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Il padre affidatario - Un percorso esplorativo tra nuovi assetti familiari e intrecci intergenerazionali

L’affidamento esclusivo al padre

Si può affermare che, quando ci si trova in un aula di tribunale e si discute di affido, il padre assume una posizione sfumata di fondo, in stridente contrasto con la centralità che viene riservata alla madre. «…la madre non deve dimostrare di essere una buona madre, di avere motivi particolari che giustifichino l’affido dei figli. Il suo è un diritto assiomatico “naturale”, non richiede dimostrazioni o sostegni. Il padre, invece, dovrà giustificare - eccome - la sua richiesta e dimostrare di essere un padre “speciale”».
Uno sconfortante - per i padri - immobilismo concettuale dei giudici, ancorati, come si è visto in precedenza, ai più comuni e abusati stereotipi. Questo per affermare e avvalorare ulteriormente l’assunto che il ricorso al padre quale destinatario dell’affidamento è, oltre che in senso strettamente numerico, anche concettualmente marginale, quando si pensi che le reali chances di un padre di essere favorito, derivano quasi totalmente da accertate indegnità e/o incapacità della madre.
Un altro motivo che si affianca e contribuisce a determinare lo scarso numero di affidi paterni è la minor quantità di richieste che i padri rivolgono al magistrato. E’ una situazione che necessita di un’attenta analisi: «l’ipotesi che i padri non chiedano l’affidamento dei figli […] è un’affermazione vera solo in parte e comunque ha una sua spiegazione.
Da un lato, la percentuale di affidamenti ai padri è così modesta da scoraggiare qualsiasi genitore dall’intraprendere questa strada. Spesso sono gli stessi avvocati a dissuadere il loro cliente (e male fanno quanti illudono i padri con l’ipotesi di battaglie legali spietate e vittoriose, che quasi mai, in realtà si traducono in un successo) […]. Sta di fatto che la magistratura è decisamente orientata verso l’affidamento materno».
Da quanto esposto si può allora ipotizzare che il numero esiguo delle richieste di affido da parte dei padri derivi non tanto e non soltanto dalla supposta mancanza di interesse e responsabilità nei confronti dei figli, quanto piuttosto da una sorta di “legittima difesa” dall’iter processuale, che li porta a reprimere affetti e aspirazioni ancor prima di metterli in gioco, nel tentativo di non ritrovarsi ad affrontare un ulteriore vissuto di perdita.
Si può immaginare la sensazione di sconforto di un padre, motivato a non privarsi dei figli, che vede vanificarsi ogni sforzo teso ad assicurarsi, se non l’affido, almeno dei congrui periodi di convivenza con essi.
Rammentando sempre che i coniugi sono giunti a tanto a seguito della crisi del rapporto di coppia e per effetto del conflitto che di conseguenza è esploso, è evidente che queste condotte processuali dall’esito a senso unico, che di fatto enucleano, se non espellono, il padre da un contesto di rapporti familiari dopo la separazione, rappresentano benzina sul fuoco della contesa.
Accade frequentemente che il padre sposti, in conseguenza della crisi, i propri affetti e le proprie certezze sui figli, sovraccaricando di valori il rapporto con essi, che vengono a rappresentare “ciò che si è salvato, quello che è rimasto di buono” del matrimonio.
La separazione, che segna un momento radicale nella vita della famiglia, impone al padre un profondo cambiamento negli aspetti quotidiani della sua vita, ma soprattutto nella continuazione della sua esperienza di genitore, nel rapporto con i figli; l’immagine che egli ha di se stesso, del modo di viversi come genitore.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il padre affidatario - Un percorso esplorativo tra nuovi assetti familiari e intrecci intergenerazionali

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Informazioni tesi

  Autore: Monica Leva
  Tipo: Tesi di Laurea
  Anno: 2003-04
  Università: Università degli Studi di Roma La Sapienza
  Facoltà: Psicologia
  Corso: Psicologia
  Relatore: Maurizio Andolfi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 282

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Parole chiave

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