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INTRODUZIONE 
 
“Le mutilazioni genitali femminili comprendono tutti gli interventi che 
producono un’ablazione parziale o totale degli organi genitali 
esterni della donna, o qualsiasi altra lesione degli organi genitali 
femminili, che sia praticata per ragioni culturali o di altro tipo e non 
a fini terapeutici”. Questa è la definizione data dall’OMS, 
dall’UNICEF e dal FNUAP nel 1997 in merito alle mutilazioni dei 
genitali femminili.  
In questo breve elaborato si parlerà proprio di questo fenomeno 
che interessa in larga parte la fascia sub-sahariana dell’Africa, 
precisamente 28 paesi del continente africano e alcuni stati del 
Medio Oriente e dell’Indonesia. Inoltre, grazie al fenomeno 
dell’immigrazione, che vede coinvolte sempre più donne, queste 
pratiche tradizionali sono emerse anche in Italia e nel resto dei 
paesi occidentali. Come si vedrà nel primo capitolo, si tratta di un 
argomento molto controverso che richiede l’utilizzo di una 
terminologia appropriata al fine di non urtare la sensibilità delle 
culture di cui tale pratica fa parte, ma anche al fine di smuovere le 
coscienze circa la gravità e le ripercussioni che tali usanze hanno 
sulla salute psico-fisica e sulla qualità della vita di migliaia di donne. 
A tale scopo il termine utilizzato in questo elaborato sarà quello di 
escissione/mutilazione genitale femminile (E/Mgf). In seguito ad una 
breve panoramica circa le stime del fenomeno, la sua diffusione 
geografica, le varie tipologie di intervento e l’età in cui esse 
vengono eseguite, si parlerà, nel secondo capitolo, delle radici di
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queste usanze e delle motivazioni che portano gli individui a 
perpetuarle. Si avrà subito modo di notare che ci troviamo di fronte 
ad un fenomeno di vasta portata che coinvolge vari aspetti della 
vita delle persone. Innanzitutto, attraverso l’analisi storica avremo 
modo di comprendere come tali pratiche siano state utilizzate in 
tempi molti remoti e in diversi luoghi del pianeta: nell’Antico Egitto, 
in Medio Oriente, nell’Antica Roma, ma anche nella Francia, nella 
Germania, nella Gran Bretagna e negli Stati Uniti degli anni 90’. 
Questo ci permette già di superare quella visione etnocentrica 
delle E/Mgf che vede tali pratiche come usanze arcaiche e 
barbare appartenenti solo alle culture diverse da quella 
occidentale. Nel terzo capitolo il fenomeno comincerà ad essere 
trattato secondo la prospettiva dell’intervento; verranno, dunque, 
analizzate le varie conseguenze a cui le donne escisse/mutilate 
vanno incontro sul piano della salute fisica, riproduttiva, psicologica 
e sessuale. Sono pratiche devastanti che devono essere conosciute 
in tutta la loro gravità. Tuttavia, spesso l’approccio salute da solo 
non basta per favorire l’abbandono delle E/Mgf per cui nel 
capitolo conclusivo verranno analizzati i vari approcci utilizzati 
nell’ambito dei programmi di intervento contro le pratiche escissorie 
e i principali progetti messi in pratica con grande successo 
all’interno delle comunità africane. Infine, il tema verrà trattato 
all’interno del contesto migratorio, con uno sguardo particolare al 
panorama italiano, su che cosa è stato fatto e su cosa si potrebbe 
fare per tutelare i diritti di donne e bambini presenti sul territorio 
italiano. Tutto questo tenendo presente che l’abbandono di tali 
pratiche richiede un impegno continuo e costante da parte di tutti 
gli attori coinvolti come lo Stato, gli organismi nazionali,
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internazionali e locali, il servizio socio-sanitario, le scuole e la società 
in generale superando l’atteggiamento iniziale di condanna, di 
pregiudizio e di stigmatizzazione e aprendosi alla comprensione, al 
dialogo e al rispetto delle culture altrui. Solo in questo modo si potrà 
costruire un ambiente favorevole all’abbandono delle E/Mgf.
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CAPITOLO 1 – INTRODUZIONE ALLE PRATICHE 
DI ESCISSIONE/MUTILAZIONE GENITALE 
FEMMINILE 
 
 
Prima di iniziare a parlare di mutilazioni genitali femminili, mi sembra 
opportuno riflettere sull’origine e sull’utilizzo della terminologia 
adottata per riferirsi a questo fenomeno. 
 
 
1.1 TERMINOLOGIA E CLASSIFICAZIONE 
Nel 1991 il termine mutilazione genitale femminile viene utilizzato per 
la prima volta dall’Inter African Committee ad Addis Abeba, la 
prima rete di organizzazioni africane nata nel 1984, allo scopo di 
tutelare la salute di donne e bambini. Il termine mutilazione viene 
scelto proprio in virtù della sua forte connotazione negativa con lo 
scopo di sottolineare la gravità del fenomeno e di distinguerlo dalla 
pratica di circoncisione maschile. Infatti, prima del 1991, le pratiche 
di mutilazione genitale femminile venivano descritte con il termine 
di circoncisione femminile (ancora oggi molte comunità a 
tradizione escissoria utilizzano questo termine per riferirsi alle 
pratiche di mutilazione genitale femminile), anche se la
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circoncisione maschile e quella femminile hanno ben poco in 
comune, essendo quest’ultima molto più invasiva e devastante, 
dato che priva la donna di un organo funzionale al suo benessere 
psico-fisico (il clitoride) e dunque effettua su di essa un danno 
irreversibile (Morrone, Vulpiani, 2004). 
Nel 1997, attraverso una dichiarazione congiunta, l’Organizzazione 
Mondiale della Sanità (OMS), il Fondo delle Nazioni Unite per i 
Bambini (UNICEF) ed il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione 
(FNUPA) adottano il termine mutilazione genitale femminile e ne 
danno la seguente definizione: “le mutilazioni dei genitali femminili 
comprendono tutti gli interventi che producono un’ablazione 
parziale o totale degli organi genitali esterni della donna o qualsiasi 
altra lesione degli organi genitali femminili, che sia praticata per 
ragioni culturali o di altro tipo e non a fini terapeutici”. 
Dall’analisi della seguente definizione, si evince che il termine 
“mutilazioni genitali femminili” include un’ampia varietà di pratiche 
e di interventi che si distinguono tra loro in base alle porzioni dei 
genitali che vengono asportate e modificate e in base alle 
modalità di esecuzione della pratica. Tenendo presente, dunque, la 
vastità delle tipologie di intervento e al fine di semplificarne la 
comprensione, l’OMS con il dossier “Eliminating female genital 
mutilation - A interagency statement” (OHCHR, UNAIDS, UNECA, 
UNESCO, UNFPA, UNHCR, UNICEF, UNIFEM, WHO), pubblicato nel 
2008, ha raggruppato i diversi interventi mediante la seguente 
classificazione:
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• Tipo I: asportazione parziale o totale del clitoride e/o del 
prepuzio, detta anche clitoridectomia. Tale forma di 
intervento prevede delle tipologie intermedie: il tipo Ia che 
consiste nella rimozione solo del cappuccio clitorideo o nella 
rimozione del prepuzio (questo tipo di intervento è l’unico 
paragonabile alla circoncisione maschile); il tipo Ib in cui 
vengono rimossi sia il clitoride, sia il prepuzio; 
• Tipo II: asportazione parziale o totale del clitoride e delle 
piccole labbra, con o senza asportazione delle grandi labbra, 
detta anche escissione. Anche il tipo II prevede la 
suddivisione in forme intermedie: il tipo IIa che consiste nella 
rimozione solo delle piccole labbra; il tipo IIb che consiste 
nella rimozione parziale o totale delle piccole labbra e del 
clitoride; il tipo IIc che è caratterizzato dalla rimozione 
parziale o totale delle piccole e grandi labbra e del clitoride; 
• Tipo III: restringimento dell’orifizio vaginale attraverso una 
chiusura ermetica coprente creata tagliando e avvicinando 
le piccole e/o grandi labbra, con o senza escissione del 
clitoride, detta più comunemente infibulazione. Anche 
questo tipo di intervento prevede due forme: il tipo IIIa che 
consiste nella rimozione e apposizione delle piccole labbra; il 
tipo IIIb che consiste nella rimozione e apposizione delle 
grandi labbra; 
• Tipo IV: non classificato. In questa categoria di interventi sono 
comprese tutte le altre procedure di diversa gravità realizzate 
a livello degli organi genitali femminili senza fini terapeutici, 
quali per esempio: piercing; pricking, ossia la compressione 
del clitoride e delle piccole labbra; incisione del clitoride;
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allungamento del clitoride e/o delle piccole labbra; 
cauterizzazione per ustione del clitoride e dei tessuti 
circostanti; raschiatura dell’orifizio vaginale detta anche 
“angurya cuts”; esecuzione di piccoli tagli della vagina, o 
“gishiri cuts”; introduzione di sostanze corrosive nella vagina al 
fine di provocarne il sanguinamento e il restringimento; e 
qualsiasi altra pratica che possa essere inclusa nella 
definizione generale di mutilazioni genitali femminili. 
Si tratta di una classificazione abbastanza ricca e corposa che ha 
lo scopo di includere qualunque forma di mutilazione a carico 
dell’apparato genitale femminile nella consapevolezza 
dell’esistenza di molteplici e vari tipi di intervento, i quali assumono 
aspetti e caratteristiche diverse a seconda del gruppo etnico, della 
religione, della tradizione e delle diverse credenze che supportano 
la persecuzione di tali pratiche (Catania, 2011). 
A questo punto, una volta visionate le varie tipologie di pratiche 
esistenti a carico degli organi genitali femminili, si può ben 
comprendere la scelta dell’OMS e di altre organizzazioni 
internazionali di utilizzare il termine “mutilazione”, il quale ha lo 
scopo di mettere in luce il  carattere negativo e nocivo di tali 
interventi. Come dichiarato da una nota ed importante 
organizzazione internazionale, ossia l’UNICEF, infatti, l’impiego del 
termine “mutilazione” vuole enfatizzare la gravità delle pratiche 
svolte che costituiscono un’inaccettabile violazione dei diritti umani, 
soprattutto quando si tratta di bambini, al fine di promuovere la 
consapevolezza e l’impegno nazionale ed internazionale alla lotta 
per l’abbandono. Tuttavia, per le comunità interessate, l’impiego di