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APPROFONDIMENTI

Caro Fabrizio

17/02/2006

Caro Fabrizio

E’ triste abitudine commemorare i grandi artisti, o in generale gli uomini che hanno contribuito al miglioramento della società, nel giorno in cui sono scomparsi, quasi a dire, ahimè!, che un genio, per essere riconosciuto tale, deve prima lasciarci orfani. A me piace ricordarli nel giorno della loro nascita, perché da allora sono entrati nella vita del mondo divenendone parte fondamentale.
E’ con questo spirito, caro Fabrizio, che oggi, 18 febbraio 2006, voglio scriverti, con la gratitudine che si deve a chi ti ha aiutato a vedere questo bizzarro mondo da un’angolazione diversa, lontana dalla banalità e dal conformismo. Già, perché sei stato tu ad insegnarmi l’importanza dell’anomalia, dell’eccezione rispetto alle regola. Avevi ragione, sai! Nel mondo degli ultimi, degli sconfitti, degli emarginati, si nasconde quella verità fatta di desiderio di ricevere e dare amore, e soprattutto di estrema dignità, che ci riporta all’essenza stessa dell’uomo, alla sua continua e incessante ricerca di libertà. Dal “letame nascono i fiori”, cantavi in “Via del Campo”1.

E’ stata per me una scoperta sorprendente l’origine di questa parola: “letame”; è avvenuta, (pensa un po’!) leggendo un racconto di un grande scrittore torinese, che sicuramente anche tu hai amato: Primo Levi. “Dirò di più: lungi dallo scandalizzarmi, l’idea di ricavare un cosmetico da un escremento, ossia aurum de stercore, mi divertiva e mi riscaldava il cuore come un ritorno alle origini, quando gli alchimisti ricavavano il fosforo dall’urina. Era un’avventura inedita e allegra, e inoltre nobile, perché nobilitava, restaurava e ristabiliva. Così fa la natura: trae la grazia della felce dalla putredine del sottobosco, e il pascolo dal letame, e «laetamen» non vuol forse dire «allietamento»? così mi avevano insegnato in liceo, così era stato per Virgilio, e così ritornava ad essere per me” 2.
Per molti dei tuoi personaggi, spesso costretti a subire le angherie di un potere crudele e dispotico, il contatto diretto con il dolore e lo smarrimento diventano stimolo per ricercare una strada alternativa, e ritrovare un piccolo angolo di serenità e di speranza. Dal basso della loro condizione di offesi e reietti si sprigiona allora una misteriosa ma potente energia. Tale forza ridona vigore a situazioni di per sé disperate, mostra l’estrema sfida del coraggio, dell’amore per la vita in qualsiasi modo essa si manifesti. Penso a Princesa, il transessuale di cui canti in un brano del tuo ultimo album “Anime salve” 3, ma anche a Maria ai piedi della croce4. Ella rivendica con forza il diritto a piangere la lenta agonia del figlio e in questo estremo, impotente gesto d’amore, possiamo leggere non solo la sua disperazione, ma anche la consapevolezza di una vita che trova nella maternità il suo più alto significato. Una maternità ferita dalla crudeltà del potere, ma piena e totalizzante.
E che dire della donna di Geordie, che cavalca nella notte nella speranza di salvare il suo amato dall’impiccagione? 5 O di quegli impiccati che, da un al di là non ben definito, domandano pietà per chi, come loro, ha errato, perdendosi? 6

L’attenzione con cui hai cantato le fragilità più riposte dell’animo umano, ti deriva certo dai lunghi giri per le vie della tua Genova, dove incontravi la miseria, ma anche e soprattutto la bontà di chi, nonostante nulla abbia, sa ugualmente donare con generosità. Sono però convinto che questa tua caratteristica sia nata da una sorta di abitudine alla solitudine. Un giorno, ad un concerto, hai detto: “Però, sostanzialmente, quando si può rimanere soli con se stessi, io credo che si riesca ad avere più facilmente contatto con il circostante… Il circostante non è fatto soltanto di nostri simili, direi che è fatto di tutto l’universo: dalla foglia che spunta di notte in un campo, fino alle stelle. E ci si riesce ad accordare meglio con questo circostante, si riesce a pensare meglio ai propri problemi, credo addirittura che si riescano a trovare anche delle migliori soluzioni. E siccome siamo simili ai nostri simili, credo che si riescano anche a trovare soluzioni per gli altri” 7.

Mi piace pensare, amico caro, che tu abbia voluto essere soprattutto un uomo tra gli uomini, a cui un misterioso e generoso destino ha donato una splendida, calda voce “d’oro”. Con questa voce, tra il chiacchiericcio spesso inutile e volgare della quotidianità, ci hai donato e ci doni piccole oasi di pace da cui scoprire, una volta ancora, la grande, misteriosa bellezza del nostro essere uomini. Semplicemente ma pienamente uomini.







Note:

1.“Via del campo”, in Fabrizio De Andrè, “Volume 1”, Dischi Ricordi, 1970
2. Dal racconto di Primo Levi “Azoto” in “Il sistema periodico”, Einaudi Scuola, Milano 2000, p.187.
3. Fabrizio De Andrè-Ivano Fossati, “Anime salve”, BMG Ricordi, 1996
4. “Tre madri”, in: Fabrizio De Andrè, “La Buona Novella”, Dischi Ricordi, 1970
5. “Geordie”, in: “De Andrè in concerto”, BMG Ricordi, 1999
6. “Recitativo”, in: Fabrizio De Andrè, “Tutti morimmo a stento”, Dischi Ricordi, 1970
7. Fabrizio De Andrè in AAVV (a cura di), “Ed avevamo gli occhi troppo belli”, supplemento al n 272 della rivista “A”, Editrice A, maggio 2001, p.57.


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