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Il brand 'Made in Italy'

Quale via per difendere il Made in Italy?

È dunque evidente che sono le PMI le imprese maggiormente esposte al pericolo con l'ascesa della Cina a potenza economica mondiale: sono quelle maggiormente colpite dagli aspetti negativi (come già detto, contraffazione e concorrenza sleale) e non possono nemmeno godere degli aspetti positivi, poiché non sono ancora maturi i tempi di un'internazionalizzazione, specialmente così lontano. I settori più minacciati sono il tessile-abbigliamento e la filiera pelli-calzature, tutt'altro che marginali per l'economia italiana. La minaccia è ancora più grave dal 2005, quando sono stati completamente liberalizzati gli scambi nel settore, con la fine del regime di quote all'import di UE e USA, e l'abbandono del regime di quote sull'import calzaturiero europeo dalla Cina.
In breve, il settore tessile era protetto dagli anni ‟70 da un accordo internazionale, l'”Accordo Multifibre”, che prevedeva un'iniziale durata di soli cinque anni, ma che è stato poi costantemente rinnovato fino al 1994 (nonostante fosse in palese violazione delle norme del GATT, il General Agreement on Tariffs and Trade, l'accordo internazionale del 1947 che stabilisce le basi di un sistema multilaterale di relazioni commerciali allo scopo di favorire la liberazione del commercio mondiale), quando se ne decise lo smantellamento, seppur graduale. Infatti furono concessi dieci anni di tempo per adottare le nuove misure, regolate dall'Agreement on Textile and Clothing. La scadenza era dunque prevista da anni, ma al tempo non era immaginabile una tale ascesa della Cina a potenza economica mondiale, né il suo ingresso nella WTO. Grazie alle liberalizzazioni, c'è stato un fortissimo aumento di importazioni asiatiche, che hanno sovvertito i flussi commerciali: la Cina ha conquistato prima il mercato statunitense e poi quello europeo grazie alla pratica dei prezzi molto bassi, inferiori a quelli degli altri prodotti fino al 50%, e alle pratiche di concorrenza sleale. Questa invasione di prodotti cinesi sui mercati occidentali sembra tuttavia in contrasto con quanto dichiarato dai consumatori italiani sul made in China: una ricerca condotta nel settembre 2009 dalla Camera di Commercio di Monza e Brianza, intitolata “I cittadini e la moda”, e riportata sul quotidiano finanziario Milano Finanza, mostra che quasi metà dei consumatori italiani non acquista un capo d'abbigliamento se si accorge che l'etichetta dice “made in China”. In particolare il 43,3% degli italiani non compra l'ipotetico capo di fabbricazione cinese, mentre il 33,4% decide di comprarlo comunque.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il brand 'Made in Italy'

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Informazioni tesi

  Autore: Michela Quattrocchi
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2008-09
  Università: Università degli Studi di Milano
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Comunicazione Politica e Sociale
  Relatore: Luisa Leonini
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 181

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