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Disuguaglianza e Sustainable Development Goals: progressi e contraddizioni nell’ottica dello sviluppo sostenibile

Spostare l’analisi: la disuguaglianza economica in Europa

Nel primo capitolo di questa trattazione abbiamo subito focalizzato la nostra analisi sul caso emblematico degli Stati Uniti, esaminando cosa succede a una grande potenza economica in presenza di alti livelli di disuguaglianza, non soltanto perché l’esempio è utile per la comprensione del fenomeno, ma anche per poter consentire, adesso, una comparazione con quanto invece sta avvenendo nel nostro continente. Nonostante alti tassi di disuguaglianza siano presenti anche in Europa, è interessante notare come, addirittura, il fenomeno si possa presentare non solo intra-stati, ma anche inter-stati: risulta rimarchevole non tanto la disuguaglianza tra individui, anch’essa comunque fortemente presente in determinati paesi, quanto la disuguaglianza tra stati membri stessi, la quale ha causato complessi problemi economici e politici che sin dalle fasi embrionali di unificazione europea si sono riverberati sull’intero sistema.
Riuscendo a offrire un quadro generale del funzionamento dell’eurosistema e dei suoi difetti strutturali, è possibile delineare così anche una panoramica sull’efficacia delle politiche intraprese nell’ottica della sostenibilità, e in particolare nella lotta alle disuguaglianze.
Economicamente parlando, né gli Stati Uniti né l’Europa hanno presentato grandi performance economiche negli ultimi quarant’anni. Come accennato nel primo capitolo, la crescita è stata bassa e la maggior parte di essa è andata a beneficio di pochi. Gli Stati Uniti mantengono il primato del più alto tasso di disuguaglianza dei paesi avanzati, ma il problema, seppure con le dovute proporzioni, colpisce anche l’Europa.
Ma l’Unione Europea, dal punto di vista economico e politico, è stato senz’altro un esperimento interessante. E se si analizza cronologicamente la storia economica dell’Unione Europea, ci si rende conto che forse questo esperimento non ha funzionato esattamente come avrebbero voluto i visionari che l’hanno ideata. L’eurozona fu concepita come l’ulteriore passo necessario per implementare e rafforzare il progetto europeo cominciato negli anni ’50: integrare i paesi di Europa, renderli più simili l’uno all’altro. In quel senso, l’idea e il progetto furono essenzialmente politici. Ma le politiche messe in atto non sono state forti ed efficaci abbastanza per fare quanto richiesto affinché venissero a crearsi le condizioni perché un’unica valuta potesse funzionare nell’ampio e variegato spettro della diversità dei paesi europei. Certo, esistono ampie differenze anche nei paesi che compongono gli Stati Uniti, ma essi condividono, però, tutti un’unica valuta ed essa funziona. La domanda sorge dunque spontanea: perché il dollaro funziona negli USA e l’euro non sta funzionando in Europa? L’euro, al contrario di quanto questa trattazione potrebbe sembrare di suggerire, può funzionare, ma le idee formulate recentemente si basano su un unico postulato: esso non può funzionare così com’è stato originariamente concepito.
Per far funzionare una singola valuta su un largo gruppo di paesi diversi, è richiesto un intero set di differenti istituzioni. La ragione è molto semplice: quando si condivide una singola valuta, si eliminano due importanti meccanismi di aggiustamento: il controllo del tasso di interesse e del tasso di cambio, che permettono di controllare con buona approssimazione la risposta di un paese ad uno shock esterno (si consideri, ad esempio, la crisi dei subprime del 2008).
Se si fissa il tasso di cambio, esso per alcuni paesi può risultare disallineato rispetto ai prezzi. Gli economisti credono fermamente nell’aggiustamento dei prezzi come un modo per monitorare l’economia: se il tasso di cambio è “sbagliato” significa che le importazioni sono superiori alle esportazioni. Dunque, viene a crearsi l’esigenza di prendere in prestito moneta per finanziare il proprio disavanzo, ma se nessun altro paese è disposto a prestare moneta ecco che lo stato entra in crisi. In una situazione in cui il tasso di cambio è variabile, esso si aggiusta in modo tale da fluttuare liberamente, e nel nostro caso abbassarsi per rendere le esportazioni più convenienti e le importazioni più costose, ripristinando il normale equilibrio. Ciò, con una moneta unica, non può essere fatto, perché il tasso di cambio viene fissato, così viene analizzato quello che viene chiamato tasso di cambio effettivo reale che tiene in considerazione il livello dei prezzi nei differenti paesi. Così, vi sono due modi per riallineare i tassi di cambio reali, sbilanciati da differenze di crescita di produttività o dei prezzi nei diversi paesi: i prezzi, appunto, possono crescere nel paese forte, o deprimersi in quello instabile, con una politica che riduca i salari e aspettandosi che la manovra si riduca in un abbassamento dei prezzi. Apparentemente, potrebbe sembrare lo stesso processo, ma non lo è: quando i prezzi scendono in un paese, ciò viene chiamato svalutazione interna. Le persone del paese in difficoltà, ad esempio, potrebbero aver contratto debiti, o acceso mutui, e ritrovarsi in una condizione peggiore di quella iniziale, prendendo in prestito denaro con l’aspettativa che il loro salario sarebbe rimasto lo stesso e venendosi a generare, così, ulteriore caos economico. L’alternativa è che il paese stabile alzi i prezzi e i salari, rendendo così più facile il processo di risanamento del debito, cosa che però ovviamente non avviene.
La crisi viene spesso descritta come un problema di leverage finanziario eccessivo, ma spesso ciò che innalza la leva finanziaria oltre il livello accettabile è proprio il processo di abbassamento dei prezzi e dei salari, poiché aumenta il rapporto tra i debiti delle famiglie, delle imprese e anche dei governi rispetto al loro reddito nominale: è uno dei molti modi coi quali la crisi ha continuato a perpetrarsi in Europa.
Nel caso dell’eurozona, non è stato messo in atto nessun meccanismo alternativo che potesse fare fronte a simili problemi, e nessun meccanismo che potesse obbligare i paesi in surplus, come la Germania, ad aggiustare il proprio surplus per alzare i prezzi. Al contrario, hanno lasciato interamente gli oneri di tali aggiustamenti agli stati in difficoltà. Ma c’è di peggio: hanno “legato le mani” ai paesi europei. Se non si può agire sul tasso di cambio o sul tasso di interesse, un economista avanzerebbe l’opzione di agire sulla politica fiscale, stimolare il prelievo o la spesa pubblica, ma l’Europa pone stretti vincoli anche a questo, dal momento che uno dei parametri di Maastricht vieta di andare oltre il 3% di deficit. Se ci si rifugia nell’uso della politica monetaria con manovre espansive che aumentino la quantità di moneta, ci si scontra con la Banca Centrale Europea, la quale si fa carico di un solo compito: la lotta all’inflazione. Ancora una volta, se si prova comparativamente ad analizzare la Federal Reserve americana, si potrà notare che essa si preoccupa di fronteggiare l’inflazione e la disoccupazione, stimolare la crescita e mantenere la stabilità finanziaria. Si potrebbe dire, quindi, che il set di regole istituite dalla Comunità Europea era destinato a fallire.
A riguardo, sono molte le opinioni di economisti e accademici che attribuiscono la colpa dei continui fallimenti e recessioni ai policymakers e alle politiche da essi condotte, e inoltre, in particolare, diverse correnti di pensiero politiche ed economiche sembrano propendere per l’insistere sulla linea dell’austerità economica che, invece, molti economisti e persino il Fondo Monetario Internazionale hanno sostenuto non abbia mai funzionato.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Disuguaglianza e Sustainable Development Goals: progressi e contraddizioni nell’ottica dello sviluppo sostenibile

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Informazioni tesi

  Autore: Riccardo Giannini
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2018-19
  Università: Università degli Studi Roma Tre
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Relazioni internazionali
  Relatore: Cristiana Carletti
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 124

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