forse meglio, e sarebbe più naturale, che la pena dei reati contro la sicurezza dei beni fosse punita con la perdita dei beni; e così dovrebbe essere se le fortune fossero comuni o uguali. Ma siccome è proprio chi è privo di beni che attacca più spesso e volentieri quelli degli altri, è stato necessario che la pena corporale supplisse a quella pecunaria››. Montesquieu ammette quindi la possibilità della pena capitale, pur mostrando perplessità al riguardo. La ammette di fatto in estrema ratio, preferendo altre forme più naturale, anche se evita di escluderla totalmente. Si muove quindi in un ambito riformistico pur all'interno del suo sfondo storico. Come abbiamo già accennato e trattato di Montesquieu va colto, il più delle volte, il metodo scientifico analitico con cui affronta tematiche studiate diversamente in precedenza, al di là dei contenuti in sé, i quali risentono, oltre modo, del quadro storico politico. Ma proprio a partire dall'individuazione scientifica di taluni oggetti di conoscenza sarà possibile d'ora in poi trattare delle leggi penali, della tripartizione dei poteri, della rappresentatività politica e istituzionale. Il quadro filosofico di Montesquieu potrà quindi dispiegarsi nel futuro oltre le sue stesse idee fattuali, proprio perché esso si fonda non principalmente su esse, ma sulla rete entro cui si esplicano. Ciò che conta principalmente, per Montesquieu, è porre le basi per uno Stato naturalmente e istituzionalmente antidispotico, che si muova entro uno sfondo il più possibile moderato e legale, e che si emancipi dai legami assolutistici, metafisici e teologici che avevano costituito le società medievali e orientali, che ora minacciavano le monarchie europee. Montesquieu non supera l'architettonica monarchica, ma pone le basi per il suo superamento. Si occupa sostanzialmente di ogni campo in cui l'arbitrarietà vive con forza, quindi in particolare nelle regole del gioco, ovvero nel settore legislativo e penale, in questo caso. ‹‹Massima importante: bisogna essere cautissimi quando si procede contro la stregoneria e l'eresia. L'accusa di questi due reati può offendere sommamente la libertà ed essere fonte di una infinità di atti tirannici, se il legislatore non sa tenerla a freno. Infatti, siccome non si basa direttamente sulle azioni di un cittadino, ma piuttosto sull'idea che ci si è fatta del suo carattere, diventa pericolosa in proporzione dell'ignoranza del popolo; il tal modo il cittadino è sempre in pericolo, perché la miglior condotta del mondo, la morale più pura, la pratica di tutti i doveri non sono garanzie sufficienti contro il sospetto di questi delitti››. Montesquieu teme che le leggi possano diventare strumento di potere arbitrario, e che, basandosi sul semplice sospetto - vedasi la stregoneria - possano colpire indiscriminatamente ogni cittadino, perfino il più onesto moralmente. E' da questo modello che il filosofo vuole emanciparsi e che critica aspramente, e che soprattutto teme per il suo Stato francese e per le varie monarchie europee. Egli teme una deriva dispotica che comporti la minaccia continua per ogni cittadino, nessuno escluso. E per far ciò si serve dell'esperienza, sia storica, e sia antropologica e culturale, comparando i vari sistemi orientali dove quei regimi dispotici dominano incontrastati da anni. I capricci dispotici si dispiegano proprio attraverso le leggi e soprattutto tramite le idee generali che e muovono. Ecco lo spirito delle leggi dispotiche, prive di ogni fondamento scientifico e filosofico, le quali sfruttano l'ignoranza popolare. ‹‹E' singolare che, fra noi, siano puniti con la pena del rogo tre delitti: la magia, l'eresia e il delitto contro natura, dei quali si potrà provare che il primo non esiste; il secondo, è suscettibile d'una infinità di distinzioni, interpretazioni; il terzo, spessissimo è oscuro››, così Montesquieu riassume il suo pensiero in modo brillante e chiaro. Laddove vi sono pene crudeli, quali il rogo addirittura, vi sono, paradossalmente, i reati più fittizi e privi di sostanzialità; ecco che tutti, nessuno escluso, può ritenersi immune da questo circolo vizioso, dalla minaccia continua, dal terrore che si dispiega in modo totalitario ed assoluto. Tutti sono potenziali colpevoli nel dispotismo, pur senza colpe. Nel momento in cui si fanno accettare reati come l'eresia, la stregoneria, la magia, il delitto contro natura, ecco che tutti possono essere potenzialmente uccisi, bruciati vivi, sono tutti alla mercé del despota. E' ciò che ritroveremo, in forme completamente diverse, alle origini del totalitarismo che la Arendt tratterà con estrema puntualità. Dov'è la verità, la colpa, la pena, se la relaziona causa - effetto, già di per sé ambigua e complessa, si riduce alla arbitrarietà del giudizio e delle leggi, alla mancanza assoluta di scientificità? Solo la tortura finalizzata alla confessione potrà giustificare tale barbarie e tale spettacolarizzazione della pena, come indicherà lo stesso Foucault. Montesquieu avrà il merito, quindi, di individuare tutta la pericolosità di tali presunte forme di reato e come esse siano, di fatto, il vero strumento di potere attraverso cui si alimenta il regime dispotico. Montesquieu vuole invece sganciare tutto il sistema penale dall'arbitrarietà del potere, rendendolo il più possibile vicino alla natura delle cose, il più possibile umano, troppo umano. Forse non siamo ancora al riconoscimento della pena come semplice forma di utilità sociale, o come addirittura forma di assoggettamento dell'individuo, ma siamo senz'altro all'emancipazione di essa da un sistema teologico - metafisico, e all'individuazione di tale associazione come possibile e pericolosa forma di potere. E' il potere che delimita il potere, sono le leggi che delimitano il potere, e non viceversa, secondo Montesquieu. In caso contrario ogni azione, ogni cosa può essere pretesto per punire. ‹‹Le leggi della Cina stabiliscono che chiunque manchi di rispetto all'imperatore debba essere punito con la morte. Siccome non precisano che cosa sia questa mancanza di rispetto, tutto può offrire un pretesto per toglierla la vita a chi si vuole, e sterminare la famiglia che si vuole [...]. Basta che il delitto di lesa maestà sia vago, perché il governo degeneri in dispotismo››. Il delitto di lesa maestà diventa così il pretesto per applicare il potere dispotico, proprio perché basate sull'arbitrarietà.

Il delitto di lesa maestà non è mai tanto arbitrario come quando ne divengono argomento le parole indiscrete. I discorsi sono talmente soggetti all'interpretazione, v'è tanta sofferenza fra l'indiscrezione e la malizia, e ve n'è tanto poca nelle espressioni che adoperano, che la legge non può sottoporre delle parole a una pena capitale, a meno che non dichiari espressamente quali sono quelle che vi sottopone.
Le parole non costituiscono un corpo di reato; esse non restano che nel campo delle idee. La maggior parte delle volte non hanno significato di per sé, ma per il tono cui vengono pronunciate. Spesso, ripetendo le stesse parole, non si rende lo stesso senso; questo senso dipende dal legame che hanno con altre cose. Talvolta il silenzio esprime più di qualunque discorso. Non vi è nulla di più equivoco di tutto ciò. Come farne dunque un delitto di lesa maestà? In tutti i luoghi in cui è stabilita questa legge, non soltanto non esiste più la libertà, ma nemmeno la sua ombra.


Il finale di questo passo mostra in modo crudo e chiaro il pensiero di Montesquieu al riguardo: laddove esiste il delitto di lesa maestà non v'è nemmeno l'ombra della libertà. Le parole non possono costituire un corpo di reato, addirittura capitale; esse rimangono invece nel campo delle idee, interconnesse in un sistema di relazioni complesso. Allo stesso modo del delitto di lesa maestà Montesquieu tratta quello delle presunte cospirazioni:

"Quando tuo fratello, o tuo figlio, o tua figlia, o la tua moglie amata, o la tua amica che è come l'anima tua, ti diranno in segreto: 'Andiamo ad altri dèi, tu li lapiderai; prima sarà su loro la tua mano, poi quella di tutto il popolo". Questa legge del Deuteronomio non può essere una legge civile presso la maggior parte dei popoli che conosciamo, perché vi aprirebbe la porta a tutti i delitti.
Non meno dura è la legge che ordina, in parecchi Stati, di denunciare, sotto pena di morte, le cospirazioni alla quali non si è nemmeno preso parte. Qualora la si introduca nel governo monarchico, conviene assai restringerla.
Non vi deve essere applicata in tutta la sua severità, che al delitto di lesa maestà di primo grado. In questi casi è importantissimo non confondere i differenti gradi di questo delitto.


Non ci possono essere pene arbitrarie, delitti arbitrari, che possano colpevolizzare che non ha fatto nulla, ed inquisire per il semplice sospetto, oppure per reati fittizi e privi di senso, quali l'eresia, la magia, la stregoneria, la lesa maestà e la presunta cospirazione. Montesquieu vuole così rendere più civile tutto il sistema legislativo ed evitare derive dispotiche in tal senso. il governo deve essere il più possibile moderato, ‹‹nelle nostre monarchie, la felicità sta tutta nell'opinione che il popolo ha della mitezza del governo. Un ministro inabile vuole sempre avvertirvi che siete schiavi. Ma se ciò fosse, dovrebbe cercare di farlo ignorare. Non sa dirvi o scrivervi, se non che il sovrano è dispiaciuto; che è sorpreso; che metterà ordine. Comandare è facile almeno in questo: bisogna che il sovrano incoraggi, e che siano le leggi a minacciare››.
Montesquieu conclude questo libro dedicato alle leggi penali quasi con un auspicio, un invito a cercare di infondere un po' di libertà anche nei governi dispotici. E' come se il filosofo francese allargasse l'orizzonte anche nei luoghi che egli stesso contrasta, nel tentativo di salvaguardare un minimo di spazio di libertà. E come è possibile? Ecco che Montesquieu riprende un tema già trattato in precedenza, ovvero il ruolo della religione come possibile strumento per garantire un piccolo margine di libertà all'interno di un regime dispotico. Una sorta di verità superiore, l'unica riconosciuta come tale, rispetto al potere immenso di uomo solo al comando. E' ad essa che Montesquieu guarda e si aggancia per rendere più umano quel regime che egli sottopone ad aspra critica ed analisi dall'inizio della sua opera.

Quantunque il governo dispotico, per sua natura, sia dovunque lo stesso, tuttavia alcune circostanze, una opinione religiosa, un pregiudizio, qualche esempio ricevuto, un modo di pensare, certe maniere, certi costumi, possono mettervi considerevoli differenze.
E' bene che certe idee vi siano stabilite. Così, in Cina, il sovrano è considerato il padre del popolo, e agli inizi dell'impero degli Arabi, il principe ne era il predicatore.
E' conveniente che vi sia qualche libro sacro che serva di regola, come il Corano presso gli Arabi, i libri di Zoroastro presso i Persiani, i Veda presso gli Indiani, i libri classici presso i Cinesi. Il codice religioso supplisce al codice civile, e fissa ciò che è arbitrario.
Non è male che, nei casi dubbi, i giudici consultino i ministri della religione. Se il caso merita la morte, può essere conveniente che il giudice particolare, se c'è, richieda l'avviso del governatore, affinché il potere civile e quello ecclesiastico siano per di più temperati dall'autorità politica.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Sulla pena. Una riflessione filosofica.

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Informazioni tesi

  Autore: Mirko Nistoro
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2012-13
  Università: Università degli Studi di Bologna
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Filosofia
  Relatore: Domenico  Felice
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 136

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